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Mellini Mauro - 30 agosto 1972
Assalto alla corte
In sette mesi tre giudici costituzionali da sostituire

di Mauro Mellini

SOMMARIO: La Corte costituzionale, nel pronunciarsi sulla legge sul divorzio, ha subito l'assalto della DC nella nomina di un nuovo giudice. Il PSI non ha voluto lottare. La Corte si trova in uno stato di isolamento, ma è più avanti delle forze politiche. Ora c'è polemica sul rinnovo di tre giudici della Corte Costituzionale da parte della Cassazione. L'attegiamento della Consulta, finora autonomo, potrebbe cambiare.

(LA PROVA RADICALE - BENIAMINO CARUCCI EDITORE - N. 4 - ESTATE 1972)

L'ordinanza dello scorso giugno, con la quale le Sezioni Unite della Cassazione hanno rimesso in discussione la legittimità costituzionale della Legge Fortuna, ha portato alla ribalta, sulla stampa e nell'opinione pubblica, il problema delle prossime sostituzioni di alcuni dei giudici del Palazzo della Consulta e, più in generale, del futuro indirizzo della Corte costituzionale.

Non ha usato mezze parole il prof. Satta, che in Cassazione aveva sostenuto l'eccezione di incostituzionalità, per prospettare la possibilità di un mutamento di indirizzo politico nella Corte, che sarebbe dovuta tornare a discutere del divorzio. D'altra parte, subito dopo la sentenza del giugno 1971, si era risaputo che la questione aveva trovato i giudici della Consulta divisi con un margine di un solo voto a favore della maggioranza divorzista. E si era pure risaputo che il presidente Branca, prossimo alla scadenza del suo mandato, aveva fatto di tutto perché la discussione sulla legge Fortuna potesse avvenire prima che egli lasciasse la Corte.

Ciò era bastato a far nascere negli ambienti clericali la speranza di una rivincita a più o meno lunga scadenza. In tali ambienti la sentenza che dichiarava costituzionale il divorzio fu subito definita una sentenza »politica , termine con il quale l'ipocrisia qualunquista dei reazionari ha sempre definito tutto ciò che porta un'impronta diversa da quella di una politica reazionaria e qualunquista.

L'ordinanza della Cassazione, con la prospettiva di un secondo giudizio sulla legge Fortuna, non può considerarsi quindi un fatto imprevedibile ed imprevisto. Semmai i tempi ed i modi di questa operazione non hanno seguito la linea che era dato attendersi e, tutto sommato, le cose sono andate in modo tale da rendere più difficile agli antidivorzisti di realizzare per questa via il loro disegno.

C'è stato, anzitutto, una fretta eccessiva. Ad un anno soltanto dalla sentenza della corte Costituzionale, riproporre la questione già risolta, appare troppo smaccatamente un gesto polemico nei confronti della Corte stessa, anziché una normale richiesta di un nuovo esame sulla base di diverse elaborazioni dottrinali e di diverse circostanze obbiettive.

In secondo luogo la Corte di Cassazione, e per di più a sezioni riunite, non era forse l'organo giurisdizionale più adatto a porre alla Corte Costituzionale un quesito che non apparisse invece come una censura e una sfida. Il vecchio antagonista tra Cassazione e Palazzo della Consulta, se può aver facilitato il compito al prof. Satta (ben noto, del resto, per i suoi legami con le »toghe d'ermellino dell'UMI, che a buon diritto potrebbero esser definiti il »partito della Cassazione ) non è certo destinato a facilitare, uno spostamento di posizioni tra i Giudici Costituzionali in favore della tesi fatta propria dalle Sezioni Unite. D'altra parte, il fatto stesso che a risollevare la questione sia stato un così alto consesso e non l'ultimo Tribunale di provincia, fa sì che l'andamento di tutte le cause di divorzio tuttora in corso (non si è giunti ancora a smaltire la prima ondata) sia messo in pericolo per la ben nota succubanza acritica di tanta parte della Magistratura rispetto agli »insegnamenti della Cas

sazione. Ciò determina una situazione di tensione e di allarme per una massa non indifferente di cittadini; che, da una parte renderà più difficile procrastinare troppo la decisione in attesa di più sostanziosi mutamenti nella composizione della Corte; dall'altra, impedirà che alla decisione si possa giungere quasi di soppiatto, nella condizione cioè più adatta ad eventuali colpi di mano.

