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La Prova Radicale - 31 gennaio 1972
Processo al processo
"Affare Braibanti"/dossier

SOMMARIO: In questo articolo viene revocata la battaglia del Partito Radicale contro l'affare giudiziario Braibanti. Il 16 febbraio Marco Pannella, Giuseppe Loteta e Mario Signorino sono stati processati dal Tribunale dell'Aquila per due aricoli pubblicati nel 1968 da "Notizie Radicali" e dall'"Astrolabio" sul "caso Braibanti". Imputati di diffamazione, calunnia e di oltraggio, i tre giornalisti hanno ribadito le accuse contro gli autori dell'incredibile processo per plagio che si concluse in primo grado con una sentenza a 9 anni, successivamente dimezzata in appello.

(LA PROVA RADICALE N.2, BENIAMINO CARUCCI EDITORE, Inverno 1972)

Il 16 febbraio Marco Pannella, Giuseppe Loteta e Mario Signorino sono stati processati dal Tribunale dell'Aquila per due articoli pubblicati nel 1968 da »Notizie Radicali e dall'»Astrolabio sul »caso Braibanti . Imputati di diffamazione, calunnia e di oltraggio, i tre giornalisti hanno ribadito le accuse contro gli autori dell'incredibile processo per plagio che si concluse in primo grado con una sentenza a 9 anni, successivamente dimezzata in appello.

Pubblichiamo: un articolo che rievoca la battaglia del Partito Radicale contro questo »affare giudiziario; i capi di imputazione a carico dei tre giornalisti; i due articoli incriminati di PANNELLA e LOTETA; interventi di PIERGIORGIO BELLOCCHIO e FRANCO FORTINI; stralci dei commenti di stampa alla condanna di Braibanti (UMBERTO ECO, CESARE MUSATTI, GIOVANNI JERVIS, GIORGIO PECORINI, MARCO RAMAT, CARLO CASALEGNO, GIULIO CATTANEO); »perché siamo stati condannati di M.P., contenente informazioni e valutazioni sul processo dell'Aquila.

Un unica battaglia politica, giornalistica, giudiziaria

Giustamente è stato fatto notare che il giudice che giudicò Aldo Braibanti e tanto contribuì a farlo condannare, il dott. Orlando Falco, ha il compito, nei prossimi giorni, di giudicare un altro anarchico: Pietro Valpreda.

Valpreda è accusato di aver fatto strage di corpi, Braibanti d'anime. Entrambi erano e sono poveri. L'uno viveva in un torrione, l'altro aveva un »covo , una catapecchia, assieme a suoi compagni. Quello ha dovuto »confessare , il carattere della sua vita e delle sue idee, sul piano sessuale, questo s'è già visto accusare di aver scritto »bombe, droga, anarchia ...

Per Valpreda, conosciamo ormai quali e quanti complotti fascisti e polizieschi abbiano portato alla possibilità della incriminazione. Per Braibanti, cominciammo a intuirlo solo dopo la prima condanna. Che, fra i due »imputati , le analogie siano in realtà arbitrarie, non importa. Che la ricerca, l'opera di Braibanti e la vicenda umana di Valpreda siano profondamente

diverse, e in gran parte opposte, è irrilevante; perché non dissimili, non estranee almeno, sono le forze che si sono mosse e dovranno giudicare l'uno, dopo aver condannato l'altro.

Quando ci accorgemmo, a processo iniziato, dell'affare - l'affare Braibanti - sul quale forniamo oggi ai lettori de "La Prova Radicale" una sommaria documentazione, non v'era traccia di quei due »fronti che si sarebbero poi effettivamente creati a proposito della vicenda di cui sono state vittime Aldo Braibanti e Giovanni Sanfratello. Se si eccettua un manifesto firmato da molti amici ed intellettuali non v'era ancora che accusa e linciaggio, cui facevano eco doglianze e paure per le »speculazioni su quella che veniva definita, dai giornali democratici, »null'altro che una squallida vicenda . Subito, la stessa difesa giudiziaria ci apparve esitante e paralizzata. Conniventi sembravano perfino l'imputato ed i pochi attivi suoi amici, quasi rassegnati a giocare il ruolo delle vittime, in uno spettacolo delle parti già prestabilite e assegnate.

