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Cicciomessere roberto - 1 luglio 1972
Diario di ricordi da Peschiera e dintorni (1)
di Roberto Cicciomessere

SOMMARIO: Il racconto della vita nel carcere militare dell'obiettore di coscienza Roberto Cicciomessere. Segretario del partito radicale, è impegnato nella campagna per il riconoscimento del diritto a rifiutare le armi. Dopo pochi mesi dal suo arresto, grazie alla mobilitazione dell'opinione pubblica promossa dal Partito radicale, il Parlamento italiano approva, il 15 dicembre 1972, una legge che riconosce il diritto civile all'obiezione di coscienza al servizio militare.

(La prova radicale, estate 1972, n.4)

L'11 marzo, dopo la manifestazione in piazza Lagrange a Torino, ci consegniamo ai carabinieri. Siamo tre: Valerio Minnella, Gianni Rosa, ed io. Alerino Peila è stato invece già arrestato, poco prima dell'inizio del corteo.

I carabinieri impiegano molte ore per trovare i nostri mandati di cattura. Verso sera ci prendono le impronte digitali, ci fanno le foto segnaletiche e ci portano, senza manette, alle "nuove" di Torino. Passiamo la notte nelle celle d'isolamento del sotterraneo. Sono celle singole, molto piccole, umidissime, con il cesso alla turca. Durante la notte passa periodicamente la guardia. Accende la luce e controlla, attraverso lo spioncino, l'interno della cella. E' difficile dormire.

12 marzo - Ci traducono, su due macchine, al carcere militare di Peschiera. Sono ammanettato con Alerino; in un'altra macchina, Valerio e Gianni. Gli autisti sono costretti a fare molti giri attraverso Peschiera, per riuscire ad imboccare l'entrata del carcere. Peschiera è infatti occupata militarmente da carabinieri

e polizia, le vie d'accesso al carcere sono bloccate da cavalletti; è in programma la manifestazione dei gruppi antimilitaristi. Ci tolgono i ferri, firmiamo il registro (riesco

a vedere il numero dei detenuti in "forza": 202) e veniamo subito accompagnati dal maresciallo Doni nelle celle d'isolamento. Sono

locali di circa 4 metri quadri, in buona parte occupati dal tavolaccio, con una finestrella che si affaccia sul corridoio, la luce di una lampadina sempre accesa, abbastanza freddi e umidi. Occupiamo quattro, delle cinque celle esistenti; nella prima è il letto di contenzione: il materasso ha un buco al centro per i bisogni fisiologici, grosse cinghie sono fissate al letto e servono per immobilizzare il detenuto nudo. Il morale è, nonostante tutto, alto. Entriamo in carcere preparati, senza rimpianti, per una precisa scelta politica. Valerio e Alerino, che sono alla seconda obiezione, fanno da ciceroni e spiegano a me e a Gianni, gridando dagli spioncini delle celle, il funzionamento del carcere, ci indicano i carcerieri "buoni" e quelli "cattivi", ci rassicurano sulla permanenza in quelle celle, non troppo comode: "al massimo stasera, dopo la doccia e la vestizione, ci porteranno in camerata". Sono impaziente di conoscere gli altri detenuti, di vivere - ormai - quanto ho letto nel diario di Pizzola.

Non sarà cosi'.

14 marzo - Sono passati, invece, due giorni di cella. Chiediamo di essere ricevuti dal comandante, per avere spiegazioni su questo trattamento particolare. Iniziamo anche a rifiutare il rancio. Nestorini ci chiama uno alla volta e ci spiega che, secondo il regolamento dobbiamo restare in isolamento fino a quando saremo interrogati dal procuratore militare. La regola non viene mai applicata, ma solo perché esistono poche celle : lui quindi non fa che applicare correttamente il regolamento. Alla domanda perché questo improvviso zelo risponde molto vagamente. A me in particolare fa subito capire che rifiutare il rancio è un reato punibile a norma di codice militare, reato che diventa ancora più grave se realizzato da più persone ed in seguito ad un preventivo accordo.

Ritornando in cella, accompagnato dal maresciallo Doni, mi rivolgo agli altri compagni che devono a loro volta, recarsi dal comandante Nestorini, dicendo "non mollate".

15 marzo - Dopo la doccia Doni, mentre fa accompagnare gli altri compagni alle camerate, mi comunica che devo restare ancora in cella. Non mi dà spiegazioni. Continuo a non mangiare, anche se la cosa diventa sempre più difficile per mancanza di latte. Avevo già fatto digiuno per il divorzio e per l'o.d.c., anche undici giorni ma mai in completo isolamento ed in una situazione che mi appare di giorno in giorno più difficile.

19 marzo - I dolori allo stomaco diventano insopportabili e termino il digiuno. In questa giornata il capitano Nestorini, il tenente Zanzottera, il sottotenente medico e cappellano, tutto lo staff dirigenziale insomma, mi comunicano, venendo personalmente nel corridoio delle celle, che per il "non mollate" sono stato punito con dieci giorni di CPR, di cella d'isolamento. La decisione mi viene presentata come atto magnanimo, perché nella frase potevano essere ravvisati gli estremi di reati molto più gravi, come istigazione di militari alla disobbedire punibile con ben altre pene. Ostentano di assicurarsi che la mia permanenza in cella sia "confortevole", concedendomi il materasso e le coperte anche di giorno, la possibilità di fumare e di leggere. Claudio Bedussi, Giacomo Secco, Valerio Minnella riescono perfino ad entrare nel corridoio delle celle ed a portarmi latte, libri, bigliettini con notizie varie. Il cappellano fa brevi apparizioni, mostrandosi molto gentile, regalandomi perfino sigarette. Non ha nes

suna voglia di parlare con me anche se, nella mia condizione d'isolato, ne sento evidentemente molto bisogno. Questo trattamento particolare è forse l'effetto dei telegrammi di Loris Fortuna, di Lino Jannuzzi, di Ennio Bonea che mi arrivano in cella: Nestorini capisce che la vicenda è seguita dall'esterno, anche da forze organizzate, e non è quindi conveniente fare troppo i duri, rischiare di attirare l'attenzione sul carcere e sul trattamento riservato ai detenuti. Non può non pesare, anche, "La Prova Radicale" con il diario di Mario e l'annuncio che continueremo su questa strada. Per molto meno non aveva esitato, altre volte, a denunciare altri compagni detenuti.

21 marzo - Trascorro questi giorni di cella senza eccessive difficoltà, leggendo molto (Bedussi ha una fornitissima biblioteca e mi passa quotidianamente ottimi libri), abbastanza sereno. Comincio a conoscere le persone che vengono rinchiuse nel carcere, parlando attraverso lo spioncino con i nuovi arrivati che per qualche ora, prima dell'assegnazione della camerata, passano in queste celle. Renato Bianco, bersagliere mi chiede angosciato di parlare con lui: è qui dentro per essersi portato a casa, durante la licenza, una giacca militare affidata sperimentalmente al suo battaglione. Riesco a parlare con tre alpini che si sono allontanati dal posto di guardia, di notte, in mezzo alla neve, cinque minuti prima della scadenza del loro turno.

