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Catalano Giuseppe - 11 giugno 1972
Addio alle armi
RAPPORTO SUGLI OBIETTORI DI COSCIENZA IN ITALIA. QUANTI SONO COSA VOGLIONO, COME SONO ORGANIZZATI, CHE SORTE AVRANNO

di Giuseppe Catalano

SOMMARIO: La situazione della lotta per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza in Italia. Il processo davanti al tribunale militare di Torino dell'obiettore Roberto Cicciomessere; l'inconstituzionalità dei codici penali militari; le motivazioni degli obiettori Carlo Di Cicco, Giacomo Secco, Luciano Scapin; le difficoltà per l'approvazione della proposta di legge per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza.

(L'ESPRESSO, 11 giugno 1972)

ROMA. Martedì 23 maggio, ore 9 e 30. In un'aula del tribunale militare di Torino inizia il processo contro Roberto Cicciomessere, 24 anni, membro della direzione del partito radicale, segretario della lega per l'obiezione di coscienza. L'aula è nuda, quadrata, i cinque giudici militari attendono dietro alti scranni di legno. Una fascia azzurra attraversa il grigio oliva delle divise. Cicciomessere è arrivato infagottato in una tuta di fatica, con le manette ai polsi, come prescrive il regolamento. Adesso siede con altri tre compagni obiettori tra un nugolo di carabinieri. Non ci sono panche per chi assiste; dietro il tavolo degli avvocati c'è una transenna e dietro la transenna la piccola folla del pubblico.

Il presidente della giuria ha le mostrine da generale e l'espressione impenetrabile. Parla lentamente e di rado. Il pubblico ministero, invece, si agita sulla sedia fin dalle prime battute, quando scopre che Cicciomessere è assistito da due avvocati e da un sostituto per ognuno di loro. "Ma cosa vuol fare, lei, con tutti questi avvocati", dice allargando le braccia, rivolto all'imputato. Il pubblico ministero sarà anche il primo ad irritarsi quando uno degli avvocati, De Luca, farà mettere a verbale la sua protesta perché all'ingresso del tribunale alcuni poliziotti in borghese controllavano i documenti e schedavano i nomi di chi entrava. "Lei scriva controlli, non schedature", ordina al cancelliere. L'avvocato gli fa osservare che secondo lui si tratta di schedature, che è questo che vuole sia messo a verbale, e che se il PM non è d'accordo può sempre far stendere nero su bianco la sua opposizione. "Qui si devono mettere a verbale solo le cose esatte", risponde il PM. Un altro degli avvocati della dife

sa, l'avvocato Canestrini, si alza allora a spiegare i diritti stabiliti dal codice: "L'udienza deve essere pubblica, e cioè libera, per legge. Se la gente viene schedata all'entrata, è chiaro che la pubblicità dell'udienza è messa in pericolo". Uno dei giudici a latere scatta: "Avvocato, qui la legge viene rispettata. Guardi alle sue spalle, lo vede anche lei che il pubblico c'è. Anzi, sa che facciamo adesso per tagliar corto? Li mettiamo in fila per tre, li contiamo tutti, poi facciamo mettere il numero a verbale...". Questa proposta di militarizzare seduta stante i presenti, non ha molto successo, il pubblico ride, in aula c'è un certo clamore.

Solo il presidente continua a conservare la stessa aria impassibile. Comincia il dibattito. La difesa illustra con una serie di argomentazioni giuridiche la sua prima eccezione. Il pm dà segni d'insofferenza: "Qui facciamo notte", si lascia sfuggire. "L'unico terreno in comune fra noi e voi", protesta De Luca, "è quello del codice di procedura penale. Se ci togliete anche questo su cosa mandiamo avanti il processo?". Il presidente è costretto ad uscire dalla sua immobilità: "Avvocato, le concedo cinque minuti di tempo, non di più per le sue istanze". "Presidente, le faccio osservare che questa limitazione mi viene imposta senza essere stata preceduta dai due richiami prescritti dal codice". Il presidente chiaramente è a disagio, il PM interviene bruscamente: "Avvocato, lei non è qui per insegnarci il codice, noi dobbiamo solo constatare se Cicciomessere ha compiuto o meno il reato che gli viene imputato". Ormai il dialogo fra la corte marziale e la difesa ricalca fedelmente le battute dei film di Krubri

k.

