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Craveri Piero - 31 gennaio 1972
Socialisti e impresa pubblica
di Piero Craveri

SOMMARIO: Viene qui pubblicato un breve elenco delle principale cariche ricoperte dai socialisti nell'industria, nella finanza pubblica ed in enti significativi. Vengono citati due casi indicativi, quello di Luigi Grassini vice presidente dell'ENEL e quello di Francesco Forte vicepresidente dell'ENI, e viene commentato un articolo di Silvano Labriola dal titolo "I socialisti e l'impresa pubblica" (di replica ad interventi sul medesimo tema di Alberto Ronchey sulla Stampa e di Cesare Zappulli sul Corriere della Sera). Craveri ricostruisce quellla che fu la strategia di potere socialista nei riguardi della impresa pubblica negli anni del primo esperimento centro-sinistra (1963-68) passando per la costituzione del Ministero delle Partecipazioni Statali per il Piano Senigallia per l'industria siderurgica, fino alla costituzione dell'Eni.

(LA PROVA RADICALE N.2, BENIAMINO CARUCCI EDITORE, Inverno 1972)

Il breve elenco che pubblichiamo qui sotto è certamente incompleto, ma nel nel suo complesso, malgrado la povertà delle sue articolazioni, promette di più, se non si facessero le debite osservazioni, circa la penetrazione dei socialisti nei ranghi della tecnocrazia manageriale pubblica, di quanto si sia verificato nella realtà.

Le principali cariche di socialisti nell'industria e nella finanza pubblica e in enti significativi

P=presidente; VP=vicepres.; AD=amministratore delegato; C=consigliere di amm.

Luciano Paolicchi AD della RAI; AD della SIPRA

Massimo Fichera C della RAI

Gianguido Borghese C dell'IRI; P Società Adriatica di Navigazione

(Finmare)

Gianlupo Osti AD Terni (Finsider)

Pasquale Schiano P Società Tirrenia di Navigazione (Finmare)

Leo Solari VP Credito Italiano (IRI); AD SACIS (società

controllata dalla RAI)

Francesco Forte VP ENI

Luigi Grassini VP ENEL

Gino Sferza uno dei quattro AD Montedison; all'interno di questo

gruppo è P ACNA, Cokitalia, Montedel; VP Polymer,

Rhodiatoce, Farmitalia, Cokapuania-Vetrocoke; VP E

AD STANDA; AD Vetrobel

Antigono Donati P Banca Nazionale del Lavoro; P Efibanca

Nerio Nesi VP Cassa di Risparmio di Torino; VP Banca Subalpina;

VP LOCAT - Locazione Attrezzature

Benedetto Dalmastro P Cassa di Risparmio di Cuneo

Roberto Laviano VP Banco di Napoli; VP Istituto Fondiario del Banco

di Napoli

Paolo Pagliazzi Provveditore generale Monte dei Paschi di Siena; VP

Istituto di Credito Fondiario del Piemonte e della

Valle d'Aosta

Scricciolo VP Monte dei Paschi; VP Istituto Fondiario del Monte

dei Paschi

Simonelli VP Banca Toscana (controllata dal Monte dei Paschi)

Luciano Dalla Tana C Banca Commerciale Italiana (IRI)

Baldo de Rossi P Istituto Studi Edilizia Sociale

Ercole Bonacina P Istituto Nazionale Trasporti

Filippo Bordoni Direttore generale delle Ferrovie dello Stato

Dagnino P Consorzio Autonomo del Porto di Genova

Filippo Carpi de Resmini P Automobile Club di Roma

Francesco Froio P Cogne

Giuseppe Lamberto Direttore generale Fonit-Cetra (IRI)

Bastano due casi indicativi, quello di Luigi Grassini vicepresidente dell'ENEL e quello di Francesco Forte vicepresidente dell'ENI. Il primo, voluto da Riccardo Lombardi all'indomani della nazionalizzazione, mostrò subito la sua incapacità ad incidere sulle scelte imprenditoriali dell'Ente e la sua volontà di muoversi al di fuori di ogni legame operativo con la politica socialista; nel 1968 impose il rinnovo del suo mandato al partito, che era convinto dell'opportunità di sostituirlo, ma incerto sul chi e sul come.