22 marzo - L'undicesimo giorno di isolamento, due giorni prima del previsto vengo trasferito in camerata. I compagni obiettori scherzando insinuano che debbo ringraziare mia madre che per molti giorni ha rotto i coglioni a Nestorini e l'ha costretto a graziarmi due giorni. In realtà è un gesto di "buona volontà" di Nestorini, per farmi capire che se non rompo le scatole ci si può intendere. E' un discorso che funziona con molti detenuti, e rischia di funzionare purtroppo - probabilmente per un eccesso di fiducia in sé- anche con un obiettore.

23 marzo - La camerata in cui vengo portato può contenere dalle quindici alle ventidue persone. Le sue uniche finestre che guardano sulla strada sono chiuse quasi interamente da un muretto. La luce è, quindi, sempre accesa. L'arredamento è costituito dalle brande militari e dagli armadietti metallici. In un piccolo vano c'è il solito cesso alla turca e un lavandino. La mattina bisogna fare la coda per potersi lavare. Non esistono termosifoni, il freddo e l'umidità sono notevoli anche d'estate, per la vicinanza del lago di Garda e del Mincio su cui si erige il carcere, una vecchia fortezza austriaca. In questo locale si trascorrono il maggior numero di ore, 18 su 24. Circa sei ore, tre la mattina e tre nel pomeriggio, costituiscono la razione di "aria" da "prendersi" in un cortile abbastanza ampio, chiuso da un muraglione su cui passeggiano le sentinelle ed è sistemata una garitta con il riflettore. Qui è possibile anche giocare a ping-pong, pallavolo e calcio (testimoni di Geova permettendo).

Il mio primo contatto con i compagni di camerata è, come previsto, abbastanza difficile. Come nella caserma, i detenuti scaricano l'aggressività repressa, l'oppressione continua, sui più deboli, creando regole e gerarchie fittizie che evidentemente hanno come unico effetto quello di dividere i detenuti, renderli deboli ed impreparati nei confronti dei superiori, aggiungere difficoltà alla già difficile vita di carcere. Cosi' anche nella mia camerata esiste il "capo-camerata", ci sono gli anziani che ritengono di avere dei poteri sui nuovi arrivati, vige l'abitudine degli scherzi stupidi come i "gavettoni", i "dentifrici" ed altre liturgie ancora più crudeli, riportate di sana pianta dall'ambiente di caserma che alcuni vorrebbero ricreare. Eliminare questo stato di cose, pregiudiziale alla presa di coscienza delle cause comuni della nostra condizione di detenuti, è l'impegno più difficile ma anche più importante del nostro gruppo di obiettori.

Appena entrato in camerata, "Veneziano", il "capo-camerata", mi fa sapere fra le risatine degli altri che vige l'abitudine di infilare una supposta ad ogni nuovo detenuto. Mi comunica che se non me la farò introdurre con le buone gli "anziani" saranno costretti ad usare le cattive. In modo fermo, ma non astioso, spiego il senso del mio rifiuto, la necessità che in camerata non si creino divisioni fra i detenuti ma la completa unità per meglio contrastare il prepotere e gli arbitri dei superiori, l'identità sostanziale delle ragioni che ci hanno portato tutti nel carcere militare. Dichiaro di non avere nessuna intenzione di reagire violentemente ad un loro eventuale atto di forza. Questa reazione, evidentemente, li sconcerta: inconsapevolmente speravano in una risposta violenta alla quale avrebbero potuto opporne una maggiore e "vincente". E' il senso stesso del "gioco" , a voler tralasciare altre, e più torbide e inconsce, implicazioni.

Hanno conosciuto solo obiettori come i testimoni di Geova ed il mio discorso, che non fa discriminazioni fra i detenuti "comuni" e politici o religiosi, li lascia interdetti. Per il momento desistono dalla "operazione". Ritorneranno alla carica nei giorni successivi, anche se con sempre minore convinzione. Inizio a conoscere i compagni di camerata. Più della metà sono "pregiudicati", con vari anni di carcere "civile" sulle spalle. Non è difficile aprire con loro un dialogo : sembrano i più duri ma, una volta superata la barriera di diffidenza, si sfogano raccontandomi la loro vita, i loro problemi, le ragioni della loro attuale condizione. Girolamo Gullace entra pochi giorni dopo di me, e subito provano con la supposta. E' abituato da sempre agli ambienti violenti della "mala", è un "duro" che non si lascia "mettere i piedi in testa da nessuno" e, quindi, i compagni di cella capiscono che potrebbe finire male per tutti e lo lasciano stare. Intervengo nella discussione, a suo favore. Me ne è molto grato. Mi r

acconta che a 15 anni supplisce alla impossibilità dei genitori di fornirgli anche solo e di rado poche lire rubacchiando con gli amici nelle auto lasciate in sosta aperte, o con qualche furto di poche migliaia di lire nei negozi. A sedici anni finisce in riformatorio, la scuola elementare del "crimine". Qui inizia ad imparare i sistemi per aprire le macchine, fare gli scippi o piccole truffe. Una volta uscito, decide però di trovarsi un lavoro. Per circa un anno, emigrato a Torino, cerca un posto qualsiasi: inoltre alle sue domande, quando ripassa, la risposta è sempre la stessa: "siamo al completo, provi fra qualche mese". Nessuno si fida di un pregiudicato. I soldi non ci sono, la famiglia è lontana e comunque non può dargli alcun aiuto, e quindi si trova inserito nel mondo della "mala", prima come gregario, poi iniziando a fare "lavoretti" in proprio. Il carcere, dove periodicamente finisce, perfeziona la sua tecnica.

Sono poi storie incredibili (che avrò ben presto la possibilità di verificare) delle condizioni inumane dei carceri "civili", dei pestaggi, del tentato suicidio come unico mezzo per non subire ulteriori angherie, dalla lametta sempre in bocca pronta all'uso o alla minaccia d'uso, della puntuale imposizione dei rapporti omosessuali, dello sfruttamento organizzato di questa manodopera a poco prezzo. Parlando si incazza e maledisce la sua situazione, maledisce chi lo costringe prima al furto e poi lo manda in galera o lo fa pestare dalla polizia negandogli ogni possibilità di uscire da questa situazione. Come dargli torto? Non posso che ripetergli che non è possibile condannare chi ruba poche migliaia o a volte alcuni milioni di lire quando si consente il furto di miliardi e l'assassinio di massa legalizzati, che non è possibile condannare chi, quando è nato, è già condannato alla miseria e ad essere sfruttato o al furto, senza condannare le cause e le ragioni della miseria e dello sfruttamento.

Capisce che sono sostanzialmente con lui, contro chi lo ha costretto ad una vita che non ha difficoltà a capire essere senza sbocchi. Diveniamo amici. Cerco di pensare con lui a possibili soluzioni. Non le trovo. Conclude: "Se riesco a fare un colpo buono metto su un laboratorio di camiceria con la mia compagna e smetto questa vita". Probabilmente non ci riuscirà mai. Mentre mi spiega perché è dentro per mancanza alla chiamata, due detenuti incominciano a prendersi a male parole. Passano ai fatti, esce un coltello. Valerio mi aveva avvertito delle frequenti risse e mi aveva consigliato di non intervenire mai: si possono rimediare coltellate! Cerco di dividerli, con molta paura, e di aprire un discorso sulle condizioni carcerarie. I due mandano a fare in culo dicendomi di non seccarli con la politica, ma perlomeno smettono di litigare.

