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Spadaccia Gianfranco - 15 aprile 1972
Leone, peggio di Fanfani
di Gianfranco Spadaccia

SOMMARIO: Spadaccia ricorda le discussioni radicali prima e durante le elezioni presidenziali che si conclusero con l'elezione di Leone. La paventata elezione di Fanfani non ci fu ma Leone inaugurò il suo settennato con un atto di vera e propria prevaricazione politica e costituzionale. Leone scioglie le Camere e costituisce un governo che è un gabinetto personale del Presidente della Repubblica, privo della fiducia del Parlamento controllato direttamente dagli organi dirigenti del partito che lo ha espresso anzichè dalle Camere elettive.

(LA PROVA RADICALE N.3, BENIAMINO CARUCCI EDITORE, Primavera 1972)

Prima e durante le elezioni presidenziali, discutendo fra radicali sulla posizione che si doveva assumere, ci trovammo naturalmente d'accordo nel battere il tasto sulla necessità dell'elezione di un laico alla massima carica dello Stato e sui pericoli concreti che qualsiasi democristiano avrebbe rappresentato per le istituzioni repubblicane una volta giunto al Quirinale. Su un punto tuttavia ci si trovò in disaccordo. Sembrava infatti ad alcuni di noi che la sconfitta di Fanfani avrebbe comunque rappresentato un mezzo successo per la sinistra e avrebbe eliminato almeno i pericoli più gravi e immediati che ci apparivano legati soprattutto al nome, alla personalità, alle attitudini autoritarie e integralistiche del senatore di Arezzo. Condividevamo, in questo, un giudizio che era comune al resto della sinistra, sia parlamentare che extraparlamentare, pur denunciando della prima il grave errore di aver rinunciato, in favore della politica dell'»arco costituzionale , alla prospettiva della elezione di un candida

to laico, e pur sembrandoci limitata e personalistica la lotta contro il "fanfascismo" ingaggiata dalla seconda. Altri fra noi sosteneva il contrario: che se un democristiano doveva essere eletto era meglio che fosse Fanfani e che se le sinistre erano decise ad eleggere o a lasciar eleggere un clericale tanto valeva che lasciassero eleggere Fanfani.

Questa tesi mi parve, allora, francamente paradossale. Vedevo in Fanfani ciò che egli realmente è: l'uomo politico intorno a cui si coagula in Italia tutto o quasi il potere clericale, autoritario, di classe di questo regime, e ad ogni livello, nelle istituzioni, nella stampa, nei vertici dell'industria pubblica e privata. Dello stesso parere erano del resto Ettore Bernabei, Cefis, il "boss" siciliano Gioia e i tanti altri fanfaniani che facevano quadrato in quei giorni intorno al Presidente del Senato, mettendogli a disposizione la loro forza, le loro influenze, il loro danaro, il controllo dei mezzi di comunicazione di massa a cominciare dalla Rai-Tv. Chiunque lavori in una azienda, in un ufficio, in un giornale, soprattutto a Roma, era in grado di valutare quali cambiamenti si sarebbero verificati, quali ipoteche si sarebbero immediatamente accese su tutti gli strumenti e gli istituti della vita pubblica qualora si fosse realizzata l'ultima saldatura del potere fanfaniano. Mi obiettavano però, quei compag

ni, che la soluzione Fanfani, nel caso si rivelasse impossibile l'elezione di un laico, sarebbe stata un elemento di chiarezza, nel senso che avrebbe reso più chiari i termini della lotta politica e sociale e più evidenti i pericoli della situazione. Vi sarebbe stata nel paese vigilanza e adeguata risposta democratica, mentre la sconfitta di Fanfani e l'elezione di qualsiasi altro democristiano avrebbero fatto considerare allontanati se non dissolti quei pericoli e avrebbero addormentato ed impedito ogni reazione democratica.

Quello scambio di opinioni non ebbe in quel momento molta importanza perché eravamo tesi ad organizzare un comizio di Fortuna e Pannella »per l'elezione di un Presidente laico e perché assai scarse erano per il Partito Radicale le possibilità non dico di influire sulla vicenda presidenziale, ma anche soltanto di raggiungere nel corso di quella vicenda una parte consistente dell'opinione pubblica. Oggi mi sembra giusto ricordarlo perché con tutta evidenza erano quei compagni ad avere ragione. Se Fanfani avesse fatto solo una parte delle cose che ha fatto in questi tre mesi di presidenza Giovanni Leone, noi avremmo visto tutta la sinistra parlamentare, i gruppi extraparlamentari, i sindacati mobilitati nel combatterlo. Avremmo sentito parlare di prevaricazione anticostituzionale, di »colpo di Stato , di ipoteche »presidenziali e autoritarie. Le gravissime scelte compiute da Leone durante la crisi di Governo e al momento dello scioglimento delle Camere sono rimaste invece senza risposta da parte di una sinist

ra ormai smaniosa di evitare il referendum e di giungere il più presto possibile, non importa in quali condizioni, al confronto elettorale.