Piombati in quell'aula della Corte d'Assise di Roma, udimmo - in poche ore - chiedere all'imputato se egli fosse »monista o dualista ; se con i suoi interlocutori s'intrattenesse anche a discutere del sesso delle formiche, della cui vita era uno dei rari studiosi in Italia; se avesse avuto o no rapporti sessuali con questo o con quello; se avesse o meno accusato un amico d'avergli masturbato il cane; e così via. Ad alcuni testimoni, se fossero omosessuali; se era vero che loro congiunti fossero conosciuti come pederasti. Udimmo poi una requisitoria allucinante, allucinata: storie di »giuramenti del sangue resi di notte, a luna alta, dinanzi alle tombe profanate di genitori, per ottenere che ignari e buoni giovani ripudiassero fino al ricordo del padre defunto; di miracolosi suoni di campane, di »sacri bronzi che con il loro richiamo - notturno, beninteso - salvavano ragazzi dalla perdizione, dalla morte spirituale, dalla più assoluta schiavitù, e ne liberavano l'anima di cui il loro compagno s'era imposses

sato.

Fummo martellati dalle ossessionate invettive contro i giacigli, sempre turpi e squallidi, dell'imputato; contro la sua miseria, o la sua povertà; contro la sua bruttezza, i suoi »ghigni (retaggio di altre, più antiche torture: naziste, quelle, anche ufficialmente); contro i suoi immondi voleri; contro il suo odio per la famiglia, l'amore, la libertà, la dignità, la giovinezza; contro la sua sete di distruzione e la sua demoniaca capacità di soddisfarla. Leggevamo, su un settimanale romano, un informatissimo giornalista affermare che nelle prigioni l'imputato non avrebbe potuto gioire proliferare proseliti: che manna i 14 anni chiesti dall'accusa per quell'anarchico!

Una distinta collega, ingannata dall'apparenza fisica di qualcuno di noi alla fine d'una udienza, lasciando posare il suo sguardo di gentildonna intellettuale e di scrittrice della domenica prima sull'imputato, poi sul pubblico: »E' proprio vero, basta guardarli - ci sussurrava, con tono complice - non è che una storia di giudei! .

A porte chiuse, ma non troppo, si contavano gli orgasmi, gli exploits sessuali attribuiti - da un povero sottoproletario, prostituto e procacciatore di incontri secondo alcune testimonianze in fondo senza grave colpa se non quella d'aver seguito il miraggio di guadagni e promesse, e goduto di qualche mese di inaspettata e sconvolgente promozione sociale - all'uomo che da più d'un anno aspettava in galera di venir giudicato per... plagio.

Vedemmo un giovane, consunto e febbrile, deporre "a favore" di colui che avrebbe dovuto essere stato il suo torturatore, l'assassino morale, malgrado che l'avessero, anni prima, già ventiquattrenne, rapito con la violenza, internato in manicomi, trattato con quaranta elettroshock e sette coma insulinici, interrogato e minacciato senza requie, liberato a condizione di continuare la »cura sotto uno psicanalista di scelta dei suoi rapitori, di non leggere libri editi da meno di cent'anni, di non rientrare a casa dopo il tramonto, di non incontrare mai i suoi amici, di obbedire e rispettare i suoi genitori, e infine essere riconosciuto dai periti del tribunale di Roma sano di mente, com'egli sempre s'era protestato. Colpevole solo di non crede più nel Dio della Controriforma, nel mondo clericale, nella famiglia che aveva dinanzi, nella laurea che volevano imporgli, nel terrorismo e nella violenza come sostanza della morale, nella ricchezza e nella carriera.

Leggemmo, negli atti, il crescere d'una violenza, della menzogna, del linciaggio. Udivamo, da ogni parte, l'insulto ed il sarcasmo contro l'intellettuale, l'artista, la scienza, la sinistra, il comunismo, l'anarchia: Braibanti diveniva il nome del male, la prova del demonio; la privata accusa, affidata ad un vecchio clericale del sottogoverno e ad un clerico-fascista, tanto per cambiare »annullato della Sacra Rota e presidente dell'unione monarchica italiana (e, in appello, ad un ex ministro della giustizia di Mussolini) tuonare una sera in nome della santità della famiglia e dell'infanzia contro gli »intellettuali di merda . Scoprivamo, dapprima increduli, un castello d'illegalità pubbliche e »private , tutte volte ad inchiodare l'imputato al reato di plagio perché - si affermava - il plagio era ormai moneta corrente n corrotta società moderna, e si doveva finalmente individuarlo e perseguirlo.

