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Mellini Mauro - 31 gennaio 1972
Corte costituzionale: punto a capo
di Mauro Mellini

SOMMARIO: La sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile il referendum sul divorzio sarà ricordata come una svolta in senso conservatore nella vita della corte. Quella sentenza ha infatti concluso un periodo certamente felice e fecondo di attività dei giudici della Consulta: per la prima volta una parte politica abituata ad identificarsi con il potere si considerò battuta. Mellini ricorda la vicenda della mancata elezione di Lelio Basso alla presidenza della Corte Costituzionale con le sue rilevanti conseguenze.

Del resto la battuta di arresto di un certo indirizzo della Corte Costituzionale non è da ricercare solo nelle difficoltà insorte con il partito di maggioranza relativa in quanto da anni la Corte stava conducendo praticamente da sola la politica dei diritti civili nel nostro paese.

(LA PROVA RADICALE N.2, BENIAMINO CARUCCI EDITORE, Inverno 1972)

E' probabile che la sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile il referendum sul divorzio sia ricordata come una svolta in senso conservatore nella vita della Corte. La decisione sul referendum segna infatti la prima grossa questione affrontata dopo la conclusione del periodo della presidenza Branca, mentre il seggio da lui lasciato libero era ancora vacante per l'ostruzionismo alla nomina di Basso e dopo la nomina alla presidenza della figura piuttosto sbiadita di Chiarelli. Essa può apparire come un'inversione di tendenza, dopo la sentenza del giugno scorso sulla costituzionalità della legge Fortuna-Baslini. Tuttavia, come spesso accade quando si va alla ricerca di una data, di un episodio, di un segno per dividere la storia in periodi e segmenti, si tratta forse di un giudizio un po' semplicistico e superficiale. Sarebbe infatti meno inesatto dire che quella del giugno scorso sul divorzio è stata la sentenza che ha concluso un periodo certamente felice e fecondo di attività de

i giudici della Consulta. La sentenza sul referendum non è giunta inaspettata e, rispetto alle condizioni in cui la Corte si è trovata a dover giudicare, si può dire che non ci si poteva attendere di più, sia per il tenore della sentenza, sia per il dibattito con il quale ad essa si è giunti. E' vero invece che segni inequivoci giustificano previsioni poco entusiasmanti sulla vita futura della Corte. Ma si tratta di segni che non si manifestano solo oggi e che hanno, anzi, origine che non è affatto recente.

Per la prima volta con la sentenza sulla legittimità costituzionale del divorzio si è avuta a destra la precisa sensazione del peso politico di un organismo destinato ad operare, praticamente da solo, l'adeguamento dell'ordinamento giuridico ai principi della Costituzione repubblicana. Per la prima volta una sentenza della Corte ha fatto sì che una parte politica, ed una parte abituata ad identificarsi con il potere, dovesse considerarsi battuta e sconfitta. Fino a quel momento, malgrado gli atteggiamenti esplicitamente conservatori assunti dal Governo attraverso l'Avvocatura dello Stato nei giudizi avanti alla Corte, le sentenze di questa erano potute passare come fatti di natura tecnico-giuridica, e le tesi risultate soccombenti erano potute apparire come tesi dottrinarie e non come espressione di una determinata posizione politica. Con la questione del divorzio le cose sono andate in modo opposto. La questione della pretesa incostituzionalità della legge Fortuna nella parte relativa ai matrimoni concordat

ari era stata il cavallo di battaglia della D.C. in parlamento e lo era stata troppo di recente. Andreotti, che non può certo essere tacciato di imprudenza, si era spinto a fare previsioni sull'esito dei giudizi di costituzionalità, ove la legge fosse passata, invitando i divorzisti a non mettere i loro sostenitori avanti alla prospettiva di una cocente delusione. Cocente delusione è stata quindi per il mondo clericale la sentenza del giugno, anche se nei mesi precedenti si era andata delineando nel paese, nella magistratura, nella stampa, la sensazione che nessun tratto di penna avrebbe potuto imporre alle migliaia di cittadini, che avevano presentato ai tribunali le loro istanze di divorzio, di riprendersi le loro carte bollate e di tornare a fare i rassegnati fuorilegge del matrimonio.