La storia di Francesco Forte vicepresidente dell'ENI è nota, perché risale a pochi mesi fa, ma non per questo è meno esemplare. Persa ogni prospettiva di imporre alla presidenza dell'ENI un socialista (nel marzo-aprile 1971 si era fatto anche il nome di Giorgio Ruffolo) il PSI prese a trattare la vicepresidenza, valendosi di uno »ius nominandi molto simile a quello di certi sovrani giurisdizionalisti del '600 in materia di cariche ecclesiastiche, che si vedevano presentare dal nunzio pontificio una rosa di nomi (mai più di cinque) entro cui essi potevano sovranamente operare la loro scelta. Così Girotti venne prima proponendo l'amministratore delegato dell'AGIP Giuseppe Bartolotta, che non era mai stato iscritto alla DC e poteva anche vantare una consorte di antichi sentimenti socialisti, tesserata da qualche anno al Partito. Fu poi la volta di Italo Pietra, il direttore del "Giorno" (quotidiano dell'ENI), a cui il PSI contrappose, nel novembre, l'editorialista economico del medesimo giornale, appunto il so

cialista, professore universitario Francesco Forte, già consigliere di amministrazione dell'Ente e consulente di numerosi altri enti pubblici, autodefinitosi qualche mese prima, in un dibattito sulla riforma universitaria aperto dalla Stampa di Torino, come un »barone da 380.000 lire al mese . La cronaca delle ultime settimane ci informa che in concomitanza con I'insediamento di Forte sono stati esonerati da qualsiasi responsabilità quei pochi quadri aziendali socialisti inseriti nell'organico direzionale dell'Ente e che il nuovo vicepresidente è ancora in attesa di deleghe.

Ci fermiamo a questi due dati di cronaca, non perché il commento dovrebbe essere alquanto diverso in altri casi - si pensi alla RAI-TV o a riferimenti altrettanto incerti, per il potere socialista s'intende, come ad esempio Antigono Donati alla presidenza della Banca del Lavoro e Paolo Pagliazzi provveditore del Monte dei Paschi. Quello che ci può sfuggire, dietro a questo quadro sono i dati relativi ai finanziamenti e ai favori di sottogoverno, nonché i tramiti effettivi di essi, con cui gli Enti pubblici sostengo il PSI e le sue correnti interne. Non ci sfugge invece, al di là della cronaca spicciola in cui sono coinvolti di volta in volta fatti e persone, la possibilità di dare un giudizio sulla politica socialista nei riguardi dell'impresa pubblica.

Una sortita su questo argomento l'ha fatta Silvano Labriola, uno dei più fidati collaboratori di Francesco De Martino, con un articolo sull'Avanti! del 21 gennaio, dal titolo "I socialisti e l'impresa pubblica", di replica ad interventi sul medesimo tema, per altro superficialmente provocatori, di Alberto Ronchey sulla Stampa e di Cesare Zappulli sul "Corriere della Sera". Vi si sostiene come »obbiettivo essenziale della nostra azione politica l'estensione delle dimensioni e delle funzioni dell'impresa pubblica e ciò in coerenza »con la nostra matrice ideologica, che suggerisce tale obbiettivo come essenziale nella fase di transizione al socialismo .