CINQUE MINUTI PER LA DIFESA

Altra eccezione della difesa. Adesso è tutta la giuria che da segni d'insofferenza: "Avvocato, cinque minuti", ammonisce il presidente. Di questi cinque minuti la metà si perdono a ripetere al cancelliere, che è molto lento, le parole esatte da mettere a verbale. "Mi scusi avvocato, ma non so stenografare", dice il cancelliere. Quando il presidente gli toglie nuovamente la parola, De Luca grida: "Presidente è solo per non pregiudicare gli interessi dell'imputato e perché il codice non lo permette che non abbandono il mio posto, ma desidero sottolineare che in queste condizioni parlare di diritto alla difesa è ridicolo...".

Ora Cicciomessere viene chiamato a deporre davanti alla giuria. Non gli è concesso di sedersi e così resta in piedi, un metro sotto il banco del presidente. L'interrogatorio si svolge in modo sbrigativo. "Vorrei parlare dei motivi che mi hanno spinto alla obiezione", dice Cicciomessere. "Sono motivi che conosciamo", lo interrompe subito il presidente, "ha altro da aggiungere?". "Ma io devo ancora cominciare... ho il diritto di spiegare le ragioni della mia condotta".

E' UN DELINQUENTE ABITUALE. CONGEDIAMOLO

"Guardi, noi rispettiamo le sue convinzioni politiche, ma questo non è un comizio". "Non ho mai saputo di un comizio dove l'oratore arriva ammanettato". "Insomma Cicciomessere, se non c'è altro...". "Sì, vorrei parlare delle condizione dei carceri militari...". "Non è questa la sede per farlo". "Lei, presidente, non pensa che i due mesi già trascorsi nel carcere di Peschiera mi concedono il diritto a cinque minuti del suo tempo?". "Ha già avuto tutto il tempo necessario".

L'interrogatorio è finito, Cicciomessere ritorna sul banco degli imputati, la giuria si ritira in camera di consiglio. Sono passati quarantacinque minuti dall'inizio del processo. Ancora tre quarti d'ora e poi la giuria ritorna con la sentenza: tre mesi e tre giorni di carcere. E' il minimo della pena. Ma per Cicciomessere questa è ancora la prima condanna. Scontati i tre mesi, tornerà a case, sarà richiamato con il contingente successivo, e se obietterà di nuovo ci sarà un altro processo e un'altra condanna, questa volta più pesante. Fino a quando la detenzione non avrà superato la durata del servizio militare (un obiettore in media passa in carcere due anni e mezzo della sua vita) e allora, se nel frattempo l'obiettore non si è attirato altre denunce, se non ha risposto "scorrettamente" a un maresciallo di guardia, se non ha fischiato durante un'adunata, tutte cose che valgono altri mesi di reclusione, se tutto insomma fila liscio sarà congedato dalle autorità militari. Ma per congedarlo le autorità h

anno bisogno di un "motivo esimente", come dice il codice, e quando si tratta di obiettori i motivi sono solo due: o viene classificato delinquente abituale oppure inguaribile psicopatico. In tutti e due i casi non potrà più fare un concorso pubblico, avrà difficoltà anche per trovare un impiego privato, per ottenere il passaporto, per strappare una licenza di qualsiasi genere.

Questo più o meno è ciò che succede quando si diventa obiettori. Ogni processo segue sempre lo stesso rituale, preciso come una benedizione papale: arresto, processo, condanna.

I SUICIDI IN FORTEZZA

Negli ultimi venticinque più o meno altre 700 persone hanno fatto la stessa esperienza. Non è mai cambiato nulla. Gli obiettori continuano ad entrare ed uscire dalle carceri militari di Gaeta, di Peschiera, di Forte Boccea. E non sono carceri modello, basta leggere i racconti di chi c'è stato per farsene un'idea. A Peschiera dal 1 aprile alla fine di agosto del 1971 si sono avuti otto tentativi di suicidio. I detenuti presenti erano 140. Il sei per cento di loro, insomma, a un certo punto, preferiva farla finita.