Inequivocabilmente sconfitta, la D.C. ha accusato il colpo, ed ha subito compreso che il problema della Corte era anch'esso, e non solo marginalmente ed occasionalmente, problema di potere, da affrontare quindi con il cinismo e la decisione che per il partito clericale meritano soprattutto i problemi di potere. Questo dato di crisi è venuto a coincidere con la scadenza del mandato di Branca come giudice e come presidente. E' ben nota la vicenda della mancata elezione di Lelio Basso per il rifiuto della D.C. di attenersi alla prassi che aveva consentito, fino a quel momento, di raggiungere il quorum necessario all'elezione dei membri di nomina parlamentare, assicurando nel contempo una distribuzione della designazione proporzionale ai vari gruppi parlamentari. E' un episodio tuttora aperto, che trova origine certamente anche nella volontà della D.C. di umiliare il partito socialista e di sottolineare che le scelte di questo in senso meno ossequiosamente governativo non sono destinate ad una vita facile.

Ma, bloccando l'elezione di Basso, la D.C. ha voluto, anzitutto, se non umiliare certo dare un avvertimento alla Corte, cominciando a far comprendere senza mezzi termini che le future decisioni non sarebbero state prive di conseguenze sulla tranquillità di vita di quell'organismo, né sarebbero state accettate con passivo ossequio dal partito di maggioranza relativa. L'ostruzionismo all'elezione di Basso non poteva quindi essere valutato con il metro della correttezza dei rapporti tra la D.C. e gli altri partiti della coalizione governativa e dell'»arco costituzionale . Questi hanno avuto il torto di sottovalutare l'episodio e, al più, di inquadrarlo tra le prime mosse della schermaglia per le elezioni del presidente della repubblica. Il che, poi, non poteva dirsi del tutto inesatto. Ma era un fatto ben grave che la D.C. cominciasse ad inserire le questioni della composizione della Corte nei vari »pacchetti delle complicate operazioni di potere e di equilibrio con gli altri partiti.

La mancata elezione di Basso ha avuto il suo peso nell'elezione del successore di Branca alla presidenza della Corte. Il rinvio di tale elezione fino all'autunno ha contribuito in modo determinante a mettere fuori gioco Fragali, il cui mandato di giudice scade nel luglio del 1972, perché è nella prassi evitare presidenze meramente »onorarie da conferire per periodi troppo brevi. Fragali non era soltanto il più anziano dei giudici della Consulta. Era anche uno dei più indiziati di reità laica per il ruolo svolto nelle decisioni sul concordato e sul divorzio. Così la D. C. aveva ottenuto un ulteriore successo, che si è delineato chiaramente nella sua vera portata quando poi, senza più poter attendere che il Parlamento nominasse il quindicesimo giudice, si è proceduto egualmente all'elezione del presidente della Corte. Anche se il successo di Chiarelli è stato ottenuto su Bonifacio, giudice eletto dal parlamento su designazione della D.C., imparentato con Gava, il nuovo presidente può considerarsi rispondente

ai desideri del partito di maggioranza relativa. Dopo la presidenza di Branca, che era apparso anche di fronte al Paese con una personalità in linea con un indirizzo della corte di particolare impegno per la tutela, ed, anzi, per la conquista dei diritti civili, la figura più sbiadita di Chiarelli può considerarsi abbastanza rassicurante. Le dichiarazioni dopo l'assunzione della presidenza, in cui egli pone l'accento sui problemi dei rapporti tra stato e regioni, sono abbastanza indicative.

Ma sarebbe un errore ritenere che la battuta di arresto di un certo indirizzo della Corte Costituzionale sia da ricercare soltanto nelle difficoltà insorte con il partito di maggioranza relativa. E' vero invece che da anni la Corte stava conducendo praticamente da sola la politica dei diritti civili nel nostro paese. Basti pensare che senza gli interventi della Corte la legislazione fascista sarebbe tuttora pressoché intatta. E' rimasto memorabile il braccio di ferro di qualche anno fa tra la Corte Costituzionale e la Cassazione sui diritti della difesa nei processi penali: le forze politiche, anche quelle di sinistra, hanno magari fatto il tifo per i giudici della Consulta, ma la disputa era rimasta sul piano tecnico, proprio perché quelle forze non avevano saputo ingaggiare una battaglia politica su questioni che pure rappresentavano un modo di concepire i rapporti tra i cittadini e il potere.