Sono affermazioni di principio su cui esprimono riserve anche i comunisti osservando ad esempio che »la distinzione che oggi i teorici del neocapitalismo fanno tra capitale pubblico e capitale privato - nel modo concreto in cui essi operano - è in effetti soltanto giuridica. Si guarda cioè soltanto al »soggetto che ha il controllo dell'apparato produttivo, senza chiedersi se, nella prassi politica ed economica, a questa distinzione corrisponda una diversità di intenti e di finalità: in breve senza chiedersi in definitiva in quali mani sia il potere, in che modo questo venga esercitato, di quale Stato sia espressione (G. D'Alema, "Nuove forme di controllo per l'impresa pubblica", in "Rinascita", 14 gen. 1972). Sono interrogativi che Silvano Labriola, non essendo un teorico del neocapitalismo, avrebbe dovuto porsi, non solo per contribuire a superare l'attuale fase di stallo del riformismo socialista nei riguardi dell'impresa pubblica, ma per spiegare, oltre che deprecare, fenomeni più contingenti come la sv

olta conservatrice data dal Ministro delle Partecipazioni Statali al problema delle relazioni industriali e dell'occupazione, nonché il perché »il partito di maggioranza relativa (abbia) prodotto un considerevole sforzo di accaparramento del potere, che nell'ambito delle partecipazioni statali si è fatto più acuto in questi ultimi tempi .

Quello che delude nell'articolo di Labriola - una delle poche »autorevoli riflessioni in materia comparse negli ultimi tempi da parte socialista - è che invece di approfondire l'analisi e contribuire a rovesciare quella che fu la linea di tendenza del primo centrosinistra, se ne ribadiscono acriticamente i propositi, mostratisi fallimentari, si riduca cioè tutto al »problema delle garanzie, che risiede principalmente nel superamento dell'unica vera realtà e cioè la tendenza al monopolio e all'inintangibilità dell'influenza, quando e nella misura in cui esiste, di un solo partito, nell'ambito dell'impresa pubblica , e si continua a credere che sia un »problema aperto , quando i fatti hanno dimostrato che si tratta di un problema più che mai chiuso per i socialisti, su cui essi hanno registrato una secca sconfitta.

E' necessario, se si vuole svolgere un'analisi pertinente, ricostruire quella che fu la strategia di potere socialista nei riguardi dell'impresa pubblica negli anni del primo esperimento di centro-sinistra, 1963-68. Esemplare a questo proposito è il documento che si legge in appendice al programma elettorale del Partito Socialista Unificato del 1968, dal titolo "La funzione del Partito nella società attuale". In esso si osserva che »il potere, nella società capitalistica attuale, non è concentrato esclusivamente nelle istituzioni politiche, ma si diffonde e ramifica in numerosi centri decisionali. Pertanto il Partito Socialista tende ad essere presente direttamente o indirettamente nelle sedi decisionali al livello delle collettività di lavoro o delle associazioni sociali e dei centri pubblici di potere per influire sulle scelte pubbliche, per orientare il processo di formazione della volontà collettiva e promuovere la più ampia partecipazione dei lavoratori alla gestione del potere . In altra parte dello st

esso documento si avverte bensì che »una compenetrazione tra partiti e organi pubblici se può essere vantaggiosa per gli interessi corporativi dei partiti conservatori sarebbe mortale per il Partito Socialista che verrebbe così a perdere la sua autonomia incorporandosi nel blocco di potere , senza cogliere tuttavia la contraddizione che corre tra questi due assunti tra loro opposti e accontentandosi di affermare che »il Partito, per restare socialista e lavorare per il socialismo, deve essere sempre un passo avanti alla realtà ed ai compromessi politici parlamentari . Come questo passo avanti andasse compiuto non si dice e circa le nomine degli organi dirigenti degli enti pubblici, nel medesimo documento, ci si limitava a stabilire una ampia lista di incompatibilità tra cariche pubbliche e cariche di Partito. Ma ciò, se introduceva alcune garanzie di democraticità nella vita interna di Partito, non per questo voleva dire risolvere il rapporto di compenetrazione tra Partito ed enti pubblici.

Non vogliamo qui sopravvalutare la portata esemplificativa di questo documento, frutto del lavoro di un'apposita commissione nominata dal Comitato Centrale nel luglio 1967 e presieduta dall'allora cosegretario on. Tanassi. Certo è che nelle sue superficiali e contraddittorie proposizioni esso riflette il travaglio delle speranze riformiste del PSI a confronto con gli strumenti reali di governo e di potere economico pubblico.