Gli avvenimenti di questa giornata non finiscono qui: verso mezzanotte si sente un vociare nel corridoio e vedo, attraverso le inferriate del cancello, alcuni caporali che portano a peso un detenuto con la schiuma che esce dalla bocca. Dopo circa dieci minuti si ripete la stessa scena. Prima era stato portato in infermeria, ora lo portano fuori. Riesco a sapere da un infermiere che si tratta di Paolo Costantino - per la seconda volta in carcere per mancanza alla chiamata - che ha ingerito un topicida, prendendolo dalle cucine dove lavora. Rimane più di mezz'ora nell'entrata del carcere fino a quando il maresciallo di servizio

riesce a trovare una macchina per portarlo all'Ospedale di Verona. Resterà in coma per alcuni giorni, ma riuscirà a farcela. Timido, introverso, mite, non sa difendersi: anche, altri detenuti lo dileggiano, ricreano - a sue spese - la loro "superiorità". "Meglio morire".

Quasi ogni sera sono spettatore di crisi isteriche, di tentati suicidi. Il medico, un sottotenente di leva, è costretto quasi ogni notte, a venire in carcere. Un detenuto che lavora in infermeria ci riferisce quello che vede.

Claudio mi indica, nel cortile, un detenuto che siede appartato, sulla panca. Si chiama Sala. Epilettico, aggravatosi a seguito di un incidente stradale, viene sbattuto a Peschiera per mancanza alla chiamata, ricoverato per dieci giorni all'Ospedale militare di Verona, poi ritorna in carcere. E' colto da una crisi. Si contorce nella branda. Maseracchia prende a calci la branda. Lo minaccia di sbatterlo in cella se non si fa passare la crisi. Con due pedate, lo spinge in cortile. Continuano le crisi e i pianti di Sala, che non vuole chiamare l'infermiere perché ha paura delle minacce di Maseracchia.

(Valerio Minnella rischia la denunzia per calunnia in seguito alla pubblicazione su Settegiorni di un diario in cui si narra questo episodio e che gli viene attribuito. Numerosi testimoni sono stati presenti al fatto che qui viene precisamente ricostruito.)

27 marzo - Nelle ore di "aria" ho potuto vedere i compagni obiettori del braccio est, Minnella, Peila, Rosa e Bedussi. Nell'altro braccio sono rinchiusi Amari, Truddaiu, Bovi Campeggi e Reggiori, con i quali riusciamo ad avere solo rapidi incontri in cucina o dal barbiere. In queste ore ci scambiamo le esperienze della camerata, discutiamo dei problemi che ogni giorno la nostra condizione di detenuti ci propone. Il disegno di Nestorini di dividerci in camerate diverse, perché assieme avremmo potuto organizzare non si sa cosa, si rivela uno sbaglio: divisi per camerate, riusciamo ad intervenire praticamente presso tutti i detenuti, a conoscere ogni nuovo, a sapere praticamente tutto quello che accade in carcere.

Nelle ore di "aria" possiamo poi comodamente vederci ed informarci reciprocamente. La situazione è diversa per Gianni Rosa e Valerio Minnella che sono nella camerata dei testimoni di Geova. Costoro (54 persone, divise in tre camerate) sono gli unici detenuti con cui non riusciamo ad aprire alcun dialogo. Decisamente settari, privilegiati per moltissime cose, professano la propria neutralità nelle cose del carcere. Inutilmente, si cerca di far loro comprendere che non può esistere "neutralità" di fronte alla palese ingiustizia che rappresenta il carcere; che, in occasione di abusi e violenze contro altri compagni detenuti, far parte a sé, significa sostanzialmente essere dalla parte del più forte, di chi compie gli abusi anche perché questi conta sulla indifferenza, sulla neutralità, sulla paura degli altri. Cerco di farli riflettere sul significato di queste cose citando il versetto della bibbia (che è il loro unico "libro di testo") "Chi non è con me, è contro di me". Niente da fare. Per loro il carcere è i

l seminario in cui passano tutti i nuovi adepti. Organizzano infatti le loro giornate con la massima disciplina, con corsi di studio della bibbia, dibattiti, lavori manuali, funzioni religiose. Nelle loro camerate è appeso un tabellone in cui sono indicate le attività e le ore in cui devono essere rigorosamente svolte. Hanno il permesso di ricevere e persino diffondere il loro settimanale "La Torre di Guardia", di fare propaganda e proseliti fra i detenuti e fra i caporali, di tenere in carcere tutti gli strumenti di cui hanno bisogno come coltelli, seghe, trapani, telai, chiodi, corde, di avere colloqui con i familiari, quando e per il tempo che desiderano, di inviare "lettere di testimonianza" agli indirizzi che reperiscono nel carcere per propagandare la loro organizzazione.

Il capitano è ben lieto di permettere questi privilegi, assolutamente vietati ai detenuti comuni, perché questi "detenuti modello" rappresentano l'ostacolo insormontabile per ogni protesta collettiva, per ogni tentativo di rifiuto di servizi particolarmente duri: i "testimoni" sono sempre disponibili per ogni lavoro che venga loro richiesto dalla direzione. Sono perciò detestati da tutti gli altri, anche perché le loro camerate sono piene di generi alimentari e di oggetti assolutamente sconosciuti da tutti. Trattano poi con disprezzo i "comuni", o al massimo quali oggetto di conversione.

29 marzo - Approfondisco la conoscenza con gli altri compagni di cella: il gruppo degli alpini denunciati per violata consegna, per essersi allontanati dal posto di guardia, mi raccontano del loro lavoro infernale nel battaglione artiglieria da montagna: "I muli contavano più di noi, se si ferivano o erano stati strigliati male venivamo puniti mentre per i calci in faccia o sulle palle che ogni tanto ci rifilavano non succedeva niente" ..."meglio il carcere che quella vita d'inferno, a far la guardia, di notte con la neve, ai muli o alla polveriera vuota, e il tenente che sbucava d'improvviso per controllare se eravamo svegli e all'erta"...Uno dice: "Lo avremo fatto fuori, se si fosse presentato ancora d'improvviso durante il turno di guardia della notte; abbiamo l'ordine di sparare contro gli sconosciuti che s'avvicinano"; Walter, muratore, aveva prolungato la licenza di una settimana per restare ancora con la fidanzata; Vincenzo Fortemurato, con il corpo segnato di tatuaggi, emigrato in Germania, rimpatria

to dopo sei mesi di detenzione per furto, arrestato per mancanza alla chiamata al confine. Gino, arrestato per diserzione; senza genitori, nè parenti, nè amici, timidissimo, non sopportava la vita di caserma dove era preso di mira da tutti con gli scherzi più crudeli. Non andava mai in licenza, non sapeva dove andare e comunque non aveva soldi per spostarsi. Aveva trovato un lavoro di commesso in libreria a Torino ed aveva disertato per più di sei mesi. Giuseppe, sardo, era uscito di caserma senza permesso ed era stato beccato dalla ronda con un tenentino, ma era riuscito a scappare e rientrare in caserma. Il tenentino lo aveva cercato e trovato in camerata, riempiendolo d'insulti. Giuseppe aveva reagito prendendolo a pugni. Renato Bianco, il bersagliere denunciato perché si è impossessato di una divisa sperimentale, mi racconta della nuova utilizzazione della sua Arma: "Prima siamo intervenuti in un liceo di Rovigo. Il primo giorno gli studenti ce le hanno date. Il giorno dopo li abbiamo aspettati in aula e

gliene abbiamo date di santa ragione. L'ordine era di pestare con il calcio del fucile ma non tanto da romperlo, in quel caso saremmo stati puniti per danneggiamento. Nell'estate del '71 ci hanno trasferiti tutti a Bari e quindi siamo andati con gli M 113 a Reggio Calabria. Ho avuto molto paura, dovevo colpire per primo per non essere ammazzato. Abbiamo anche sparato. Il 2 giugno ero in Sardegna e siamo intervenuti contro una manifestazione della popolazione sarda che non voleva parate militari caserme, basi NATO. Abbiamo sparato in aria. Il mio amico si è sbagliato ed ha tirato una raffica pochi centimetri sopra le teste dei manifestanti.