Migliaia di lavoratori erano stati oggetto di provvedimenti di polizia perché sforniti della »residenza nella città in cui lavoravano, erano stati processati per violazione del foglio di via. Li avevano difesi avvocati comunisti e socialisti, ma nessuna battaglia politica e sindacale era stata ingaggiata contro quei metodi vergognosi. La prima grossa questione che la Corte Costituzionale aveva dovuto affrontare dopo il suo insediamento, quella del sindacato di legittimità costituzionale rispetto alle leggi approvate prima dell'entrata in vigore della Costituzione, aveva visto il Governo impegnato a sostenere la tesi della insindacabilità: in pratica a difendere tutto l'ordinamento fascista. La sconfitta di questa tesi era una sconfitta politica che coinvolgeva responsabilità di fondo dell'esecutivo, che non soltanto non aveva promosso l'abrogazione di tali norme (del che era responsabile in primo luogo il Parlamento) ma che si era valso delle leggi fasciste, come quelle di pubblica sicurezza, per provvedime

nti in danno delle libertà dei cittadini.

Battuto alla Corte Costituzionale il Governo si comportò come se avesse perso una causa di eredità o di enfiteusi: declinò ogni responsabilità politica e, quel che è più grave, l'opposizione non ritenne di dover fare (e forse, a ragione, ritenne di non poter fare) della sconfitta del Governo una sua vittoria. Problemi politici di importanza fondamentale venivano così ridotti a questioni esclusivamente tecnico-giuridiche. Non solo, ma andava man mano radicandosi il convincimento, o quanto meno si accettava il dato di fatto, che l'eliminazione delle norme fasciste, e l'adeguamento della legislazione alla Costituzione, fosse compito della Corte Costituzionale e non del potere legislativo e delle forze politiche. La Corte, che in realtà ha il potere di intervenire per censurare un'inadempienza del potere legislativo e dell'esecutivo che, oltre a non sollecitare il legislativo, si avvolge di norme incostituzionali, veniva così promossa ad una funzione che non le è propria e che solo apparentemente è più ampia di

quella che la logica e la Costituzione le attribuiscono, perché in realtà è una funzione impossibile per un organismo giudiziario, così che ne consegue, a lungo andare, uno scompenso, se non la paralisi ed il decadimento della sua azione.

La Corte Costituzionale diviene così, anziché lo stimolo dell'attività di adeguamento alla Costituzione e la sede della resa dei conti con la legalità costituzionale repubblicana, l'alibi per il parlamento e per il Governo, che sembrano considerarsi autorizzati a violare la Costituzione finché la Corte non abbia provveduto alla sua concreta applicazione. Un caso in cui clamorosamente si è rivelato tale atteggiamento si è avuto con la sentenza del marzo 1971 sul concordato. Per anni i »laici avevano trovato un comodo alibi nell'articolo 7 della Costituzione, sostenendo che esso legava loro le mani nei rapporti con la chiesa, non consentendo un mutamento di rapporti regolati dal concordato se non con il consenso della chiesa stessa, ed, in pratica, rimettendo al beneplacito di questa persino la realizzazione dei princìpi costituzionali nella materia regolata dal concordato.

Con la sentenza del marzo 1971 la Corte ha eliminato questo alibi, affermando che i princìpi fondamentali della Costituzione non possono soffrire limitazioni a causa delle disposizioni concordatarie, malgrado il richiamo che la Costituzione, con l'art. 7, falsa regolamentazione concordataria dei rapporti con la Chiesa. A questo punto l'attuazione di tali princìpi costituzionali diveniva un dovere primario e non disponibile né transigibile del Parlamento e di ogni altro organismo dello stato, né poteva tale compito essere condizionato all'esito di una trattativa diplomatica con la S. Sede. Eppure, pochi giorni dopo la pubblicazione di quella sentenza, la Camera votata l'ordine del giorno con il quale autorizzava il Governo alla trattativa per la revisione bilaterale, senza una qualsiasi preventiva indicazione circa le clausole del Concordato e del Trattato da sopprimere e modificare, sottraendosi così all'obbligo di provvedere unilateralmente all'eliminazione dell'ordinamento interno delle norme di attuazione

in contrasto con l'ordinamento costituzionale.