Imparammo della legge, in quei giorni, più che in anni di »studio e di obbligata attenzione. Scoprimmo che la legge è certo uguale per tutti ma, in genere, »ordinatoria per l'accusa e i giudici e »perentoria per gli imputati. Apprezzammo l'oceano che divide illegalità e nullità di una procedura. Misurammo anche, senza soverchio stupore, il poco coraggio di tanti intellettuali rivoluzionari e giuristi democratici.

Commentammo quotidianamente, e pubblicamente, il processo. Denunciammo quel che vedevamo, non occupandoci di difendere quel che non conoscevamo, o di piangere sulla sventura dei deboli: attaccammo i potenti che li aggredivano. La condanna a nove anni, in prima istanza, sorprese quasi tutti, non noi. Sapevamo, ormai che i giochi erano fatti. Pensiamo d'aver contribuito, comunque, già in quei giorni, al formarsi di quel fronte di persone civili, tolleranti, democratiche e laiche che ritenevamo necessario perché la gravità e la complessità di questo affare fosse compresa. Alcuni parlamentari, con i quali eravamo in contatto per la battaglia in corso sul divorzio, Ballardini e Spagnoli, presentarono un progetto di legge per l'abolizione dell'art. 603 del codice penale, creazione del guardasigilli fascista Rocco. I commenti della grande maggioranza della stampa furono negativi e spesso violenti.

Si trattava ora di organizzare davvero un'azione giudiziaria e politica che consentisse di sperare in un giudizio d'appello di riparazione. Sarebbe stato possibile, nello sdegno e nell'allarme di quei giorni, trovare le energie sufficienti per chiedere alle diverse istanze giudiziarie interessate di fare piena luce sulle eventuali responsabilità dei rapitori del giovane Sanfratello, dei medici e dei magistrati che lo avevano per anni tenuto rinchiuso e annichilito nei manicomi; per portare alla luce il ferreo ma anche evidente ingranaggio messo in moto da un gruppo di individui per arrivare alla condanna del Braibanti; per indagare a fondo sulla funzione avuta da una serie di prelati, preti, ordini religiosi, collitorti e torquemada di provincia; per inchiodare l'operato e la funzione assolta dai periti, su commissione del giudice istruttore... A condizione che l'appello fosse stato, come pareva, imminente. Ma, con Braibanti in carcere da più di un anno, il presidente Falco violò una decina di volte il termi

ne prescritto per depositare i motivi della sentenza. Il processo d'appello non fu quindi fissato che molto tardi, gli animi e le belle anime si smobilitarono. Vorremmo ricordare che il Partito Radicale, in questi anni, era impegnato, con le sue scarse energie, nella battaglia per il divorzio, in quella contro il Concordato, nella polemica contro l'assistenza clericale e l'OMNI (che doveva portare all'arresto del Sindaco Petrucci), per la promozione dell'obiezione di coscienza, nelle iniziative antimilitariste, nella difesa di provos e di nuove minoranze giovanili, nei convegni e nelle manifestazioni per la libertà sessuale... Utilizzammo il tempo a meglio conoscere gli aspetti meno evidenti e quelli più tecnici e giuridici dell'affare Braibanti.

I lettori troveranno, negli articoli che qui riproduciamo, sufficiente materiale di conoscenza del clima culturale, politico, di dibattito scientifico che s'accese in quei mesi. Noi ci occupammo piuttosto del castello giudiziario, dell'ingranaggio che sembrava dover necessariamente stritolare, in conformità con la legge (cioè con l'esistenza dell'art 603 del c.p.) Sanfratello, in manicomio, Braibanti, in carcere, una morale ed idee diverse da quelle attribuite alla maggioranza e predominanti nella classe dirigente, nella coscienza popolare.