Da venticinque anni c'è gente che s'indigna, protesta, fa le marce, presenta interrogazioni, lancia appelli, scrive al presidente della Repubblica. Non cambia niente lo stesso. Gli obiettori continuano a venire giudicati e condannati dai tribunali militari, dove le garanzie dell'imputato sono minori che nei tribunali civili, dove non esiste grado di appello, e dove inoltre i giudici sono "parte in causa" del dibattimento. E' stato più volte chiesto se tutto ciò è costituzionale. Nessun giurista di valore si è mai sentito di sostenerlo: ma allora? Allora anche qui tutto resta come prima, perché la Corte costituzionale non è mai stata investita del problema, non una sola volta in tutti questi anni.

UN'ECCEZIONE DI INCOSTITUZIONALITA'

Una ragione c'è: in tutte le occasioni, e sono tante, che gli avvocati hanno sollevato eccezioni di incostituzionalità per le norme del codice militare di pace, il Tribunale supremo militare le ha sempre rigettate. E, quasi mai, come prescrive il diritto, dichiarando che erano "irrilevanti" e "manifestamente infondate" perché questo sarebbe stato difficile da dimostrare giuridicamente: semplicemente dicendo che le norme erano perfettamente in regola con la Costituzione. Insomma si è di fatto sostituito alla Corte nel giudizio, assumendosi una funzione che nessun tribunale civile ha mai avuto il potere di assumere.

Cosa rispondono i militari a queste accuse? Il generale Veutro ha tutti i titoli per parlarne: è procuratore generale presso il Supremo tribunale militare di Roma ed è fra i giudici militari uno dei più "moderati", un progressista nel suo campo. Infatti riconosce i "gravi scompensi" della soluzione esclusivamente militare del problema dell'obiezione, critica la "spirale delle condanne" che inghiotte l'obiettore, dice che bisognerebbe dare una condanna a due, tre anni una volta per tutte finchè non sarà passato l'auspicata riforma, ma poi aggiunge: "Se la legge oggi è questa, noi che possiamo fare?". Potreste cominciare col rinviare alla Corte costituzionale le eccezioni che ricevete. "Su questo punto mi permetto di dissentire e poi la decisione non dipenderebbe solo da me ma da tutto il collegio giudicante". Quando poi si parla delle carceri militari, il generale Veutro cade dalle nuvole: "Tentati suicidi? L'avrei saputo mi creda; no, non ne ho mai sentito parlare". "Lei, generale, quante volte si è rec

ato in un carcere militare?". "Veramente nessuna". "C'è qualcosa da fare per migliorare la situazione delle carceri militari?". "Su questo problema avremo un congresso a St. Vincent, tra un mese". "In base alla sua esperienza, che efficacia può avere un congresso internazionale?". "Poca". "Perché voi giudici militari pressoché regolarmente negate agli obiettori almeno l'attenuante dei "particolare motivi di ordine morale e sociale"?. "Perché chi disconosce il valore del servizio militare, disconosce anche quei valori". "Ma questo suo giudizio non conferma forse che è un fatto singolare un tribunale militare chiamato a giudicare una controversia che per tanti aspetti è squisitamente civile?". "Può darsi. Ma si ricordi che noi magistrati militari siamo prima magistrati e poi soldati. Ci sentiamo sufficientemente imparziali".

A CHE SERVE LA LEGGE PEDINI

"Eppure il presidente delle corti militari non è un magistrato, è sempre e soltanto un alto esponente della gerarchia militare che è anche un superiore dei magistrati che compongono la giuria". "Le dirò: io personalmente ho chiesto più volte la presidenza di un magistrato per le corti militari". "E che accoglienza ha avuto finora questa proposta?". "Nessuna". "Un'ultima domanda: si è mai fatto portavoce di un progetto di riforma dell'obiezione di coscienza?". "più volte". "Risultato?". "Nessun risultato".

