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Spadaccia Gianfranco - 31 gennaio 1972
Stampa, riforma dell'editoria e regime
di Gianfranco Spadaccia

SOMMARIO: Una delle ragioni della crisi del quotidiano in Italia è la scarsità dei lettori. L'italiano medio preferisce la stampa settimanale a quella quotidiana. E' inutile cercare la soluzione al problema della riforma dell'editoria nel finanziamento pubblico: "tutti" i giornali usufruiscono di agevolazioni e finanziamenti pubblici. Il vero problema è la mancanza di libertà di informazione, l'inesistenza di quella pluralità di voci e di orientamenti che dovrebbe essere il fondamento della stampa. Ogni ipotesi di riforma dovrebbe partire proprio da un censimento di tutti i finanziamenti pubblici e parapubblici.

(LA PROVA RADICALE N.2, BENIAMINO CARUCCI EDITORE, Inverno 1972)

Che il quotidiano sia in crisi non è una novità, né un fatto soltanto italiano. La differenza è che negli altri grandi paesi industrializzati le strutture editoriali entrano in crisi nonostante l'enorme numero di lettori. In Italia invece una delle componenti della crisi è proprio la scarsità dei lettori, e su di essa si inseriscono i tentativi per rendere sempre di più la stampa uno strumento del regime.

E' caduto ormai il luogo comune secondo il quale l'italiano non legge. La stampa settimanale, nonostante sia alle prese anch'essa con notevoli difficoltà, continua a sommare un numero di lettori di molto superiore alla stampa quotidiana e proprio per questo rimane il più forte collettore di pubblicità. I ceti sociali che all'inizio degli anni '50 si riversarono sui fumetti si orientano oggi su settimanali popolari ("Sorrisi e Canzoni-Informazioni TV" raggiunge e supera il milione di copie di vendita) verso i quali è bene abbandonare ogni inutile moralismo. Non è certo colpa della gente se il giornalismo in Italia riesce ad essere efficace soltanto quando parla di sport, di canzoni e di cose analoghe. La prima e vera crisi del quotidiano in Italia è dunque nella sua incapacità di attrarre questa massa potenziale di lettori, alla quale si sono invece diretti gli sforzi dell'editoria libraria.

Questo dovrebbe essere il punto di partenza del dibattito sulla crisi del quotidiano. Invece, all'italiana, se ne discute nella stessa maniera in cui si affronta la crisi dell'industria del pomodoro, sollecitando l'intervento di qualche altra partecipazione statale. E' questa la maniera, almeno, con cui qualche giornale di regime in crisi crede di risolvere i propri problemi e di eludere il problema fondamentale dell'assenza di un numero adeguato di lettori.

Sarebbe ingiusto liquidare con un giudizio così sommario il dibattito, pur importante, che la Federazione Nazionale della Stampa ha avviato sui problemi della riforma dell'editoria. Ma è un fatto che l'equazione "stampa intesa come servizio pubblico - intervento dello Stato nell'editoria" ha finito per prevalere su ogni altro aspetto della tematica della riforma. Anche perché - bisogna dirlo - di fronte a questa affermazione precisa, che incontrava immediatamente alcuni interessi, favorevoli e contrari, le altre ipotesi di riforma sono rimaste estremamente generiche: dalle agevolazioni a favore di cooperative di giornalisti, all'ipotesi assai discutibile di giornali regionali (nel senso di promossi dalle Regioni), al ruolo delle redazioni all'interno delle imprese editoriali. Sullo sfondo di questo dibattito, priva di approfondimento è rimasta un'altra proposta, avanzata dal giornalista comunista Alessandro Curzi e presente, insieme ad altre ipotesi, anche nel piano quinquennale predisposto dal ministero del

Bilancio: quella, cioè, di creare una rete di tipografie e una rete di distribuzione pubblica a disposizione di libere iniziative editoriali. Non meraviglia quindi che l'attenzione si sia concentrata tutta su quel punto, suscitando la legittima diffidenza dell'opinione pubblica che già ha sperimentato il »servizio pubblico della RAI-TV, e fornendo un'ottima arma di polemica ai »padroni del vapore della cosiddetta stampa indipendente.

Se il problema della riforma dell'editoria è tutto nel finanziamento pubblico, è bene chiarire una volta per tutte che questo è un falso problema, dobbiamo smetterla di prenderci in giro. Il finanziamento pubblico della stampa quotidiana è un fatto già esistente: in termini generali perché "tutti" i giornali usufruiscono di agevolazioni e finanziamenti pubblici che sono stati aumentati dai recenti provvedimenti governativi e vieppiù lo saranno con l'ultimo disegno di legge presentato al Parlamento; in forme particolari perché non è un mistero che un numero consistente di testate è di proprietà pubblica, e che altre sono direttamente foraggiate da enti di stato. "Il Giorno" e l'"Agenzia Italia" sono di proprietà dell'ENI, il "Mattino" e la "Gazzetta del Mezzogiorno" del Banco di Napoli, la "Gazzetta del Popolo" della Cassa di Risparmio di Torino. Negli ultimi mesi si è parlato di una consistente parte del pacchetto azionario del "Tempo" divenuta di proprietà dell'ENI, di un 30% di azioni del "Corriere della S