La prima illusione era stata quella di credere che il nuovo governo di coalizione avrebbe funzionato da cinghia di trasmissione degli accordi programmatici siglati dalle forze politiche. Gli scontri più duri avvennero proprio nella stesura degli accordi di governo. Anzi l'avvio al così detto centrosinistra organico iniziò on una rottura clamorosa, quella della notte di S. Gregorio, Tamburrano nella sua "Storia e cronaca del centrosinistra", riferisce di aver chiesto a Giolitti se non fosse stato un errore l'atto di rottura dei lombardiani: »ha risposto con franchezza: probabilmente abbiamo attribuito un'importanza determinante alle parole del testo degli accordi mentre il problema era principalmente politico .

Il »problema politico a cui accenna Giolitti era indubbiamente in primo luogo quello delle profonde cesure che intercorrono tra vertice dei partiti di coalizione e Governo, tra Governo e Parlamento, all'interno stesso del Governo tra orientamenti divergenti dei singoli ministri e tra ministri e burocrazia statale da un lato, tecnocrazia pubblica dall'altro. E dietro a queste cesure istituzionali covavano e covano quelle ancora più profonde interne alle forze politiche stesse della maggioranza di Governo. Proprio Giolitti sarà il primo ad affrontare questo »problema politico con le sue dimissioni dal primo Governo Moro, nonché a dichiarare per primo il carattere obsoleto del centrosinistra organico, la necessità di accordi di Governo su singoli provvedimenti di riforma, governi non di legislatura, ma a termine.

Ma dichiarare obsoleto il centro-sinistra organico, se voleva dire in un certo senso far tesoro della prassi di Governo del primo centro-sinistra e adeguare ad essa la maggiore incisività dell'azione riformatrice, voleva dire anche dare implicitamente per scontata l'impossibilità di un'organica linea di Governo proprio nelle sedi in cui essa si manifesta non soltanto nella promozione legislativa, ma in una serie continuata ed articolata di atti di Governo, cioè in sede di politica economica d'ordine pubblico.

L'illusione socialista che le tensioni del corpo sociale e le strozzature del nostro sistema istituzionale potessero essere mediate attraverso accordi programmatici di vertice tra forze politiche, che per di più esprimevano realtà politiche e sociali tanto diverse - illusione molto simile a quella che, in un quadro politico certamente differente, aveva guidato la tenace volontà di mediazione dell'on. Togliatti, nei governi tripartiti che seguirono la Liberazione - doveva dunque franare a pezzo a pezzo nel mezzo di questa complessa rete di contraddizioni. Si rafforzava così la convinzione che il rapporto di Governo tra i cattolici e i socialisti poteva essere garantito in termini non subalterni per questi ultimi opponendo al fitto intreccio di legami di potere che dalla DC passava all'interno della burocrazia statale e degli Enti pubblici, un'uguale controstruttura che costituisse la base di appoggio alla politica del Partito come forza di Governo.

Trattasi della seconda illusione socialista. Essa, per quanto riguardava l'impresa pubblica, non teneva affatto conto di come questa aveva formato il suo ceto dirigente, né di quanto il controllo pubblico su di essa passasse attraverso certi settori della Democrazia Cristiana, piuttosto che attraverso gli organi dello Stato che vi sono istituzionalmente preposti, né come essa fosse nata e si fosse rafforzata per questa via in uno stretto rapporto con l'impresa privata, che i contrasti degli anni '50 non avevano cancellato, ma che anzi nella seconda metà degli anni '60 avrebbero dovuto divenire più stretti.