E così i fatti sono questi: l'Italia è rimasta, con la Grecia, la Spagna, il Portogallo e il Sud Africa, nel novero delle nazioni che non hanno una legge per l'obiezione di coscienza. Tutti gli altri paesi moderni questa legge l'hanno approvata da anni: la Francia, per esempio, fin dal 1963. Nè per questo sono crollate le strutture degli eserciti. Da noi, niente. O meglio, per essere precisi, da noi una legge che sfiora il problema dell'obiezione di coscienza c'è, la legge Pedini, approvata dopo anni di indugi e di discussioni tra alta burocrazia politica e alte gerarchie militari.

COMINCIARONO I TESTIMONI DI JEHOVA

Di che legge si tratta? Ce lo spiega un obiettore siciliano, Antonio Fedi: "Quando ho visto che la scadenza della prima chiamata si avvicinava mi sono precipitato all'ufficio del servizio civile per dire: "Eccomi qua, quando si parte?". Non mi hanno nemmeno fatto finire: "Ma ce l'hai la laurea?". "No", gli ho detto. "E il diploma?". "Il diploma nemmeno, ho la terza media ma i sacchi di cemento in Africa li posso portare lo stesso". Mi hanno risposto: "Per queste cose ci sono i negri"". Appunto, la legge Pedini è questa: posti limitatissimi, titoli di studio superiore: due anni non retribuiti per l'assistenza sociale nei paesi sottosviluppati, uno strumento insomma ad uso e consumo dei ceti privilegiati.

Eppure, anche se le cose stanno così, c'è sempre qualcuno che dice: ma cosa si vuole, dopo tutto chi sono gli obiettori di coscienza, pochi esaltati, pochi fanatici su centinaia di migliaia di giovani che fanno ogni anno il loro dovere, perché tanto chiasso? E' una buona domanda da porsi per sgombrare il terreno di tanti equivoci: chi sono e cosa vogliono gli obiettori?

Nell'immediato dopoguerra l'obiezione di coscienza era pressoché monopolizzata dai "Testimoni di Jehova", si trattava di una scelta religiosa che poteva essere liquidata come un episodio di costume, una curiosità folcloristica. La protesta (quando c'era, perché i Testimoni di Jehova smisero presto di far notizia), riguardava il fatto che finivano in prigione invece che in convento più che le strutture militari. A partire dagli anni Sessanta la situazione è rapidamente cambiata. Oggi gli obiettori sono quasi tutti "politici" non rifiutano di indossare la divisa nel nome di Cristo ma in quello di una personale scelta ideologica. Accanto a loro, i gruppi antimilitaristi e le organizzazioni non-violente si sono fatte più numerose, dietro la loro protesta si sono affacciati alcuni temi di fondo. Il ruolo dell'esercito in un paese democratico, la riforma dei regolamenti, il diritto alla libertà di opinione.

NON SONO UN COMPLICE IN DIVISA

Lasciamo parlare gli obiettori. Carlo Di Cicco, 23 anni:"Sono orfano, e quindi lo Stato mi ha fatto studiare. Se non lo ero, stavo ancora con le pecore. Il diritto allo studio l'ho conquistato con la disgrazia. Ho fatto il liceo dai salesiani, poi l'università a Roma, sempre dai salesiani. Mi hanno cacciato perché avevo presentato un documento di protesta sulle borgate romane; dicevo che era immorale la collusione tra il potere economico e quello religioso nello sfruttamento delle borgate. E me ne sono andato a lavorare al Borghetto Latino. La mattina faccio il manovale, il pomeriggio con un amico faccio la scuola ai figli degli operai, la sera agli operai. Fare il servizio militare per me significa essere disponibile per questa società d'ingiustizie. Voglio lavorare in borgata, non voglio diventare il complice in divisa di chi sfrutta il prossimo. Adesso per la legge sono latitante. Prima o poi verranno a prendermi e comincerà il calvario, sogno tutte le notti la polizia e i carabinieri, spero solo di

aver la forza di andare fino in fondo".