Le Sezioni unite della Cassazione, dunque, hanno compiuto probabilmente un errore tattico dal punto di vista delle loro inclinazioni clericali ed antidivorziste. Inclinazioni che tuttavia non possono essere revocate in dubbio, tanto radicate, esplicite e di vecchia data esse sono. Dei compone ti delle Sezioni Unite che hanno dichiarato doversi ritenere quanto meno probabile che, secondo la Costituzione della Repubblica, competa alla Sacra Rota applicare la legge Fortuna, più d'uno certamente, appartenente all'associazione dei giuristi cattolici, aveva potuto ricevere dalla viva voce di Pio XII, in una memorabile udienza agli appartenenti a quella congrega, il famoso insegnamento, secondo cui il giudice cattolico deve rifiutarsi di applicare una legge sul divorzio civile.

Ma, anche se non troppo tempestiva ed azzeccata dal punto di vista della tattica antidivorzista, la presa di posizione della Cassazione è stata certamente efficacissima come colpo di mano nella lunga guerra con la Corte Costituzionale. L'insofferenza e l'ostilità aperta del massimo consesso giudiziario tradizionale, o almeno dei suoi paladini più retrivi e conformisti, per il nuovo organismo di controllo costituzionale, sono altrettanto radicate ed esplicite.

Con la sentenza del marzo sul Concordato e con quella del giugno 1971 sul divorzio, per la prima volta la Corte Costituzionale si era trovata nel pieno di una contesa politica che aveva diviso ed appassionato li Paese ed impegnato direttamente ed apertamente le forze politiche. La lunga opera di demolizione di parte dell'apparato legislativo fascista condotta sin dalla sua istituzione, non aveva mancato di suscitare reazioni e polemiche (si ricorderà la protesta del Vaticano per l'abolizione delle norme restrittive della libertà di riunione, pregiudizievoli, a suo parere, per la salvaguardia del carattere sacro della città di Roma). Ma si era trattato di polemiche sulle decisioni della Corte, non di decisioni della Corte che investissero questioni oggetto di una vasta polemica politica già in atto nel Paese. Semmai va detto che la Corte aveva finito con l'operare senza il sostegno di un vasto movimento nel Paese promosso dalle forze politiche organizzate, ma anzi proprio con una funzione spesso evidentemente

sostitutiva di una più organica azione politica per il rinnovamento della legislazione e per lo sviluppo dei diritti civili.

Ora, invece, per giunta, su Concordato e divorzio la Corte aveva assunto una posizione certamente sgradita alla parte politica abituata a fare nel nostro paese il bello ed il cattivo tempo. E se le sentenze sul Concordato, con una ben organizzata operazione di falsificazione presso l'opinione pubblica, erano potute passare come una specie di invito alla »revisione , che tanto stava a cuore al Vaticano ed agli uomini del regime, nessun equivoco era possibile per la sentenza sul divorzio, che liquidava un'eccezione di incostituzionalità che era stato il cavallo di battaglia della lunga resistenza clericale, imprudentemente fatta propria dallo stesso Pontefice, con un intervento che è troppo poco definire inopportuno.

Diffidenze, resistenze e rancori nei confronti della Corte costituzionale ricevevano così, nel momento stesso in cui questa si pronunciava sul divorzio, un ben preciso punto di riferimento e di coagulo. D'altra parte, gli schieramenti contrapposti in cui si erano divisi i Giudici della Consulta sulla questione del divorzio, offrivano un altro punto di riferimento estremamente efficace e significativo per la valutazione della vita interna della Corte e dei suoi sviluppi. Era possibile finalmente ricercare buoni e cattivi all'interno del Collegio giudicante, senza doverne più considerare gli atteggiamenti come un tutt'unico. Una distinzione che lasciava intravedere un'alternativa.