Né la costituzione del Ministero delle Partecipazioni Statali e il susseguente sganciamento delle imprese pubbliche dalla Confindustria avevano affrontato il problema del riordinamento di queste, impedendo che la nuova struttura degli Enti di gestione finisse per coincidere con i vecchi ed eterogenei raggruppamenti, in primo luogo l'IRI, che nel corso del tempo si erano andati sedimentando, e preoccupandosi invece di marcare più nettamente la distinzione tra settore pubblico e settore privato, con una ridistribuzione delle partecipazioni, che le distinguesse in settori omogenei, come bene, peraltro, aveva indicato il Convegno del PSI del 1958 proprio sul tema delle partecipazioni statali. In occasione della discussione parlamentare sul primo bilancio preventivo del Ministero delle PPSS, un attento commentatore di cose economiche osservava che »se si accoglie la tesi di coloro che sostengono - come hanno sostenuto l'on. Lombardi e il sen. Parri - che le imprese controllate dallo Stato devono servire a combatt

ere i monopoli, a industrializzare il Mezzogiorno, a lottare contro la disoccupazione, ad accrescere il reddito nazionale, od a raggiungere qualsiasi altro obbiettivo di carattere pubblicistico, indicato dal governo e dal Parlamento, è necessario modificare sostanzialmente tutto l'ordinamento ereditato dai salvataggi bancari e dalla politica autarchica e militare del fascismo (E. Rossi, "I nostri quattrini", Laterza 1964, p. 463).

Quello che occorreva modificare era il sistema economico - e il particolare rapporto ad esso connesso tra Stato ed imprese pubbliche e private che si era andato ricostituendo dopo la svolta politico-economica del 1947. Questo, com'è noto, si era rafforzato al di fuori di un quadro esplicito di obbiettivi di sviluppo fissati dallo Stato, e quindi del controllo conseguente alla fase di realizzazione di tali obbiettivi. Il supporto dello Stato, nelle sue varie forme, al ceto imprenditoriale venne basato sostanzialmente sul vecchio principio liberistico che identificava l'interesse pubblico con la convenienza economica di quello. E ciò in un momento (piano Marshall, ecc.) in cui lo Stato avrebbe potuto avere un potere di indirizzo di particolare efficacia, proprio per il quasi monopolio di cui godeva nell'offerta dei capitali, e che attuò, nella totale assenza degli organi politici dalla gestione degli interventi, sulla base di criteri di mera discrezionalità tecnica, attinenti alla solvibilità del beneficiario.

In questo ambito l'impresa pubblica continuò ad occupare gli spazi che il capitale privato non era in grado di sostenere, per la non redditività delle aziende, per l'eccessivo onere degli investimenti (Piano Sinigallia per l'industria siderurgica), per le incerte prospettive di profitto. In un sistema che scaricava i costi della propria competitività con i concorrenti esteri sul livello dell'occupazione e dei salari e sulle posizioni di piccola e media rendita, l'industria di Stato doveva inoltre necessariamente svolgere quel ruolo di attenuamento dei contrasti sociali.

L'equilibrio politico e sociale veniva così fissato corporativizzando gli interessi in contrasto con quella logica di sviluppo capitalistico attraverso la garanzia del contributo diretto o indiretto dello Stato e dall'altro privilegiando le scelte del ceto imprenditoriale, e tramutandole negli effettivi obbiettivi della politica economica. Un indirizzo di Governo che taluno ha volutamente definito con la formula contraddittoria ed impropria di »liberismo protezionista .

In questo quadro l'impresa pubblica veniva a costituire un decisivo anello di congiunzione tra questi due ordini di interessi contrapposti e mediati dal ceto politico, collocandosi da un lato accanto alle strutture competitive dell'impresa privata, dall'altro continuando a svolgere quell'opera di sostegno e di salvataggio delle aziende deficitarie, per cui era sorta. Il suo ruolo, rispetto all'industria privata, si poneva come parallelo o come sussidiario all'industria privata, difficilmente come concorrenziale; l'unica vera eccezione su questo terreno fu la fase costitutiva dell'ENI.

