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Pannella Marco - 31 gennaio 1972
Processo dell'Aquila: perché siamo stati condannati
di Marco Pannella

SOMMARIO: Pannella spiega che "la condanna per diffamazione si riferisce alle affermazioni radicali sull'illegalità del'istruttoria e del processo, sulla violazione di norme procedurali che si sono rivelate essenziali per la costruzione del castello accusatorio, giuridico e pubblicistico, per tradurre in una condanna unica nella nostra storia il complotto ordito per colpire Aldo Braibanti ed i valori che si riteneva di poter colpire attraverso di lui. ..."

(LA PROVA RADICALE N.2, BENIAMINO CARUCCI EDITORE, Inverno 1972)

Non conosciamo ancora le motivazioni della sentenza del Tribunale dell'Aquila con cui si sono condannati Giuseppe Loteta e Marco Pannella, a 9 mesi, Mario Signorino a 8 mesi per diffamazione ai danni di Antonino Lojacono, querelante. Possiamo sin d'ora fare alcune osservazioni, che integrino il »dossier che LPR offre ai suoi lettori.

Sono cadute le accuse di oltraggio e calunnia e due delle tre imputazioni di diffamazione specifica che erano contenute nell'atto di citazione. Questo malgrado che il tribunale avesse accettato di modificare (e aggravare) nel corso del dibattimento l'atto di accusa facendo dei tre fatti criminosi determinati solo un punto di riferimento esemplare ed estendendo a tutto l'articolo che scrissi su "Notizie Radicali" l'ipotesi delittuosa. La condanna sostanzialmente identica a Signorino, Loteta e me sembrerebbe mostrare che è stato soprattutto l'articolo dell'"Astrolabio", piuttosto che quello su "Notizie radicali", ad essere riconosciuto diffamatorio. Ma su questo punto torneremo fra un istante.

La condanna per diffamazione si riferisce alle nostre affermazioni sulla illegalità dell'istruttoria e del processo, sulla violazione di norme procedurali che si sono rivelate essenziali per la costruzione del castello accusatorio, giuridico e pubblicistico, per tradurre in una condanna unica nella nostra storia il complotto ordito per colpire Aldo Braibanti ed i valori che si riteneva di poter colpire attraverso di lui.

Ora, questa affermazione sull'illegalità della procedura e sul mancato rispetto delle garanzie stabilite dalla legge nei processi penali non è nostra. E' stata fatta, sostanzialmente, da tutta la stampa; ma è stata fatta, in pieno processo, con chiarezza, reiteratamente, dallo stesso Lojacono. Lojacono ha infatti dichiarato che egli non si sarebbe querelato se noi ci fossimo limitati ad accusarlo d'aver commesso sul piano della conduzione dell'istruttoria delle illegalità. Per lui, esse erano al momento dei fatti »prassi ben stabilita; aveva avuto "ordini" dal »capo (sic: intendeva probabilmente il Procuratore Velotti) di dare la precedenza ad altri dossier, contro enti pubici e di Stato. Aver tenuto in »sommaria l'istruttoria che avrebbe dovuto formalizzare; averlo fatto per tre anni e due mesi, aver omesso di intervenire al sequestro di persona compiuto contro il Sanfratello, ecc... tutto questo è indiscusso. Deve essere anche irriferibile, secondo i giudici dell'Aquila. Violare la legge (e il codice di

procedura penale è tale) non è illegale, o non si può affermarlo impunemente.

Non avevamo pensato troppo a difenderci su questo punto. In realtà non abbiamo, sull'"Astrolabio", Signorino, come responsabile, Loteta come autore dell'articolo, io come intervistato, che compiuto il nostro dovere di informazione, e esercitato i nostri diritti di critica.

Nelle loro arringhe i nostri difensori (quanta gratitudine dobbiamo loro, è inutile sottolinearlo: De Cataldo, Reina, Tarsitano hanno non solo prestato gratuitamente la loro opera ed il loro valore professionale, ma affrontato finora loro soli le spese processuali) hanno praticamente sorvolato, sul "piano giuridico", su questo aspetto del processo: i fatti da loro evocati erano - e sembravano a tutti - anche alla privata e pubblica accusa - incontestabili. Avevamo cioè fornito la »prova delle nostre asserzioni.