Attraverso pubblici dibattiti (al primo, nella sede del Partito Radicale, intervennero molte centinaia di persone, come liberate da un incubo), lo studio degli atti processuali, colloqui non prevenuti anche con gli altri accusatori (non escluso il dott. Lojacono e il principale organizzatore del linciaggio, il non banale, lucidissimo, oltranzista clericale Agostino Sanfratello), ricerche con psicanalisti e giuristi, indagini - dovunque affioravano ipotesi di interessi convergenti, anche se apparentemente i più estranei - a Firenze, nel piacentino, a Roma, cercammo di comprendere e di far comprendere come fosse accaduto che il primo reato di plagio aveva così clamorosamente preso corpo in Italia.

Acquisimmo lentamente la convinzione che senza una serie di falsi e di menzogne dolose da parte della privata accusa, senza un clima di terrorismo ideologico e di volontà di persecuzione politica e culturale, senza le solidarietà che in tal modo s'erano venute preparando ma, "soprattutto", senza un'istruttoria arbitraria, senza una giustizia sommaria nella fase inquirente, senza una serie precisa di violazioni di norme procedurali e senza l'intimidazione e il soffocamento della difesa, il sequestro di persona di Giovanni Sanfratello e le vessazioni cui era stato sottoposto, senza l'"invenzione" di un personaggio come il Toscani, mera »cosa nelle mani dei familiari del Sanfratello, il plagio sarebbe restato quel che era sino a quel momento: un tentativo (non portato a termine per mancanza di necessità immediata) di fornire al regime fascista un ulteriore strumento di controllo e di violenza contro i suoi oppositori.

A questo punto, la legge e la giustizia apparivano in contraddizione, in contrasto. V'erano dei probabili »delinquenti , certo, nella vicenda, ma non dove s'erano cercati e trovati fino ad allora. Non ci restava che affermarlo, assumendoci la responsabilità di provare quel che sostenevamo - o comunque - di esprimere quel che ritenevamo ormai esser la verità. Una volta di più la »politica ci apparve il modo migliore per impegnarci civilmente e umanamente: culturalmente disattenti e disinteressati, ideologicamente inconsistenti (almeno nel senso che al termine viene correntemente conferito) riconducemmo nel quadro generale della nostra contestazione della giustizia antidemocratica, classista, funzionante o disfunzionante a seconda degli interessi e delle convenienze, i motivi e gli obiettivi d'impegno in questo »affare .

Sull'»Astrolabio , con gli interventi e i servizi dei nostri compagni Spadaccia e Loteta, su »Notizie Radicali diffuse a molte migliaia di copie iniziammo quel »processo al processo , quella risposta accusatoria al fronte dell'accusa e del linciaggio, che non poteva non tradursi, almeno per chi qui scrive, nella ricerca consapevole e responsabile di un nuovo scontro, o di nuovi scontri "anche" giudiziari. Che di tutta questa vicenda dove, da tante parti, contestatrici e potentemente democratiche, s'erano uditi sottili squilli di trombe e fatti visi d'arme, oggi non resti viva che l'azione del Partito Radicale, è un segno da non sottovalutare, e che ci conforta.

Al di là delle mode e delle rassegnazioni, delle fiammate d'odio e delle rabbie distruttrici, dei pietismi e dei lirismi letterario-giacobini, l'umile nostra impresa di costruire, senza sosta, con rigore, nella durata, moduli e metodi politici rinnovati e alternativi, mostra d'esser valida e solida.

Noi ci auguriamo che da L'Aquila venga almeno un monito al magistrato Orlando Falco: ch'egli non osi condurre il processo per la strage di Milano così come ha consentito che si svolgesse quello contro Aldo Braibanti. Ch'egli non chieda o non lasci chiedere quel che è proprio d'un processo alle idee, alla caccia al demonio o alle streghe. Ch'egli non avalli, anche questa volta, una istruttoria accusatoria e equivoca, clamorosamente parziale e inadeguata.

Anche questo, infatti, è in giuoco con il processo dell'Aquila. Se quel Tribunale avrà avuto infatti il coraggio (ce ne vuole) e l'onestà di assolverci, riconoscendo la verità di quanto abbiamo affermato, la doverosità oltre che la liceità delle accuse che abbiamo pubblicamente espresso, pensiamo che avremo fornito, in generale ed in particolare già in occasione del processo per la »strage di stato una prova di concretezza e di efficacia democratica, di capacità politica che a troppi fa comodo ignorare o contestare.

 
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