Ancora una volta la Corte era andata troppo avanti rispetto alle forze politiche e alle lotte condotte da quelle più progressiste nel paese, venendo così a trovarsi in una situazione destinata a divenire insostenibile appena se ne fosse acquisita, da parte delle forze politiche e della Corte stessa, l'esatta cognizione. La sentenza sul divorzio del giugno scorso non ha visto ripetersi tale situazione. Le forze politiche divorziste, che avevano prevalso in parlamento, se non avevano saputo seguire, dopo il 1· dicembre 1970, una politica accorta e conseguente in difesa della riforma da poco conquistata, erano però tutte impegnate a sostenere sul piano politico la tesi della costituzionalità del divorzio e, soprattutto, nel paese esisteva la più ferma fiducia nell'intangibilità della legge. Tuttavia le incertezze e i tentennamenti manifestatisi anche tra le forze divorziste sull'atteggiamento da assumere rispetto alla controffensiva del referendum non sono state senza eco e senza conseguenza nel dibattito alla

Corte. Una volta reso noto l'esito della sentenza, era ben presto trapelata la notizia che la tesi divorzista era prevalsa per un solo voto di maggioranza, quello del presidente Branca, che aveva voluto a tutti i costi che la questione fosse decisa prima che egli lasciasse la carica.

In realtà le cose erano andate in maniera un po' diversa. La tesi della piena legittimità della legge Fortuna non aveva prevalso di così stretta maggioranza sulla tesi della incostituzionalità del divorzio per i matrimoni concordatari, così come sostenuta in Parlamento dalla D.C. e dai fascisti e come prospettata dal Tribunale di Siena, che aveva rimesso la questione alla Corte; ma invece su di una tesi intermedia. Questa tesi che aveva appunto raccolto sette voci su quindici, compresi quelli di alcuni giudici di nomina parlamentare e di estrazione »laica come ad esempio Crisafulli, era quella della costituzionalità del divorzio per i matrimoni concordatari, limitatamente a quelli celebrati prima dell'entrata in vigore della legge Fortuna. Una tesi balorda sul piano tecnico-giuridico e chiaramente di compromesso sul piano prettamente politico. Non era azzardato ritenere, ed è ancor meno azzardato oggi, dopo che si è visto quale accanita tendenza al compromesso animi tanta parte delle forze politiche italian

e, che una scappatoia del genere altro non fosse che un tentativo di buttare l'avvenire del divorzio nelle fauci degli antidivorzisti, per »evitare il referendum »sanando tuttavia le situazioni già maturate. Che poi tale espediente, come altri dopo d'allora prospettati, fosse valido al fine di »evitare il referendum, è almeno discutibile. E' certo però che una decisione del genere avrebbe segnato una sconfitta gravissima per la sovranità e l'autonomia dello Stato, oltre che per le posizioni laiche e per il divorzio.

Se dunque la sentenza sul divorzio è stata veramente l'ultima di una Corte Costituzionale disposta ad assumere un ruolo determinante in una politica di progresso e di sviluppo dei diritti civili, è stata tuttavia un episodio di grande valore positivo. Le reazioni del regime ne sono, del resto, una riprova. Alla ripresa autunnale, dopo l'avvilente ripetersi della sfida democristiana con l'ostruzionismo alla nomina del quindicesimo giudice, vacante ancora la presidenza, la Corte ha sembrato risentire subito il contraccolpo e le reazioni. E' passata pressoché inosservata la discussione di una causa, giacente da anni alla Consulta, relativa alla legittimità costituzionale di una norma della legge di P.S. che impone un permesso della questura per effettuare raccolte di fondi, anche per finalità politiche. La Corte avrebbe respinto l'eccezione di incostituzionalità con una decisione pressoché unanime. Si tratterebbe di una sentenza grave, anche perché viene a coincidere con rinnovate proposte di finanziamento dei

partiti rappresentati in parlamento. Grave perché verrebbe a disconoscere un principio di libertà sostanziale dell'organizzazione politica e grave perché confermerebbe restrizioni al finanziamento di iniziative e organizzazioni minori veramente popolari, mentre non si esita a sostenere che, per non essere costretti a rubare, i partiti hanno diritto alle sovvenzioni pubbliche.