Profonde differenze tra impresa pubblica e privata vanno colte invece nel modo in cui quest'ultima andava reclutando e formando il suo gruppo dirigente. Qui aveva prevalso il criterio della nomina di parte, spesso al di fuori d'ogni valutazione tecnica, che veniva via via eliminando ogni distinzione tra potere democristiano e tecnocrazia pubblica, un potere che d'altro canto passava al di fuori di ogni corretto rapporto istituzionale con i Ministeri competenti e con il Parlamento. Enrico Mattei poi inaugurava una variante, destinata ad avere grande fortuna operativa: dai legami organici dell'impresa pubblica con il partito di maggioranza si passava a quelli particolari e privilegiati con alcune componenti interne al partito di maggioranza (cfr. G. Galli-F. Facchi, "La sinistra democristiana", Feltrinelli 1963). Nel contempo, proprio il sistema delle partecipazioni miste, non accompagnate da un'efficace politica di distinzione di compiti e funzioni tra settore pubblico e privato, garantiva la conservazione di

un certo livello di integrazione e osmosi tra ceto imprenditoriale privato e mano pubblica.

Venne creandosi dunque un sistema di interrelazioni di potere politico ed economico a forma di triangolo rettangolo, nel cui angolo »retto possiamo porre la DC e a ciascuno degli altri due angoli, quelli »acuti , possiamo porre l'impresa privata e quella pubblica. La prima legata al partito di maggioranza sulla base di un'accordo politico, ben espresso dal binomio Costa-De Gasperi, e che si esprimeva nella politica economica dei governi democristiani; la seconda organicamente connessa da una trama di legami di sottopotere cementati dal criterio delle nomine di governo che divenivano nomine di partito. Il rapporto poi tra industria pubblica e privata si verificava sul terreno che abbiamo descritto di un rigoroso e complementare scambio di competenze e in un fitto intreccio di coabitazioni in Consigli di amministrazione ed in operazioni finanziarie la cui logica non venne sostanzialmente messa in discussione né dal piano Sinigallia, né dalla costituzione dell'ENI.

In che cosa questa intelaiatura di potere differisce dal così detto regime corporativo non è stato forse mai a sufficienza approfondito. Il quadro politico ed economico internazionale impose, com'è noto, nel dopoguerra al nostro sistema industriale il problema di un diverso ruolo sul mercato interno e su quello estero, da quello che aveva posto invece prima l'autarchia, poi la guerra. Ma dal punto di vista del rapporto tra classe politica ed impresa pubblica e privata, le differenze, almeno nella fase '48-'53, non sono certo sostanziali. Quel tanto di bardatura pubblicista che il sistema corporativo implicava, non venne forse utilizzata da parte dei gruppi monopolistici al fine di consolidare la propria posizione sul mercato (si pensi, per fare un esempio, all'uso fatto della legge sulla localizzazione degli impianti), o altrimenti non venne interamente elusa? Fu l'economia di guerra, con quel che importava in termini di politica monetaria, finanziaria e di controllo nelle importazioni di materie prime a tur

bare il quadro delle relazioni corporative, onde il frenetico liberismo del ceto imprenditoriale nell'immediato dopoguerra, dei cui accenti sono colmi con gli atti dell'inchiesta promossa dalla Commissione Industria del Ministero della Costituente. E proprio la liberalizzazione degli scambi e del commercio estero fu l'occasione per ristabilire negli identici termini prebellici la rete di interrelazioni di potere già propria del regime corporativo.

L'essere e il dover essere del corporativismo furono oggetto di vivaci polemiche agli inizi degli anni '30. Su di esse; per un'ironica coincidenza sono tornati con interesse alcuni studiosi agli inizi degli anni '60. Proprio in occasione del primo governo organico di centro-sinistra, ai margini dei dibattiti sulla redazione del primo piano quinquennale, ci fu anche chi venne ponendosi il problema della vigenza o meno di norme dell'ordinamento corporativo, quali quelle relativi agli obblighi dell'imprenditore, già poco applicate durante il fascismo.