In Sardegna ci massacravano con gli allenamenti. Corse sotto il sole per chilometri allenamenti sulle montagne". "Ma non ti faceva schifo colpire i manifestanti?". "Questo era l'ordine, se non facevamo ci avrebbero mandato a Gaeta e comunque le avremmo prese dai manifestanti. Meglio loro che noi. " Nei giorni successivi cambierà molte di queste idee.

1 aprile - Ogni nuovo arrivato, ogni caso personale, i processi, le condanne assurde, il clima di autoritarismo e di minaccia sono spunti per parlare, per commentare. Anche i più restii a sbottonarsi, come Veneziano, incominciano a partecipare alle discussioni che si svolgono in camerata. Nei momenti di maggiore incazzatura per qualche punizione, quando la maggioranza vorrebbe, almeno a parole, "spaccare tutto come alla Nuove", non è facile convincerli che cosi' facendo faremmo il gioco dei superiori, daremmo occasioni per punizioni durissime. Cerco di portare avanti il discorso non violento, parlando dei metodi di disobbedire collettiva, della necessità che ci sia un minimo di unità fra i detenuti.

Ma tutto sembra morire sul nascere, per la reciproca diffidenza. Ogni detenuto sa di poter essere ricattato in mille modi dal comandante: il rapporto che verrà consegnato ai giudici, i piccoli lavori male retribuiti del carcere, la censura sulla posta, i colloqui, la possibilità di fare spesa esterna, il regolamento, poi, che pende come vera spada di Damocle sulla testa del carcerato militare. Mi rendo conto che solo un lungo lavoro, con i rischi connessi al fatto che Peschiera è un carcere di passaggio, potrebbe permettere qualche risultato e la conquista di qualche diritto interno. L'elemento fondamentale, la cosa di cui ha paura la direzione del carcere, è il collegamento organizzato con l'esterno, la pubblicizzazione di ciò che avviene in carcere.

3 aprile - In cortile riesco ad attaccar discorso con il tenente Zanzottera: uno spunto per creare momenti di dibattito collettivo sui problemi che riguardano la nostra condizione, l'esercito. Il tenente si mostra disponibile, con atteggiamento paternalistico gira in cortile chiacchierando con i detenuti. E' abbastanza facile fermarlo, provocarlo alla discussione con considerazioni sull'esercito, coinvolgervi molti detenuti. Il dibattito continua poi nelle camerate. Questa scena si è ripetuta già varie volte, con l'immancabile dichiarazione del tenente: "Ora dovrò autopunirmi perché ho permesso che si parli di politica in carcere!". Bedussi è molto preoccupato per questa mia attività che ritiene troppo scoperta. Sta ancora pagando il suo atteggiamento duro e non compromissorio verso il comandante: è stato condannato a due mesi di carcere per non aver staccato con prontezza due poesie d'amore dal muro della cella.

Durante l'aria conosco altri detenuti: Onesti è il simpatico del carcere. E' un po' "beat" e riesce a sfottere i sottufficiali ed anche Zanzottera. Prima faceva la sentinella sugli spalti del carcere e poteva, quindi, vederci, capire le nostre condizioni di vita. Una sera scrive "questo carcere non dovrebbe esistere, perché è il simbolo di repressione antisociale e di dittatura. Siamo nell'anno 1972 e tutto possono fare fuorchè fermare il tempo". Sconta ora con noi i sette mesi della condanna.

I due poliziotti arrestati per la manifestazione di protesta dei 500 P.S. di Torino sono ormai stati accettati da tutti. Bedussi mi racconta che all'inizio i detenuti, in particolar modo i "comuni" volevano picchiarli. Con il passare del tempo sono riusciti a farsi accettare, modificando molte delle loro idee. Parlo con Trevi che è il più intelligente e simpatico: "Sono entrato nella polizia dopo aver litigato con mio padre che gestisce una pompa di benzina a Latina. volevo essere indipendente ed ero stufo di quella vita noiosa". "A Torino cosa è successo?". "La manifestazione è stata completamente travisata dai giornali. Forse è stata una fortuna. Era nata come dimostrazione di "destra". I miei colleghi volevano applicare il regolamento, far chiudere tutti gli esercizi pubblici illegali, cioè la maggioranza, multare con la massima ammenda gli automobilisti sorpresi in torto, fare una specie di sciopero bianco per protestare contro le limitazioni che vengono poste alle nostre prerogative di poliziotti e per

la riforma di alcune norme interne, come il divieto di sposarsi prima di 26 anni. Sono riuscito a convincerli a non fare tutto ciò ed a marciare, invece, inquadrati per via Roma, di notte. Qualcuno deve aver chiamato un fotografo e cosi' è nato il casino. A me e a Papa ci hanno arrestati perché eravamo i più anziani e gli unici che non si sono cacati sotto davanti al comandante".

Dopo mesi di detenzione, a diretto contatto con i "ladri" si è perlomeno convinto che non è vero che "non hanno voglia di lavorare e preferiscono la bella vita". Non ha ancora deciso se rimanere nella polizia.

Il momento della distribuzione della posta è quello che aspettiamo con maggiore ansia. Quando nel cortile arriva il sergente con il pacco di lettere accorriamo, tutti, famelici, sperando di ricevere qualcosa dal "mondo", di ricongiungerci finalmente con tutto ciò che abbiamo lasciato fuori. Questa specie di raptus collettivo colpisce anche chi non riceverà mai niente perché nessuno sa, nessuno sospetta della sua condizione di detenuto, nella "Caserma XXX Maggio". Costoro si contentano di farsi informare, sulle novità del "mondo", dai fortunati: Fortemurato..., Bedussi..., Peila...; Peila... sono le sorelle e la ragazza che ogni giorno gli scrivono...; Minnella... deve essere Ines con le sue bellissime lettere alla Ginsberg e i disegni psichedelici, o una delle sue numerosissime ragazze; Rosa... finalmente, erano giorni che aspettava.