Sarebbe forse ingiusto ed arbitrario affermare che i giudici più vicini a concezioni politiche avanzate abbiano mostrato scarso entusiasmo per una tesi che poteva togliere di mezzo un potenziale strumento di repressione contro le forze extraparlamentari. Ma è certo che era mancato completamente alla tesi rimasta soccombente avanti alla Corte, il sostegno di una azione politica nel paese diretta alla difesa dei mezzi di espressione e di organizzazione politica spontanea contro il monopolio delle forze politiche del regime. Anche la questione del referendum sul divorzio avrebbe potuto avere una diversa sorte avanti alla Corte, se nel paese i partiti, la stampa, la cultura di regime non avessero rinunciato in partenza a sostenere la illegittimità del referendum, per accettare subito le conseguenze della sua richiesta come una trattativa con i suoi promotori. Dichiarazioni come quella dello scorso luglio dell'onorevole Reale, che gratuitamente affermava che dal punto di vista costituzionale il referendum era ine

ccepibile e prese di posizioni come quelle del P.C.I. e del P.R.I. che, sollevando eccezioni sulla costituzionalità della proposta Scalfari, implicitamente davano per scontata la piena legittimità della proposta di referendum sul divorzio, non potevano non mettere i giudici della Consulta in una situazione tale, che la loro pronuncia contro l'ammissibilità del referendum li avrebbe fatti apparire più realisti del re. Si dice che nell'imminenza della camera di consiglio dell'11 gennaio un eminente personaggio abbia, in un lungo colloquio con un Giudice della Corte, esposto certe sue tesi, elaborate fin da quando ricopriva una altissima carica, tesi che avrebbero potuto contribuire validamente ad un orientamento della Corte nel senso della inammissibilità. Il colloquio si sarebbe concluso con talune considerazioni molto realistiche: e cioè che una pronuncia del genere avrebbe scontentato tutti, quelli che volevano il referendum e quelli che stavano trattando per evitarlo, dichiarandosi peraltro già disposti a

pagare un certo prezzo di fronte alla minaccia rappresentata dalla sua proposizione.

Dopo lunghi anni di un'azione assai positiva, anche se non sempre egualmente decisa e incisiva, nella politica dei diritti civili, la Corte Costituzionale sente oggi tutto il peso dell'isolamento di questa sua azione; ed anzi, più che dell'isolamento, della sostanziale chiusura del regime, nelle sue forze di governo e di opposizione, verso i problemi e le istanze di sviluppo delle libertà civili. Basterebbe ricordare il modo in cui i partiti di sinistra hanno fatto abortire il referendum abrogativo dei reati d'opinione. Non è un caso che in questi ultimi tempi, ed in tutte le occasioni più significative, dalla questione del concordato a quella del divorzio, a quella del referendum, un uomo come Fragali, proveniente dalla magistratura e tra i meno legati alle forze politiche, ritenuto un magistrato di vecchio stampo, abbia svolto un ruolo di punta, più avanzato di quello scelto da giudici più »impegnati e »progressisti . Senza lo sviluppo ed il rafforzamento nel paese di un partito »laico e dei diritti civi

li, anche l'azione della Corte finisce col diventare, tutto sommato, un alibi destinato, prima o poi, a crollare. Ed un alibi, oltre tutto, anche scomodo per chi se ne avvale. La logica di una politica che, nella migliore delle ipotesi prescinde da certi problemi non consente il lusso di interferenze del genere.

Assumendo la presidenza della Corte, Branca dichiarava, con un discorso di cui indubbiamente gli va reso merito, che la realizzazione dei princìpi e dei precetti costituzionali, prima che al giudizio della Corte e alla scien-... della Corte finisce col diventa... -tidiana testimonianza dei cittadini e alla loro volontà di pretenderne l'applicazione. Noi dobbiamo aggiungere solo che questa volontà deve sapersi esprimere, organizzarsi e farsi valere. Altrimenti bisognerebbe accontentarsi che la Corte si occupi di questioni di competenza dello stato e delle regioni in materia di imposte e di sovrattasse.

 
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