Tuttavia la formazione di due schieramenti contrapposti con un margine di maggioranza assai ridotto non si era verificata solo nella questione del divorzio, ma era un fatto oramai abituale nelle decisioni della Corte. Ne aveva dato conferma, ma era comunque ben noto, lo stesso presidente Branca: »forse per il modo composito di scelta dei giudici e per la loro diversa provenienza, le questioni più delicate, perché toccavano e toccano la weltanschauung di ciascuno di loro, sono state sempre e sono decise con una scarna maggioranza, talora di un solo voto. Qualche volta, cioè, se uno dei giudici, per malattia o altro impedimento, non avesse preso parte all'udienza, la decisione sarebbe stata diversa od opposta .

Di queste parole di Branca, ovviamente, quelle che più hanno fornito e forniscono oggetto di meditazione e stimolo per la fantasia alla parte che aveva dovuto »subire la sentenza sul divorzio, dopo aver »subito oltre un decennio di attività della Corte, erano quelle sull'impedimento di qualcuno dei giudici della maggioranza. Commentando l'ordinanza di Gabrio Lombardi scriveva: »nella prossima udienza un certo giudice (l'allusione a Fragali era evidente) non mancherà per malattia o altro impedimento, ma semplicemente perché ha lasciato la Corte per completato periodo di servizio .

Ma a creare impedimenti non ad un singolo giudice, ma alla Corte nel suo insieme ed alla sua regolare composizione, aveva già pensato, alla scadenza del mandato di Branca, la DC, bloccando per oltre otto mesi l'elezione del suo successore.

Per una prassi oramai consolidata, l'elezione dei membri di nomina Parlamentare, che deve essere effettuata con un quorum così elevato che esige l'accordo tra i partiti, viene effettuata con la designazione da parte di ciascun gruppo dei giudici che corrispondono al suo peso numerico; designazione che il gruppo effettua quando si tratta di rimpiazzare un giudice già nominato dietro sua designazione. Il PSI, cui spettava designare il successore di Branca, aveva designato Lelio Basso, pare su indicazione dello stesso Branca. Basso era stato uno dei più attivi costituenti e non gli mancavano certamente l'autorevolezza ed il vigore necessari. Ma la DC sollevò contro di lui una strana eccezione: egli sarebbe stato troppo qualificato politicamente. Era il solito ritornello di tutti i reazionari qualunquisti, sempre pronti a scandalizzarsi per l'eccessiva »politicizzazione degli altri quanto impudenti da considerare »apolitico il loro conservatorismo.

L'atteggiamento della DC era di una gravità eccezionale: significava venir meno proprio a quell'elementare patto di correttezza costituzionale che avrebbe dovuto essere molto a monte di altri e più impegnativi, ma in realtà più evanescenti e retorici, patti costituzionali. E significava pure la riaffermazione di una specie di diritto di veto e di tutela sulla vita e le scelte del P.S.I. Una pretesa insomma che questo partito non avrebbe potuto tollerare senza accettare una specie di vassallaggio nei confronti del più grosso alleato della coalizione governativa.

Ma la presa di posizione della DC era di una gravità eccezionale anche nei confronti della Corte Costituzionale, perché istituiva una specie di diritto di veto del partito di maggioranza relativa sulla elezione dei giudici di quel consesso. Inoltre troppo evidente era la ritorsione per l'atteggiamento del presidente uscente Branca e per l'operato della Corte nel suo assieme. Bloccando l'elezione di un giudice e, di riflesso, bloccando o ritardando, o almeno cambiando le condizioni della elezione del presidente, la DC dimostrava chiaramente di considerare la Corte Costituzionale alla stregua degli altri organismi del regime, nei quali essa si riserva il diritto di lasciar accedere esponenti di altri partiti, ma che non può mai ammettere che possano vivere ed operare al di fuori del suo controllo e senza il suo beneplacito.

Era imminente l'elezione del presidente della Repubblica ed era in pieno svolgimento l'operazione diretta a far »rientrare le contrapposizioni sul divorzio e sul referendum, oramai richiesto con le firme raccolte nelle parrocchie. Una operazione che regalava in anticipo e senza garanzie alla DC una patente di laicità e di democraticità, una patente della quale la DC ha sempre avuto bisogno quando ha voluto intraprendere le peggiori operazioni reazionarie.