La posta arriva sempre con molti giorni di ritardo. Spesso viene spedita alla procura di Torino per la censura e qui impiega anche un mese per ritornare a Peschiera. Dalle risposte possiamo verificare anche i ritardi pazzeschi con cui vengono spedite. Le lettere più politiche vengono regolarmente fotocopiate dal tenente Milano, che si occupa della censura. Tutta la nostra corrispondenza passa comunque nelle mani del comandante. Si vuole evitare che notizie sul carcere escano all'esterno, o che comunque, ci siano azioni coordinate. Una lettera di Magda in cui mi racconta dei suoi gatti e dei fiori rimane per molte settimane negli uffici della procura di Torino (le lettere censurate a Torino sono timbrate in un modo particolare), sospettano che "gatti" e "fiori" faccian parte di un nostro "codice cifrato".

La prima lettera mi arriva dopo due giorni di carcere, il 13. E' di Fausta Mancini Lapenna. Avevo parlato con lei per pochi minuti, ad Udine, prima di un dibattito sull'obiezione di coscienza che avevamo organizzato a febbraio.

"... le scrivo per dirle la mia amicizia e la mia simpatia. A dire il vero vorrei proprio pregarla di darci del tu. Non so se sai che ora faccio parte anch'io del P.R. Inoltre da molti anni un'infinità di giovani mi ha adottata per zia e mi chiamano in breve Zifà e mi danno del tu. Ci conosciamo poco, ma è nei tratti essenziali che si accentrano le reciproche simpatie. Viviamo le stesse ansie, lottiamo per comuni finalità e questo, molto più che la moneta che corre oggigiorno, lega gli esseri umani di seri vincoli...".

Mi arriva in cella e mi procura un enorme piacere.

Il 14 arrivano i telegrammi di Lino Jannuzzi e dei radicali reggiani. Il giorno dopo quelli di Ennio Bonea, Canestrini, Loris Fortuna. Il caporale che me li porta mi chiede cosa ho fatto per provocare le attenzioni di deputati. Il 16 mi arriva un libro, me lo manda Zifà: "Vittorio Emanuele II", di Mack Smith. Il 24, Nestorini mi chiama per consegnarmi personalmente una lettera dove Marco mi racconta le ultime novità del partito, dei rapporti con Il Manifesto. Giancarlo e Daniela e la Comunità S. Paolo il 30.

"... il processo per il 2 giugno è stato rinviato perché non tutti gli imputati erano stati avvertiti... ho ricevuto qualche giorno fa la convocazione per il 25 maggio... penso che la portiera si sia spaventata, mi guarda sempre come se volesse chiedere spiegazioni: tu al carcere militare, i carabinieri per me; appena avrò tempo farò un comizietto a lei e alle comari qua sotto... bc. bc." Liliana, 11 aprile.

"... sono contento che vai facendo il "callo" a questa naja rafforzata. Senz'altro uscirai rafforzato da questa esperienza, anche se dirti ciò mi rattrista poiché significa mitizzare o comunque privilegiare il "sacrificio" , a cui si vuol far risalire la forza e la qualità del nostro carattere e della nostra volontà. E tu sai che questo è un bel discorso di "violenza" con cui si cerca di condizionare dall'interno, dal proprio io, l'uomo, per renderlo docile strumento della comune morale, mentre la non violenza dovrebbe prima di tutto essere applicata nei confronti di noi stessi.

Penso, quindi, che questa esperienza potrà esserti utile non per il sacrificio che comporta, ma solo perché gestita ed amministrata da te e da noi, da radicali, con vero spirito non violento e con la possibilità di essere trasformata in una delle tante battaglie libertarie e civili, a cui il nostro impegno, stimolato dalla necessità contingente, dia le prospettive di una concreta ed attuale vittoria... il 10 aprile sei stato citato in giudizio per direttissima, con Marco, per il manifesto ed il numero di notizie radicali relativo a "Quando la patria chiama rispondiamo NO..." Giuseppe Ramadori, 11 aprile.

5 aprile - Sentiamo, dalle camerate, urla provenienti dalle celle di isolamento. "deve essere Doni, che si allena al karatè" commenta un detenuto. Vengo a sapere che si tratta di Provenzano, del braccio ovest, il quale si è rifiutato di partire per Gaeta. Mi dicono che è stato portato in cella di peso, e "accarezzato" da Doni, Maseracchia, ed altri sergenti. In camerata ne discutiamo molto. Cosa si può fare? Niente, per ora. Chiedo ai vecchi detenuti se la cosa accade spesso. La risposta è affermativa. Lo avevo letto del resto anche nel diario di Mario Pizzola. Comincio a prendere appunti; i nomi, le date.

Angelino Giovanni ritorna distrutto dal processo. Lo conoscevo solo di vista. Giocava sempre a pallone o pallavolo. E' di Napoli, semianalfabeta, completamente spoliticizzato. E' stato condannato dal tribunale di Padova ad un anno e 4 mesi, per aver fatto il verso della zanzara ad un sottotenente. Nel linguaggio di caserma (e di camerata) la "zanzara" è il pivello, il nuovo venuto. Durante il rancio Angelino aveva emesso questo "suono" alla presenza di un nuovo sottotenente permaloso. I suoi compagni lo avevano invitato a ripeterlo e lui lo aveva fatto.

Il processo è stato brevissimo. Il giudice si è soffermato a chiedere ai testimoni quante volte Angelino avesse fatto "zzz"... Il presidente ha anche invitato Angelino a riferire il verso "...ma devo proprio farlo?". "Certo, te lo ordino!" "zzz...". "Tenente lei conferma? Era "zzz" o "sss"? Quanto era prolungato?".

"un anno e sei mesi qui dentro? Io impazzisco, mi ammazzo!". Cerchiamo di calmarlo. Gli prometto di scrivere ad un buon avvocato per la difesa dinanzi al Tribunale Supremo. La notizia circola, esplode come una bomba per tutto il carcere. Ecco cosa significano i condizionamenti di classe. "Sapevo" cosa significhi la "difesa" d'ufficio; con il partito avevamo per anni promosso contestazioni giudiziarie su questo punto. Ma sono ugualmente sorpreso dall'immediatezza, dell'importanza che assume un "servizio" che mi era venuto naturalmente di proporre.

E' la prima scintilla. Ne parlo molto, anche nei "comizietti" con Zanzottera. Mi sembra un caso che chiarisce perfettamente il ruolo di questi tribunali, e non solo di questi. Bedussi mi avverte ancora che esagero, che mi espongo troppo. Uscendo dalla camerata, il sergente Maseracchia, un "duro" un po' cretino che ostentatamente legge "Il Borghese", mi invita in un angolo dell'infermeria. Dice che mi deve parlare. "Se parli ancora di politica ti spezzo le ossa. Ti ho avvertito". Rimango di merda. Non me l'aspettavo.

In camerata l'affiatamento aumenta. Parlo molto con Renato, il bersagliere, e Girolamo Gullace. Girolamo mi racconta le sue storie del carcere, dei furti, della sua infanzia. Lo aiuto a scrivere le lettere alla compagna. "Mi segue da anni per tutti i carceri d'Italia. Gli rendo la vita impossibile. Quando siamo a casa di notte, ha paura di ogni rumore. Si aspetta sempre l'irruzione della polizia. Abbiamo una bambina. Dovrei smettere questa vita d'inferno".