Giacomo Secco, 24 anni: "Rifiuto tutte le istituzioni violente. Mi si dirà che un'alternativa non è possibile; ma io penso che se si sposta un pò più l'interesse sull'uomo non ci sono difficoltà a trovare meccanismi di solidarietà e di fratellanza, centri familiari per l'infanzia abbandonata, servizi di assistenza a domicilio per gli anziani, gruppi scolastici nelle regioni più depresse. L'esercito è lo strumento che distrae le forze disponibili per questi compiti e le utilizza per i suoi fini, che sono poi quelli stabiliti una volta per tutte dai gruppi al potere: disciplina completa, assimilazione totale della struttura gerarchica. Le carceri militari sono un esempio classico di questa inerzia. Non si ha il diritto allo studio, non si può corrispondere regolarmente nemmeno con il proprio avvocato, non si possono vedere i familiari. E alle cartoline in arrivo viene cancellato l'indirizzo in modo che il detenuto non sappia dove mandare la risposta".

IL CITTADINO CONGELATO

Luciano Scapin, 26 anni, è su posizioni ancor più radicali: "Questa", dice, "è una società alienante, e cioè una società che ruba. Ruba ai cittadini la propria dignità costringendoli a vivere in condizioni fisiche o psicologiche inumane nelle borgate e nelle bidonvilles urbane; ruba a chi lavora i frutti del suo lavoro perché lavora per un benessere che non è il loro. L'esercito serve a congelare questa situazione: il soldato deve dimenticare di essere un cittadino pensante, con una coscienza. E' solo un esecutore di ordini, non ha la minima speranza durante i mesi del servizio di leva di trovare lo spazio per aiutare lo sciopero dei braccianti meridionali o l'azione dei baraccati che occupano gli appartamenti sfitti. Sarà sempre costretto a stare dall'altra parte".

Negli ultimi mesi gli obiettori hanno preso l'abitudine di rendere pubbliche le loro ragioni con volantini e bruciano in piazza le cartoline precetto, organizzano sit-in per spiegare che la loro obiezione non riguarda solo il rifiuto di uccidere ma anche tanti altri aspetti della vita militare, organizzano conferenze stampa per svegliare la pubblica opinione che in verità sui loro casi non si è mai commossa eccessivamente.

E' ANCHE UNA APOLOGIA DI REATO

Tutto questo, naturalmente, pagando di persona, perché se è vero che la pubblica opinione comincia a essere sensibilizzata e le file degli obiettori s'ingrossano (6 obiezioni "politiche" dal '66 al '69, contro le trenta degli ultimi 15 mesi), a molti di loro le autorità militari hanno inflitto oltre la rituale denuncia per obiezione anche quella per "apologia di reato", tanto per sottolineare che l'obiezione va consumata di nascosto come un vizio solitario. Non importa se da questa seconda imputazione nasce un incredibile giro vizioso; l'obiezione scatta quando si sono accertati i valori morali e sociali che la ispirano, ma come si fanno ad accertare questi valori se l'obiettore non ne può parlare?

D'altra parte, anche quando riescono a parlare e a spiegare, non è che le cose cambiano in meglio. Nella sentenza che condanna Luciano Scapin a tre mesi di reclusione si legge: "Invano si cerca di accogliere nelle discolpe dell'imputato il travaglio di una coscienza di fronte ai complessi problemi che le guerre pongono ai singoli... lo Scapin espone opinioni, giudizi, attacchi che sembrano assunti pari pari dall'ambito di una propaganda di certe forze estremiste e che non hanno niente a che fare con il problema di coscienza che caratterizza il vero obiettore". Quindi il tribunale esprime forti dubbi che l'obiezione di Scapin sia motivata da "sinceri impulsi di natura etica" e non concede l'attenuante dei "particolari motivi di natura morale e sociale". Come dire: o fai dei ragionamenti da semplice pacifista oppure, se cerchi di motivare politicamente il tuo rifiuto a prestare il servizio militare e critichi le strutture tradizionali dell'esercito, io, tribunale, ti considero un delinquente comune. E cos

ì si spiega come mai la riforma degli ordinamenti militari aspetta di essere portata a termine praticamente da quando è stata fatta l'unità d'Italia. Il che testimonia l'impermeabilità della classe militare, ma non spiega le incertezze della classe politica.