Se nella poco edificante vicenda dell'offerta alla DC ed al Vaticano delle pelle, e non della sola pelle, della legge Fortuna in scambio della rinunzia ad ottenere con un referendum (che non avrebbe potuto vincere) l'abolizione del divorzio, che veniva loro offerta gratis, vi fosse stata una certa dose di buonafede, l'episodio dell'ostruzionismo DC all'elezione di Basso avrebbe dovuto aprire gli occhi ai vari Bozzi, Manca, Carrettoni e C. Ed avrebbe dovuto aprire gli occhi anche a chi andava predicando la necessità di non porre pregiudiziali sull'elezione di un Presidente della Repubblica laico oppure cattolico, offrendo così in pratica alla DC a presidenza della repubblica, nella speranza di avere un presidente democristiano »buono .

Al PSI si offriva l'occasione di combattere una battaglia per il proprio prestigio che coincideva con quella per la difesa di una istituzione che è il presidio naturale delle libertà civili e contro la quale si andava scatenando il rancore sordo della destra. Ma il PSI ha preferito non dare battaglia. E' difficile affermare con sicurezza che il braccio di ferro con la DC avrebbe visto alla fine prevalere l'elezione di Basso e la sconfitta aperta e clamorosa della manovra clericale.

Ma non è affatto azzardato affermare che la DC sarebbe uscita comunque screditata ed indebolita da un confronto portato a fondo, mentre il PSI non avrebbe sofferto un danno maggiore se avesse dovuto cedere dopo una lotta senza ritirate e compromessi. Ed è tutt'altro che azzardato affermare che, invece, il PSI ha mollato quando aveva ancora tutte le carte in mano che gli avrebbero consentito di vincere una partita così importante. Certo è che il Partito Socialista non è stato compatto né deciso. E, forse, ha avuto un ruolo determinante nel poco edificante episodio, l'atteggiamento di Pertini, che come presidente della Camera aveva mezzi assai efficaci per stroncare la messa in quarantena della nomina del quindicesimo giudice, e che invece, pare per una vecchia insofferenza dell'uomo, ha voluto giuocare un ruolo del tutto diverso.

Se qualche dubbio dovesse sussistere sulla scarsa coscienza della gravità del problema da parte del PSI, basti pensare che, anche dopo l'elezione di Leone avvenuta come è avvenuta ed addirittura dopo la scelta della DC per il centro-destra, il ricatto della DC è stato ancora tollerato, ed infine al posto di Basso è andato un personaggio di nessunissimo rilievo, soprattutto come giurista, Leonetto Amadei, che, per di più va alla Corte per compenso di una mancata rielezione al Parlamento, sottolineando così l'incomprensione socialista per il ruolo di quell'organismo.

Ma è evidente che il »caso Basso non è stato e non rimarrà un isolato episodio di intolleranza e di sopraffazione e, rispettivamente, di debolezza.

Intanto con la sua levata di scudi contro la Corte Costituzionale, la sua precedente politica, la serenità delle sue decisioni future, la DC acquisiva benemerenze verso la destra, nell'ambito di quella sua ope azione di recupero che doveva consentirle, il 7 maggio, di superare senza danno la crisi dello spostamento a destra dell'elettorato che essa stessa aveva provocato e favorito, facendosene arma di ricatto nei confronti dell'opinione pubblica e delle forze politiche democratiche.

Il cavallo di battaglia di tutte le forze di destra, dai fascisti ai liberali ai clericali di stretta osservanza, è stato nella campagna elettorale, ma ancora prima negli ultimi mesi ed anni, l'allarme per la »troppa libertà in cui si sarebbe caduti nel nostro paese. Tutti i comizi dell'on. Almirante non hanno raggiunto l'efficacia della propaganda sorda ed assidua che carabinieri e poliziotti hanno condotto nelle stazioni e nei commissariati di tutta Italia, spiegando ad ogni cittadino, cui fossero stati rubati un paio di polli o la ruota di scorta della macchina, che »ormai la legge è dalla parte dei delinquenti... noi non possiamo fare niente, abbiamo le mani legate .