E, del resto, a ben guardare, neocorporativismo e pianificazione sono le due linee di tendenza, quella reale e quella permanentemente alternativa, su cui andò consolidandosi il nostro sistema politico-economico negli anni '60. Il neocorporativismo è la logica del triangolo che ha messo in naftalina gli abiti un po' logori del suo iniziale neoliberismo. Nel triangolo, rispetto alle posizioni di partenza, si è rafforzata l'area di potere e di estensione dell'impresa pubblica, senza che ciò abbia significato l'accentuarsi della fase di transizione al socialismo, come forse ancora pensa Silvano Labriola. Il ceto manageriale pubblico ha così modificato, sul piano del »costume , si intende, non della legge, il principio della nomina di partito con quello della cooptazione di gruppo. La breccia aperta da Mattei all'interno del partito di maggioranza è diventata sistema. Non è più nemmeno il partito che controlla il ceto manageriale politico. Tra questo e il ceto politico cattolico si è stabilito un rapporto politic

o bilaterale di dare e avere. Non c'è stata, per così dire, una »laicizzazione della dirigenza pubblica, solo la creazione di un ordine autonomo fornito di potere di cooptazione in cui l'ortodossia è garantita da un miscuglio organico e brevettato di managerialismo e integralismo cattolico.

D'altro lato i legami tra impresa pubblica e privata si sono fatti ancora più stretti, con un intrecciarsi continuo di programmi comuni di investimento. Ridottisi i margini di autofinanziamento per l'impresa privata l'aggancio con le partecipazioni statali diventa necessità vitale, apre la strada dell'intervento statale per il proprio finanziamento. Al principio arcaico della mera solvibilità dell'impresa come criterio discriminante per l'attribuzione ad essa dei crediti e degli incentivi statali si sostituisce, nell'anima degli operatori pubblici e privati, lentamente quello della fiscalizzazione dei costi, senza che nel contempo il controllo politico degli investimenti per obiettivi prefissati abbia raggiunto lo sviluppo sufficiente per garantire la necessaria »pubblicità di queste operazioni. L'osmosi tra ceto manageriale pubblico e privato si accentua, come l'operazione Montedison e la »bagarre finanziaria che ad essa è seguita dimostrano... E ad avallare questo processo interviene per la prima volta l

'unica istituzione statale che aveva mostrato di saper svolgere un ruolo istituzionale corretto, utilizzando con accortezza di intervento conferitogli dall'ordinamento, cioè la Banca d'Italia. Dinnanzi a due linee possibili di integrazione concentrazione del capitale privato italiano quella con il capitale europeo e internazionale da un lato e quella con l'impresa pubblica dall'altro, proprio nel momento in cui la posta in gioco con l'operazione Bastogi-Italpi, è quella della creazione di una grossa finanziaria, in cui la partecipazione pubblica rimane indiretta, distorta dal giuoco delle partecipazioni incrociate, la Banca d'Italia si fa mallevatrice di quest'ultima operazione.

Il dinamismo della tecnostruttura impone ancora una volta al ceto politico un ruolo subalterno nelle scelte di politica economica. I problemi da risolvere a livello sociale non sono molto dissimili da quelli del '48. Si sono anzi aggravati per certi versi, acquistando dimensioni nuove: lo sviluppo economico ha fatto da moltiplicatore dei problemi sociali. E la strategia per risolverli è rimasta la politica di corporativizzazione degli interessi »altri , quelli cioè esterni e spesso contraddittori con lo sviluppo della grande impresa e che tuttavia costituiscono lo sfondo delle fortune elettorali del partito di maggioranza relativa, e per questo vengono da essa tutelati, diventano contraddittoriamente il pilastro su cui poggia l'intero equilibrio politico e sociale. Difesa della rendita agraria e urbana, non intervento nel settore distributivo e difesa degli interessi privilegiati parassitari ad esso connessi, con conseguente inquinamento d'ogni iniziativa riformistica razionalizzatrice, come la politica agra

ria e la legge sulla casa testimoniano. La lottizzazione del potere statale e parastatale da parte dei partiti costituisce un secondo strumento di frantumazione e clientelizzazione degli interessi del corpo sociale.