Lo zingaro, arrestato mentre girava con il Luna Park per mancanza alla chiamata, prova a scrivere il suo nome. E' analfabeta. Prima andava a scuola del carcere, ma si sentiva trattato come un bambino dal maestro, che è anche il sindaco di Peschiera. Vincenzo Fontemurato riceve la solita lettera dell'avvocato d'ufficio, Roberto De Leo. E' una circolare, con il nome del detenuto scritto a mano, in cui si comunica: che il reato prevede la reclusione di anni "...due", (scritto a mano) e che la tariffa per la nomina come avvocato di fiducia è di "... 40.000 lire" (scritto a mano). Naturalmente Vincenzo la straccia. Quasi tutti i detenuti che conosco sono difesi dall'avvocato d'ufficio, sia perché non hanno i soldi sia perché cosi' vengono consigliati dai rispettivi comandanti. per questo i processi durano pochi minuti. E' difficile che qualcuno venga assolto.

Arriva un detenuto nuovo, Roberto, alpino, iscritto al PCI. Nel corpo disobbediva sempre. Si era fatto 100 giorni di CPR, poi lo hanno sbattuto a Peschiera. Parla poco e legge molti fumetti. Non gliene mancano di certo. In carcere circolano Diabolik, Satanik, Hessa, Lucrezia, che sono oggetto di scambi fra le camerate ed anche con i caporali. Il prete distribuisce Famiglia Cristiana che in genere viene utilizzata per accendere i fornellini a spirito nelle camerate. Allo spaccio sono in vendita due o tre copie de "Il Giorno" e "Il Corriere della Sera". "ABC" entra di nascosto ed è oggetto di baratti. Porto in camerata "Il Messaggero" e "Il Giorno" che mi arrivano in abbonamento. Sono letti e commentati da tutti. "Notizie Radicali" che siamo riusciti a far entrare, è ridotto ad uno straccio. Lo devo accartocciare e nascondere fra i miei vestiti per farlo leggere al maggior numero di persone. Sono interessati solo dal fatto che c'è la mia fotografia e dalla marcia antimilitarista? Renato, friulano, mi assicura

che verrà. Valerio è entusiasta del progetto di festival-pop: "Se mi danno 4 e 20 giorni come a Scapin posso venire alla marcia!".

Incominciano le previsioni e le illusioni sulle condanne. Qualche compagno della camerata mi chiede del partito radicale, ma solo sul piano della curiosità. Con Claudio, Valerio, Alerino e Gianni ne discutiamo molto. La funzione insostituibile del partito appare a noi, dentro, ancora più evidente. E' il partito il punto di riferimento di ogni iniziativa, di ogni progetto. "Ma allora perché non ti iscrivi?". "Ci penserò".

7 aprile - Veneziano, il "capo camerata", che fino ad oggi ha fatto un po' il ruffiano, occupandosi della pulizia della camerata e dei turni per gli altri servizi, facendo perfino i lavori di sartoria per i caporali, perché spera in una buona "nota" del comandante del carcere per il suo processo di revisione, sbotta: "Il comandante del mio reggimento mi aveva scritto di non nominare

avvocati di fiducia, ma solo gente dell'ambiente, perché cosi' ci avrebbe messo una buona parola, e l'ho fatto. Nestorini mi aveva detto che se facevo il buono in carcere mi avrebbero sicuramente diminuito la condanna, ed ho leccato sempre il culo, in questi sei mesi. Basta! Sono stato un grandissimo stronzo! E mi sono anche tagliato i capelli per il processo! Mi dimetto da capo camerata. Ora fate quello che volete. E per quanto mi riguarda questi stronzi i vestiti se li faranno cucire dal sarto". Sono molto contento per questa decisione. E' molto importante, rappresenta il primo successo della nostra azione.

9 aprile - De Simoni è in cella. Vengo a sapere che è stato "accarezzato" due volte. La tecnica è sempre uguale: Doni, Maseracchia e altri tre o quattro sottufficiali entrano in cella e con il pretesto della perquisizione regolamentare ti obbligano a spogliarti completamente. La cella è stretta, il detenuto può ritenere eccessive queste attenzioni, i sottufficiali possono essere costretti a difendersi dalle violenze del detenuto e a pestarlo, naturalmente per legittima difesa! Dieci giorni di cella saranno sufficienti perché i segni sul corpo scompaiono, e comunque per far capire al detenuto che è meglio non mettersi contro i "superiori". In ogni caso sei testimoni sono sempre sufficienti per far condannare chiunque per violenze, oltraggio, magari insubordinazione.

Questa volta cerchiamo di fare qualcosa.

Comincio anch'io a sapermi muovere. Riesco a far avere a De Simone sigarette, latte, fumetti. Scrivo il mio nome sulla busta del latte, per far capire a Domenico che ci stiamo occupando della cosa. Riesco a scambiarci qualche parola, attraverso la finestrella del cesso delle celle, ma devo subito allontanarmi per il sopraggiungere del maresciallo. Bedussi ci riprova e si fa confermare i maltrattamenti. Parlo di quello che succede nelle celle in modo sempre più esplicito, anche con Zanzottera. Noto un aumento di attenzione dei sottufficiali ai nostri discorsi: c'è sempre un graduato che si avvicina appena ci riuniamo per parlare. Riusciamo a far uscire queste notizie. Qualche caporale vince la paura e ci dà una mano. Abbiamo però anche agli altri mezzi di comunicazione con l'esterno: il carcere rende ingegnosi. Eugenio Scalfari ci invia un telegramma. Ci sollecita, fra l'altro a continuare a inviare ai parlamentari informazioni sulle condizioni di vita dei detenuti. Evidentemente, Scalfari allude al diario di

Pizzola e alle informazioni date in genere, e a tempo, dal partito. Da una parte siamo contenti per l'interessamento ed il riuscito collegamento con parlamentari, ma abbiamo anche paura. Paura che l'accenno possa essere interpretato come indizio di una nostra attività interna, e accentuare i controlli già rigorosi, e rendere insomma ancora più difficoltosa la nostra azione. Ci preoccupa anche il ritardo con cui ci viene consegnato il telegramma: arrivato dall'ufficio postale di Peschiera il 30 marzo, noi lo riceviamo oggi.

10 aprile - Arrivano tre preti "missionari" per un ciclo di riunioni. La mattina, introduce l'assemblea il più giovane, che è anche il più disponibile al dialogo sui nostri problemi. Alla domanda sul perché ci troviamo qui dentro rispondiamo tutti, circa un ottantina: "Siamo obiettori ". E' un grosso successo. L'azione sviluppata precedentemente per la presa di coscienza della identità sostanziale della nostra condizione di detenuti militari ottiene un primo risultato. Il prete rimane sconcertato. Riusciamo ad imporre un ordine di discussione per le altre riunioni: Autorità, giustizia, condizioni e funzioni del carcere, testimonianze, conclusioni operative.