era" acquistate dalla "Montedison". Altri giornali come l'"Avvenire" e il "Globo" ruotano di fatto nell'ambito dell'ENI, altri ancora beneficiano di interventi parapubblici e sotterranei. Non è un mistero che la metà del bilancio dell'ANSA è coperta da finanziamenti pubblici della Presidenza del Consiglio e del Ministero degli Esteri e che stesso avviene per una cifra che va da un quarto a un terzo del bilancio, per l'"Agenzia Italia". Nel campo della pubblicità alcuni recenti articoli di Eugenio Scalfari hanno messo in luce quale tipo di condizionamenti su una parte della stampa quotidiana e settimanale, e quali operazioni finanziarie, sia in grado di realizzare e realizzi la SIPRA, di proprietà della RAI-TV. Si sa benissimo che un'altra concessionaria di pubblicità - la APR - gestisce i "budgets" pubblicitari del giornale della FIAT, di quello dell'ENI, di quelli del gruppo Monti, e di "Paese Sera"; che la FIAT contribuisce da anni a ripianare i bilanci deficitari della "Gazzetta del Popolo"; che sono in c

orso trattative per l'acquisto da parte della SIPRA di una percentuale consistente del pacchetto azionario di un'altra agenzia, la SPI, che gestisce la pubblicità del "Tempo", dell'"Unità" e di una catena di giornali minori. Se dalle agenzie che gestiscono gli spazi pubblicitari dei giornali spostiamo lo sguardo ai grandi collettori degli investimenti pubblicitari dell'industria, vediamo che per la prima volta il monopolio delle agenzie americane in questo settore comincia ad essere incrinato da agenzie nazionali fra le quali primeggiano la LAMBERT, che fa capo alla corrente dorotea di Rumor e Piccoli, e la LSPN che raccoglie la pubblicità del gruppo ENI, mentre si annuncia una riorganizzazione e una concentrazione di tutta la pubblicità "Montedison". E quando si è detto questo, non si è ancora detto nulla sulle altre forme di finanziamento, palesi o occulte, che le grandi concentrazioni del potere, pubblico e privato, attuano per condizionare la stampa.

Il quadro che ne emerge è chiaro, i fatti parlano da sé. La stampa è il quadro dove l'attuale situazione di regime, fondata su un intreccio di interessi pubblici e privati e su un equilibrio statico di coalizioni di potere, trova la sua più drammatica espressione. E' qui la vera causa della mancanza di libertà di informazione, della inesistenza di quella pluralità di voci e di orientamenti che dovrebbe esserne il fondamento. Ed è qui anche la vera ragione della crisi dei giornali. Che senso ha comprare e leggere giornali che non informano, che danno sempre spazio alle evasioni di una Italia sportiva e canzonettistica? Meglio comprare direttamente il lunedì mattina i giornali dello sport e i settimanali dell'evasione. E' più facile trovare lì qualche informazione e qualche nota di anticonformismo.

Ogni ipotesi di riforma dovrebbe partire quindi da un censimento di tutti i finanziamenti pubblici e parapubblici, che non è del resto difficile accertare. In mancanza di questo necessario accertamento e di una vigorosa lotta, è inevitabile che la riforma sia considerata come un modo per consolidare la situazione esistente. A questo sospetto non poteva sfuggire la proposta di Donat Cattin, di dar vita a una sorta di tassa sulla pubblicità da concentrare in un fondo pubblico per l'editoria e da utilizzare in maniera discrezionale a favore di alcuni giornali. Vi si è visto, giustamente, qualcosa di analogo al finanziamento dei partiti: un espediente per razionalizzare e rendere ufficiali e sicuri finanziamenti pubblici che rimangono ancora sotterranei e al limite del peculato e dell'illegalità; un mezzo per salvare alcune traballanti testate del regime, tutte controllate dalla Democrazia cristiana.

In questo paese nessuno è più disposto a bere la balla che un organo di stampa, in quanto pubblico, è più progressista e più libero di un altro che sia di proprietà privata. Dopo le vicende della Montedison, e già prima, il confine fra pubblico e privato è sparito. Molti organi »pubblici sono poco più che bollettini aziendali e parrocchiali anche se costano miliardi al contribuente e molti giornali privati sono già in parte pubblici. Quel tanto di libertà di stampa che riesce a filtrare attraverso le barriere della corruzione e della censura, si deve ai modesti organi di controinformazione che si vanno formando, e all'indipendenza di qualche redazione in qualche settimanale, o di qualche giornalista che ha sufficiente prestigio e coraggio per farla valere anche nei quotidiani (cosa che Gorresio è riuscito a fare sul giornale della FIAT prima e durante le elezioni presidenziali).

 
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