E qui si apre un altro discorso. Quello della storia parlamentare dell'obiezione di coscienza, che è una storia di appuntamenti mancati, di continui "gridi di dolore" e di iniziative che non arrivano mai a compimento. Vediamone le tappe essenziali. Nel 1946, alla Costituente, molti chiedono un emendamento all'articolo 52 della Costituzione, quello che stabilisce l'obbligatorietà del "servizio militare". La Democrazia cristiana si oppone e dichiara per bocca dell'On. Merlin che la proposta non può venire accolta perché in Italia "una setta di obiettori...non esiste". Due risultati in uno: proibizione dell'"eresia" di coscienza, relegati nel ghetto delle "sette" tutti gli obiettori...

Poco dopo prendeva il via il calvario dei Testimoni di Jehova e all'inizio degli anni Cinquanta c'era la prima clamorosa obiezione "civile", quella di Pietro Pinna. E, mentre padre Messineo attaccava duramente l'ipotesi dell'obiezione di coscienza, contraria "ai principi stessi della Chiesa", finalmente la classe politica intervenne: nascevano i primi due progetti di legge per un servizio civile alternativo a quello militare. Erano progetti moderati, che riservavano alle commissioni militari un forte margine di discrezionalità nel valutare i casi di obiezione. Tuttavia non ebbero esito. Anzi, durante le successive legislature le proposte su questo tema furono ancora più restrittive.

IL CASO DI PADRE BALDUCCI

Nel 1963 scoppia un altro caso nazionale, l'obiezione del cattolico Giuseppe Gozzini. Padre Balducci che lo appoggia con un articolo sul "Giornale del Mattino", criticando la teoria tradizionale cattolica della "guerra giusta" viene condannato ad otto mesi di carcere per apologia di reato. Sullo slancio proliferano altri progetti di legge, ma anch'essi s'insabbiano regolarmente, L'unico a passare è quello del democristiano Mario Pedini, di cui abbiamo già illustrato il contenuto.

Arriviamo così ai giorni nostri. L'obiezione di coscienza è ancora lontana dal diventare un fenomeno di massa come vorrebbe che la pratica, ma non è più neanche un problema di pochi isolati; le marce degli obiettori sono sempre più nutrite; i convegni, le manifestazioni, i dibattiti sui problemi sollevati da leggi e regolamenti militari vecchi di sessant'anni sono sempre più numerosi. Bene, tutto quello che si ottiene sono altre leggi rimaste allo stadio di progetto. Tranne una che ha avuto nel luglio 1971 l'approvazione del Senato e che si è già guadagnato il nome di "legge truffa". Perché? Gli obiettori chiedono un servizio civile alternativo, non semplicemente sostitutivo di quello militare, e la legge dice che il servizio sarà effettuato presso un ente "convenzionato con il ministero della Difesa"; chiedono che il servizio civile non sia punitivo e invece dovrebbe durare otto mesi in più di quello militare; chiedono che la commissione che li giudica sia strettamente civile e invece l'ultimo giudizio

spetta ancora una volta al ministero della Difesa. Dicono, infine, che non fanno il servizio di leva perché non approvano le strutture militari così come sono, e la legge stabilisce che "saranno equiparati ad ogni effetto civile e penale ai cittadini che prestano il normale servizio militare". Tutto deve cambiare perché tutto resti come prima. Resta solo da aggiungere che la legge è passata non solo con i voti della Dc e dei partiti laici minori, ma anche dei socialisti. E che il dibattito che ha preceduto la votazione si è trascinato nel più totale disinteresse e nella più generale indifferenza.

Il futuro, per gli obiettori deve ancora cominciare. Dice Cicciomessere: "Ogni tanto qualcuno si complimenta con me: bravo, tu sì che hai coraggio. Ma io non ho coraggio, io ho paura".

 
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