Nel pomeriggio, evidentemente dopo un colloquio con Nestorini che capisce perfettamente la pericolosità di simili dibattiti, il prete missionario più vecchio, "dimenticato" completamente il programma impostato, porta avanti per circa un'ora un discorso sull'esistenza di Dio, di una banalità sconcertante. Alcuni detenuti, che avevano convinto a partecipare alla riunione invece di giocare a pallone, incominciano ad andarsene o a mostrare segni di insofferenza. Cerco di interrompere il prete, ma non c'è niente da fare. Continua per un'altra mezz'ora. Bedussi prende molti appunti sul dibattito, eccoli:

Primo prete: Noi siamo venuti a portarvi una parola di comprensione, di fraternità da parte di Cristo; e vogliamo farvi un discorso di chiarezza e di lealtà. Accetteremo le vostre osservazioni e anche le vostre contestazioni. Sentiamo la vostra amarezza e cerchiamo di fare la nostra parte, prima di fronte a Dio, poi di fronte all'uomo. Noi facciamo ciò che possiamo, ma del resto non dipende nè da me nè da voi cambiare le cose. Voi giovani siete pieni di carica ideale e di giustizia e speriamo che in futuro continuiate. Noi dobbiamo predicare Cristo al di fuori e al di sopra di tutto. Noi pur condividendo i vostri ideali di giustizia cerchiamo di fare un discorso più religioso. Almeno saprete che c'è una voce e un volto amico. Non ho mai chiesto a nessuno di che partito fosse - tu sei un fratello -, dicevo e subito s'instaurava un clima caldo. Tutto passa: il carcere il militare, ma rimane la fratellanza, l'uomo con il suo bisogno d'amore sempre inesausto. Poi lasciamo a Dio lo sviluppo della semenza che noi

mettiamo nei vostri cuori. Abbiamo parlato con carcerati, vecchi, fidanzati, genitori, e questi incontri sono stati arricchimento interiore per noi.

(Cosa vuol dire arricchimento interiore? - mi chiede un detenuto seduto vicino a me.)

Noi c'inchiniamo - prosegue il missionario - davanti ad alcune persone che pagano di persona, ma voi capite che il dolore nella vita si manifesta sotto tante forme. Per questo dobbiamo chiederci:

- E' Dio che ha voluto cosi'? E' Dio che ha voluto il dolore? E' sempre stato cosi' nella storia? E perché il dolore? La mia vita che senso ha? Se anche avessi tutto, anche l'amore, io esaurisco la mia esistenza qui?

Certo i beni sono meravigliosi , ma noi vediamo che non bastano. Si fa fatica a dirlo a dei giovani inesperti come voi, perché in genere la gioventù si ferma a quelli che sono i valori del momento e non va al di là. Io chiedo non c'è qualcosa di più?

Conoscete Pavese? Ebbene con il suo mestiere di vivere, ha pure fallito, si suicidò. E magari voleva insegnare anche agli altri questo mestiere. E Ardigò, un filosofo, disse: Perché la vita? e si suicidò con la sua filosofia incapace di aiutarlo a vivere.

Purtroppo molti li fermi per strada e se gli domandi cos'è il senso della vita rispondono: più giustizia, ecc. ecc.

Ma questo non basta dico io. Il cuore umano va più in là, esso contiene aspirazioni più profonde, al di là del traguardo umano.

E voi qua che chiedete il perché di molte cose che non vanno ora voi capite che questi problemi dovete risolverli voi personalmente, ah, ma non vorrei essere frainteso, non sto parlando dei problemi sociali: ma di quelli spirituali religiosi che sono la chiave per capire il dolore del mondo.

Voi direte: abbiamo dei problemi immediati che dobbiamo risolvere. Oh, non è mica cosi'. Ognuno di voi a un certo punto si chiede perché queste ingiustizie e poi, vista l'impossibilità di rispondere passa ad altre domande: perché vivo?

E a queste domande qualche smaliziato trova sempre una risposta.

Rifacciamo la catena: io sono nato dai miei genitori e i miei genitori dai loro e cosi' via, fino a che dobbiamo fermarci a dire, va bè, ma al principio?

(Esempio di bar, pantomime, anatomia, apparato digerente, orecchio per dimostrare che ad ogni effetto corrisponde una causa prima.)

Qualcuno risponde: Il mondo si è fatto da sé.

Risponde, voi capite, che allora anche la sigaretta che teniamo in mano si è fatta da sé.

Allora quel tale ribatte: Ah, voi preti avete studiato e con voi non si può ragionare.

A questo punto il discorso dura ormai da lungo tempo e da quel che posso vedere i detenuti non prestano più attenzione.

Intervento di Cicciomessere: Ma doveva essere un dibattito non un comizio.

Primo prete: Va bè, subito, finisco.

Ciccio: E' un chiaro modo di prenderci in giro. Si capisce perché la religione è il sostegno del potere.

Gesù Cristo ha convinto gli ignoranti e gli analfabeti perché è andato con loro non facendo discorsi di causa-effetto.

Verifichiamo quindi se rivolgendo i problemi di giustizia immediata non sia portare avanti il discorso della fede. Nessuno qui dentro cerca il benessere, bensì' il pane. Lei ha dimostrato ampiamente che in questo carcere non si può parlare, dato che stamattina il discorso si era impostato diversamente, ma poi i colloqui che avete avuto con i dirigenti qui del carcere...

Altro prete: Stamattina abbiamo cercato di impostare il discorso come volevate voi. Ma poi parlando tra noi, è emersa la linea per la quale il discorso religioso, poi quello sociale che potrebbe emergere eventualmente dalla discussione. Ognuno ha suoi problemi e se qualcuno vuol fermarsi dopo.

Ciccio: Tutti abbiamo gli stessi problemi, visto che siamo qui dentro.

Primo prete: E' un discorso che è esterno a noi il tuo, il nostro interesse è questo: RELIGIOSO.

Altro detenuto: Però non era così stamattina.

Altro prete: Sì, ma guardando meglio le cose, parlando fra noi, abbiamo deciso di parlare delle nostre prospettive, per aiutarvi un po'.

Ciccio: Ma in pratica cosa avete da dirci?

Primo prete: Tu vedi Cristo solo sotto l'aspetto sociologico e questo non è giusto. Cristo non è venuto per risolvere il problema del pane in più, ma per fare un discorso spirituale.

A questo punto diamo lettura di Libanio (un libro epistolare scritto da un Domenicano incarcerato nell'America Latina assieme a quattro suoi compagni per aver dato rifugio a perseguitati politici. Nel libro si parla di una chiesa del carcere, dell'incarcerazione nella realtà sociale del credente, l'aiuto al fratello non più visto solo sotto l'aspetto beneficienza - pacche sulle spalle - invito ai ricchi all'elemosina, bensì come un impegno concreto a modificare tutte quelle strutture-cause economico sociali che portano allo sfruttamento. Ne leggiamo una lettera.)

Primo prete: Noi siamo d'accordo con Libanio, propio così.

Ciccio: Ma come potete dire che siete d'accordo se neppure una frase di quanto abbiamo letto, concorda non dico con le vostre azioni, ma nemmeno con le vostre parole, quelle che avete detto fino adesso.

Qui c'è gente che è sposata, ha figli, non ha mai avuto un lavoro, una famiglia, che per un niente si trova qui dentro, guardi, qui c'è uno che s'è beccato 16 mesi di carcere per aver fatto il verso della zanzara ad un tenente. C'è gente portata al servizio militare e deve fare diserzione per mantenere la famiglia a casa. E poi c'è il discorso del carcere. Sapete cosa succede nelle celle? Perché non venite a vedere le nostre camerate, in che stato viviamo, senza niente da fare tutto il giorno. Non sono permessi giornali altro che il "Corriere" e il "Giorno" (ora non c'è più nemmeno quello).