Il neocorporativismo della fine degli anni '60 ripete dunque lo schema di gestione del potere politico ed economico degli anni '50, con alcune varianti ed alcune contraddizioni in più, di cui si è detto.

Salvo che un sistema politico che si fonda su una fittissima rete di mediazione di interessi particolari e a cui sfugge il compito precipuo di mediare gli interessi generali della collettività, finisce sempre per emarginare vasti settori della società civile, sostanzialmente esclusi da questa politica di compensazioni e benefici. Siamo al 1968-69, con l'insorgere della conflittualità operaia e l'emergere, nel Mezzogiorno e nel mondo della scuola, in cui lo spettro della disoccupazione e della sottoccupazione giuocano un ruolo decisivo, di forme nuove di dissenso non più aggregabili dal ceto politico per i normali canali corporativi. Con questa esplosione, che non sembra più assorbibile come nel 1963, crolla l'impalcatura del centro-sinistra.

Ed è naturale che una volta riproposto con forza il problema della risoluzione degli interessi generali della collettività da parte della conflittualità operaia, l'istituto ibernizzato della programmazione dovesse riprendere quota come ipotesi politica, tanto più che venivano a mancare i margini di un accordo diretto tra il capitale pubblico e privato da un lato e i sindacati dall'altro al fine di aggregare anche questi allo schema corporativo, anche se un tale possibile sbocco aveva nella tradizione del sindacalismo italiano i suoi precedenti e le sue linee di tendenza (cfr. A. Shonfield, "Il capitalismo moderno", Etas Kompass, 1965, pp. 265 e segg.), ma non trovava più il necessario supporto nella fabbrica.

La nuova legge sul CIPE, la legge sul Mezzogiorno, il piano chimico, sono i segni di un nuovo possibile spazio politico, che malgrado tutto rimane aperto a livello di Governo. La proposta di legge socialista sulle società per azioni poi, per la prima volta dopo anni, vede riproporsi una iniziativa legislativa destinata ad incidere sulle strutture di potere del ceto imprenditoriale, e giustamente Eugenio Scalfari ha richiamato l'attenzione sul suo significato riformatore ed ha chiesto che ad essa venga data la precedenza negli impegni di Governo.

Non trattasi più della programmazione »totalizzante dei disegni iniziali, ma di quella consentita e di già imposta dalle esperienze dei primi anni. E' la programmazione-istituto fra i tanti, che non elimina gli altri, ma si affianca con propri mezzi e con questi assolve essa stessa a un ruolo di sostegno, sia pure nobilitato da finalità non soltanto conservative. Solo su questa premessa il CIPE ha una funzione da assolvere ed è anzi sollecitato a farlo. Il CIPE è il collettore che da un lato gestisce direttamente alcuni interventi, dall'altro funge da ombrello, sempre più smisurato, per coprire la pluralità di sedi e di strumenti che sussistono largamente invariati .

I limiti imposti dalla struttura di potere che abbiamo descritta continuano dunque ad essere prevalenti. Ma non per questo manca ora un'alternativa valida, che a differenza del '63 ha un suo concreto aggancio strutturale nel sistema istituzionale, mostra delle possibilità operative che possono acquistare i caratteri della continuità e della organicità propri di una linea di Governo. A mancare è l'omogeneità di linea all'apparato istituzionale dello Stato e delle imprese pubbliche e private. Questo è il terreno su cui deve qualificarsi l'iniziativa socialista. E' forse venuto il momento di chiedersi con »franchezza se il »problema politico , mai affrontato e mai risolto, della notte di S. Gregorio, non debba essere

nuovamente riproposto.

 
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