Chi credeva di trovare in Leone un presidente »al di sopra delle parti , arbitro »imparziale del gioco democratico e del corretto funzionamento delle istituzioni, non legato ai disegni di potere del suo partito di provenienza e quindi lontano dalle tentazioni di utilizzare l'autorità e le funzioni della sua carica per influire sulla situazione politica, è stato presto smentito dai fatti ed ha trovato invece un »presidente travicello prono ai voleri della Democrazia Cristiana e disposto ad esserne utile strumento.

Giovanni Leone è stato il primo presidente della Repubblica a trovarsi nella condizione di far uso del potere di sciogliere le Camere. Fino ad ora questo potere, che è fra i maggiori di cui dispone il capo dello Stato, era stato visto con sospetto dalle forze politiche che temevano potesse derivarne una accentuazione delle funzioni presidenziali, una maggiore dipendenza dei governi dal Quirinale e di conseguenza una alterazione profonda del quadro costituzionale. Sta di fatto che a questa estrema decisione non si era mai giunti, neppure in situazioni gravissime, caratterizzate da equilibri politici incerti e instabili, e neppure da parte di predecessori di Leone che pure erano arrivati ad imporre veri e propri governi presidenziali (Einaudi con Pella, Gronchi con Tambroni) o che comunque avevano fatto pesare fortemente la loro influenza sul corso degli avvenimenti politici (Segni e Saragat). L'unico precedente che poteva in qualche modo essere avvicinato alla decisione attuale era stato, nella storia della R

epubblica, lo scioglimento del Senato da parte di Einaudi nel 1953. Fu anche quella una decisione aspramente criticata perché apparve come una punizione inferta dal governo De Gasperi e dal presidente della Repubblica a un ramo del Parlamento che aveva ostacolato con tenacia l'approvazione della legge-truffa; e tuttavia quelle polemiche furono facilmente superate con la considerazione che l'altro ramo del Parlamento era giunto alla sua scadenza naturale e che non sembrava opportuno mantenere separate nel tempo le elezioni politiche per il rinnovo delle due Camere (e in effetti fu successivamente varata una riforma costituzionale in questo senso).

L'attuale Presidente si è trovato dunque in una situazione delicata e spiacevole, tanto più spiacevole in quanto si trattava di rispedire a casa a difendere i loro seggi quegli stessi parlamentari che, sia pure con strettissima maggioranza, lo avevano appena eletto. Il fatto però che a volere le elezioni, per evitare il referendum, fossero non soltanto la DC e la Chiesa, ma tutte le altre forze politiche, in primo luogo il PCI e il PSI, offriva al capo dello Stato l'opportunità di far uso per la prima volta di questo potere mantenendosi »al di sopra di ogni sospetto . Il problema che doveva essere risolto, in mancanza di precedenti validi a cui si potesse fare riferimento, era come giungere al decreto di scioglimento e con quale governo. Dopo il fallimento del primo tentativo che era stato affidato al presidente del Consiglio dimissionario Emilio Colombo, Leone aveva davanti a sé due strade che erano entrambe politicamente e costituzionalmente corrette: rinviare il governo Colombo, che era ancora in carica p

er l'ordinaria amministrazione, davanti al Parlamento e sollecitare un dibattito delle Camere, oppure affidare un nuovo incarico per accertare se esistevano le condizioni per la ricostituzione di una maggioranza parlamentare.

E' questo il momento decisivo della crisi. Ed è questo il momento in cui Leone rinuncia ad essere »presidente al di sopra delle parti per porre il suo incarico e le sue funzioni al servizio di Andreotti e di Forlani. Quando Colombo rinuncia all'incarico, il capo dello Stato sa ormai che è impossibile formare di nuovo una maggioranza e un governo di centro-sinistra. Lo sa perché Colombo gli ha dettagliatamente riferito il risultato fallimentare delle trattative e perché egli stesso ha avuto modo di parlare con i segretari dei partiti in due serie di consultazioni. Sa anche che non esiste in Parlamento un'altra possibile maggioranza perché i voti del Partito Liberale che è l'unico disposto ad appoggiare un monocolore democristiano, non sono sufficienti. Sa infine che una cospicua parte della DC, due degli altri tre partiti di centro-sinistra (il PSI e il PSDI), le opposizioni di sinistra esprimono riserve e contrarietà di fronte alla prospettiva di un governo di minoranza, privo della fiducia del Parlamento e

controllato completamente dalla Democrazia Cristiana. Ma Forlani insiste: desidera scrollarsi di dosso l'eredità dell'ultimo governo di centro-sinistra, che qualche riforma aveva tentato di realizzarla, vuole assicurare al suo partito tutte le leve del potere, intende rassicurare l'elettorato moderato dandogli anche visibilmente l'impressione di una sterzata a destra. Andreotti pone condizioni: dichiara che non intende prestarsi a nuovi »giuochi di massacro , che non vuole essere un »birillo condannato a cadere per passare la mano al Governo Colombo, o ad altro uomo politico incaricato di formare un governo monocolore (si parlava infatti con insistenza di Fanfani); quindi, o gli fanno fare il governo elettorale, o non accetta l'incarico. Nelle more dei patteggiamenti determinati dai contrasti interni democristiani, Leone rinvia di ora in ora la designazione, poi accetta le condizioni e affida l'incarico ad Andreotti senza alcun limite di mandato. Pochi giorni più tardi firma i decreti di nomina del nuovo G

overno.