Purtroppo non sono uno stenografo e perdo la parte più importante del discorso, laddove Cicciomessere incomincia ad analizzare la funzione dell'esercito ed il risultato di realtà carceraria che è divenuto per i militari in genere e per i presenti in particolare.

Nel frattempo sono intervenuto anch'io.

Scusate ma credo proprio che stiate parlando al deserto. Non solo usate termini che spesso non vengono capiti, ma anche il testo del discorso va bene per tranquilli borghesi che seduti in poltrona dopo un abbondante pasto hanno modo di pensare all'origine del mondo.

Terzo prete: Noi vogliamo annunciare Cristo. Chi potrà raccogliere questa parola dipende dalla grazia e dalla volontà di ciascuno. Perciò io vorrei che da questo momento i colloqui avessero una linea ben precisa. Il padre propone un argomento e le discussioni devono vertere solo su questo argomento. Non vogliamo essere strumentalizzati o incanalati in discussioni che esulano dalla nostra linea.

Non c'interessa rimanere in 5 o 6, potremo sempre dire: "Siamo andati a Peschiera e abbiamo parlato di Cristo a delle anime".

In questo momento chiamano Valerio al colloquio. Mi viene da pensare che stanno portando avanti molto bene il frazionamento dei colloqui. E' evidente la loro paura che un colloquio Domenica di quattro obiettori contemporaneamente, come avrebbe dovuto essere, portasse "qualche inconveniente".

Nel frattempo il discorso va avanti.

Un detenuto: Padre questo è un mio compaesano, è sposato ha un figlio, che in questi giorni è gravemente ammalato, lei pensa che sia giusto tenerlo qua?

Altro obiettore: Come potete dirvi amici nostri, condividere le nostre sofferenze se non siete mai stati, non avete mai provato cosa vuol dire giorno per giorno sentirsi impotenti a decidere della propria vita, perché c'è sempre una regola, un'imposizione ad ogni attimo che ti ruba capacità di essere uomo.

Primo prete: Sì. Sì... Sì...

Terzo prete: Basta, è inutile discutere, ho detto...

Ciccio: E' un chiaro invito ad andarcene, il vostro discorso sul: "basta, è inutile discutere, o ci seguite sul nostro piano o nessuno vi obbliga a rimanere".

Altro obiettore: Sempre sulla stessa linea.

Primo prete: Basta, basta, è inutile discutere ho detto...

Attenzione qualcuno si sta alzando... tutti si alzano... tutti escono. Uscita collettiva. Uno rimasto per affari suoi.

Nel cortile siamo tutti molto eccitati per quello che è successo: senza alcun accordo preventivo, abbiamo espresso un rifiuto collettivo; abbiamo esposto pubblicamente le critiche che da tempo tutti ci tenevamo dentro o che discutevamo fra pochi; abbiamo denunciato quanto succede in cella; abbiamo dimostrato al comandante la nostra unità. Le due proposte che abbiamo fatto ai preti prima di uscire, di entrare nelle celle d'isolamento per parlare con De Simoni e farsi raccontare quanto è successo e di venire nelle camerate a parlare senza troppi testimoni, non sono state accettate; rendono così più chiaro a tutti i detenuti la funzione subalterna e sostanzialmente corresponsabile dell'oppressione carceraria di questi gestori della religione di stato. Il cappellano militare del carcere è furente. In cortile non ci degna neanche di un saluto. Il prete giovane mi riferisce che si è scagliato contro di me, dicendo che sono un provocatore perdipiù ateo senza titoli per parlare di cose religiose. Si rende conto prob

abilmente di essere il maggiore responsabile, anche per la tonaca che indossa, della grave situazione carceraria. Da anni vede e conosce quanto succede in carcere, ma trova parole e azioni per impedirlo. Riesce solo a portare qualche sigaretta ai reclusi nelle celle.

Ritorno in camerata dopo il rancio. Doni mi ordina di prendere la branda e lo stipetto e di spostarmi nella camerata dei testimoni. Vincenzo e Girolamo abbozzano una protesta. Quando esco per l'aria pomeridiana vengo a sapere che Nestorini ha incominciato ad interrogare i compagni della mia camerata. Con minacce di condanne "dai 5 ai 15 anni", con appena velati ricatti sul piano personale, con menzogne e doppi giochi, riesce ad estorcere qualche ammissione circa miei presunti tentativi di organizzare una sollevazione dei detenuti. Sento che la situazione sta precipitando. Nella camerata dei testimoni inizio a scrivere una lettera da far arrivare a Marco, per informarlo di quanto sta succedendo. Scrivo dei fatti accaduti in cella d'isolamento, dei tentati suicidi; nomi, date... racconto la faccenda dei missionari, elenco alcuni casi di condanne che più delle altre meritano di essere pubblicizzate.

Prevedo perquisizioni e, quindi, chiedo a Lorenzo Gallo, un testimone con cui qualche volta ero riuscito a dialogare, di conservare la lettera, fino a quando non sia riuscito a farla uscire dal carcere. Il solito discorso sulla neutralità salta fuori. E' il solito rifiuto di prendere una sia pur minima posizione: oltre le chiacchiere, c'è la paura di perdere i privilegi. Mi incazzo, ricordandogli che un loro "fratello" era stato testimone, in cella, dei maltrattamenti, quando sento lo sferragliare delle chiavi sul cancello ed entra il maresciallo Doni che mi ordina di seguirlo. Metto alla rinfusa la lettera nello stipetto guardando insistentemente Lorenzo. Nel corridoio, il cancello delle celle è aperto. Capisco che devo entrare dentro senza che Doni debba dirmelo. Mi trovo, quindi, nella cella in pantofole, senza niente. Ci siamo. Capisco quello che voleva dirmi Claudio.

Questa volta il regolamento carcerario viene rispettato rigorosamente: niente materasso e coperte per tutto il giorno, niente sigarette, niente libri, nessun contatto con l'esterno, con altri compagni. Sono l'unico detenuto nelle celle. Credo di sentire il rumore del mio stipetto trasportato dalla camerata. Incomincio a sperare che Lorenzo abbia sottratto dallo stipetto la lettera, di cui conosce il contenuto.

Non sono più nè sicuro nè calmo. La cella è fredda, il tavolaccio è duro, sono preoccupato e, quindi, non riesco a dormire. Non posso fare altro che guardare il muro con le scritte dei detenuti precedenti (molti simboli pacifisti, maledizioni per il carcere e per i carcerieri, nomi e periodi di detenzione) e pensare alla situazione che mi appare sempre più grave. Per riuscire ad andare al gabinetto devo gridare per molti minuti e, quindi, aspettare Doni, che è divenuto l'unico depositario della chiave delle celle per aprire. Già da questo primo giorno, graffio sul muro una sbarretta per non perdere il controllo del tempo. La consegna del vassoio con il rancio mi consente di avere una idea approssimata delle ore. Chiedo insistentemente di parlare con il capitano per conoscere la ragione del mio isolamento. Nessuna risposta.

Vogliono lasciarmi nell'assoluta ignoranza delle accuse che mi vengono mosse, farmi rodere dai dubbi e dalla paura. E' tutto abbastanza atroce.

 
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