Era stato acquisito agli atti, infatti, anche un articolo di Ferruccio Parri; ben più grave, sul punto specifico, del nostro. Con chiarezza e con coraggio, Parri aveva scritto di sentirsi pienamente corresponsabile quanto alle accuse ed alle critiche pubblicate dall'"Astrolabio", aggiungendo la sua convinzione che le illegalità denunciate implicassero "conseguenze penali" a carico dei responsabili. L'avvocato di parte civile, malgrado questo, ha dichiarato nel corso del processo che non di questo punto Lojacono si doleva, e che quell'articolo avrebbe potuto essere sottoscritto, da qualsiasi democratico - additandolo come esemplare!

Ma allora, perché siamo stati condannati? Il Tribunale ci ha assolto da ogni accusa per quanto ho scritto contro Falco - aiutati certamente anche dalla decisione di questo magistrato di non costituirsi parte civile e di non impegnarsi in questo processo. Ci ha assolto per le affermazioni e le critiche che sono a tutti apparse come le più gravi, e che Lojacono ha qualificato come »aberranti . Rischiavamo teoricamente più di quindici anni e ci hanno inflitto meno di un anno.

Tutto questo non è forse "molto interessante"? E' arbitraria anche la semplice ipotesi che psicologicamente non siamo stati assolti solo perché questo sarebbe stato una decisione clamorosa, che avrebbe sconvolto la maggioranza della casta giudiziaria, che sarebbe stata ricevuta dalla maggioranza dell'opinione pubblica come una sconfessione e una condanna dell'intero processo Braibanti e della vicenda che noi avevamo qualificato come »violenza di Stato ?

Come si sarebbe presentato il presidente Falco al processo Valpreda? Sarebbe stato possibile non aprire in realtà un procedimento disciplinare contro Lojacono e Falco?

Arriviamo allora ad una considerazione obbligata. Siamo stati condannati, probabilmente, a causa del volontario, deliberato isolamento e silenzio in cui tutta la sinistra, parlamentare ed extraparlamentare, cerca di circoscrivere ogni battaglia e iniziativa radicale, anche quando in tal modo rischia di consegnarci con le mani (non solo metaforicamente) legate alla repressione ed alla violenza di stato.

Del processo dell'Aquila, se si tolgono le notizie neutre ed obbligate sul piano dell'informazione comparse qua e la su settimanali e quotidiani, non si è parlato né scritto malgrado ogni nostro sforzo in senso contrario. Poche persone, in Italia, si sono mosse avvertendo il significato di questa vicenda e non accettando di diventare, sia pure per semplice omissione conviventi. E' facile enumerarle: Grazia Cherchi, Piergiorgio Bellocchio; Franco Fortini; Umberto Dragone e Tomassini del Club Turati di Milano Andrea Barbato, che ha scritto l'unico servizio comparso sulla stampa sull'argomento, su "Tempo Illustrato", "Il Manifesto", al solito silenzioso ogni volta che la repressione ci coinvolge e che si tratti di prendere atto di iniziative radicali, ha alla fine pubblicato la lettera di Bellocchio; "Sette giorni" anche, ma a processo e condanna avvenuti. Hanno avvertito, anche se una comprensibile neutralità di accenti, il rilievo di questo confronto giudiziario "Il Messaggero" e, inizialmente, "Il Mattino" d

i Napoli. E' tutto.

Assolverci, in queste condizioni, sarebbe stato un atto di eroismo, non di semplice coraggio, fors'anche suicida per i magistrati che se ne fossero assunti la responsabilità, tenuto conto della rivolta di casta che avrebbe dovuto affrontare.

Ecco perché, a nostro avviso, siamo oggi condannati. Non ce ne spiace per quanto dovremo, personalmente, pagare; per dei militanti quali siamo si tratta d'un incidente previsto, cui siamo preparati. Non si svolge azione di rottura, non si è dei veri oppositori d'un regime raccogliendone prebende, compensi, tranquillità sociale, carriere negli enti pubblici, parapubblci e

privati.

Ci addolora quanto si è dilapidato d'una occasione che avevamo, non per noi ma per tutto il fronte di coloro che lottano per un'alternativa civile e politica radicale, costruito con chiarezza e rigore.

Comunque, non c'è da scoraggiarsi. C'è ancora il giudizio di Appello. E, ancora, speriamo che non saremo di nuovi soli, in vista di quella occasione.

 
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