Prima d'ora non s'era mai arrivati a tanto. Altri presidenti della Repubblica avevano inviato governi di minoranza davanti alle Camere: era stato il caso di Pella nel '53, di Zoli nel '58, di Tambroni nel '60, ma quei governi avevano avuto la fiducia del Parlamento. Altri governi - quello De Gasperi e quello Fanfani del '53 - erano stati invece battuti dal Parlamento, ma erano stati sostituiti da un altro gabinetto sorretto da una maggioranza parlamentare. Ora invece un governo che è un gabinetto personale del Presidente della Repubblica viene costituito prima dello scioglimento delle Camere e gestisce le elezioni. Vittorio Gorresio, commentando su "La Stampa" il dibattito che si era aperto intorno alla scelta del capo dello Stato, ricordava un precedente importante: la Corte dei Conti aveva rifiutato di registrare un decreto ministeriale, firmato da un ministro del primo governo Fanfani, e il rifiuto della registrazione era stato motivato con il fatto che quel governo non aveva avuto la fiducia del Parlamen

to; una considerazione fin troppo ovvia in qualsiasi regime di governo parlamentare.

Giorgio Galli su "Panorama", prendendo implicitamente in giro l'»esimio giurista che siede al Quirinale e gli altri giuristi che si sono affrettati ad avallare la sua decisione, osserva giustamente che Andreotti e la DC hanno gli stessi titoli per governare il paese che avrebbero Longo e il Partito Comunista, trattandosi in entrambi i casi di due partiti che rappresentano soltanto una minoranza del Parlamento e del paese. Persino giuristi socialisti, che sono di solito critici molto rispettosi delle istituzioni e della politica seguita dalle classi dirigenti della sinistra, come Rodotà e Bussanini, denunciano come molto grave la scelta del capo dello Stato, e sia pure in termini moderati e allusivi avvertono sui pericoli che possono derivare dalla trasformazione della Presidenza della Repubblica in un ulteriore strumento di potere della DC (»si realizza un "continuum" - scrive Stefano Rodotà su "Aut" - tra segreteria democristiana e presidente della Repubblica, cioè una condizione che altera le caratteristi

che del quadro politico costituzionale ).

Abbiamo quindi un presidente della Repubblica che inaugura il suo settennato con un atto di vera e propria prevaricazione politica e costituzionale. Abbiamo un governo privo della fiducia del Parlamento, controllato direttamente dagli organi dirigenti del Partito che lo ha espresso anziché dalle Camere elettive. Sono due fatti estremamente gravi, che da soli forniscono sufficienti elementi di valutazione e di giudizio per gli elettori sugli sviluppi che ci attendono nel corso della prossima legislatura. Questo presidente della Repubblica, che si è dimostrato così disponibile di fronte alle richieste e alle pretese della segreteria democristiana (poche settimane dopo aver nominato il governo Andreotti ha nominato Fanfani senatore a vita), è lo stesso che nei prossimi mesi dovrà sostituire cinque giudici della Corte costituzionale di nomina presidenziale. A lui compete presiedere il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio superiore delle forze armate. Questo governo illegale, nominato per assicur

are tutte le leve del potere governativo nelle mani della DC, in nessun modo si comporta come un governo di ordinaria amministrazione: tale non può essere considerato un governo che deve presiedere al trasferimento delle funzioni amministrative alle regioni, che procede a massicce promozioni e spostamenti al vertice della amministrazione pubblica (soprattutto per quanto riguarda il ministero dell'Interno), che decide il richiamo di alcune migliaia di agenti di PS.

Ma ciò che più preoccupa, per tornare alle considerazioni iniziali di questo articolo, è l'assenza di reazioni da parte della sinistra. Dopo un breve accenno di polemica, soprattutto da parte del PSI, l'opposizione alla decisione di Leone e la denuncia di questo governo illegale sono scomparse dai temi della campagna elettorale. Per molto meno due anni prima Saragat era stato oggetto, al confronto, di vere e proprie campagne di linciaggio. Ed è in questo comportamento delle sinistre, che pure chiamano gli elettori a difendere con il loro voto le istituzioni repubblicane, il presagio più grave di involuzione autoritaria che ci viene da questa consultazione elettorale priva di reale scontro e lotta politica.

 
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