E' indubbio che a legare loro le mani (non troppo strettamente, in verità, come potrebbero attestare i detenuti di Rebibbia o il povero Pinelli se fosse ancora vivo) sarebbe stata la Corte Costituzionale, con la sua opera di demolizione di certe norme più brutalmente fasciste, che ha costretto il Governo e Parlamento a provvedere alle necessarie ricuciture ed integrazioni che tenessero conto dei principi costituzionali. Ed è indubbio che su questo tema la sinistra non ha saputo fornire una adeguata risposta, né addirittura comprendere il ruolo che questo tipo di sobillazioni e di reazioni assumeva nell'operazione di spostamento a destra nella vita politica del paese. D'altra parte la sinistra non aveva neppure saputo fornire, in precedenza, un contributo adeguato ed un adeguato inquadramento nella politica generale nel paese ai temi di lotta per i diritti civili ed agli scontri avanti alla Corte costituzionale ed all'opera ed agli indirizzi di questa.

La crisi in cui la Corte costituzionale sembra cominciare a dibattersi è quindi soprattutto e malgrado tutto, crisi di esaurimento e di isolamento, della quale era logico che sapessero approfittare il regime clericale ed i suoi fiancheggiatori e battistrada.

Certo, è, ad esempio, che la Corte ha avuto sul divorzio una posizione più netta e ferma di quella dei partiti che, con il loro voto ne avevano determinato l'approvazione, che, al primo ritorno controffensivo dei clericali, non avevano trovato nulla di megli che offrire l'abrogazione della Legge Fortuna, la sua sostituzione con un testo di compromesso concordato con il Vaticano e gli antidivorzisti. Alla Corte, nella camera di consiglio del giugno 1971, non era mancato chi proponesse una tesi intermediaria di compromesso. E' noto infatti che il margine sottile di maggioranza era stato ottenuto dalla tesi, che poi ha prevalso, della piena legittimità della legge, non sulla tesi antidivorzista dell'incostituzionalità del divorzio per i matrimoni concordatari, ma su quella, che in verità non ha mai trovato sostenitori fuor che in quella occasione, della costituzionalità limitata ai matrimoni concordatari contratti prima dell'entrata in vigore della legge stessa.

Ma su queste posizioni non erano ripiegati dei divorzisti, ma degli antidivorzisti meno intransigenti. Sostenitore di questa tesi era Bonifacio, giudice eletto dal parlamento su designazione della DC, sostenuto dal liberale Trimarchi e da Crisafulli, la cui posizione di uomo di sinistra è oramai così lontana nel tempo e dai suoi attuali atteggiamenti politici, che non v'è dubbio che allinearsi con Bonifacio sia stato per lui fare un passo avanti.

Che la Corte Costituzionale sia rimasta, nella questione del divorzio, più avanti delle forze politiche cosiddette divorziste, ha una riprova nel fatto che, quando la Cassazione ha voluto sfidare la Consulta rinviandole la legge Fortuna, ha finito per far leva su due punti: quello del caso del matrimonio non consumato e quello della giurisdizione. Due punti sui quali, con la presentazione della proposta Carrettoni e nelle trattative che l'hanno preceduto e seguita, i »laici si erano dimostrati prontissimi a cedere e concedere. E' noto infatti che, per il matrimonio rato e non consumato, la proposta Carrettoni ne eliminava senz'altro la previsione come caso di divorzio, riguardandolo come caso di nullità, ovviamente per i soli matrimoni civili; mentre per la questione della giurisdizione è forse meno noto, ma altrettanto certo, che alla DC era stato offerto di subordinare l'esercizio della giurisdizione del giudice italiano ad una specie di tentativo di conciliazione del vescovo. La Corte Costituzionale sarà

quindi chiamata a decidere su di una legge i cui sostenitori, se ancora così possono chiamarsi, mostrano pericolose perplessità ed avanzano stolti ripensamenti.

Ma se di isolamento e di insufficiente sostegno nella sua opera di rinnovamento e di salvaguardia dei diritti civili soffre oggi più che nel passato la Corte Costituzione, sarebbe un grave errore non considerare con attenzione e con una certa apprensione la questione dei mutamenti nella composizione del collegio dei giudici, della quale si è cominciato a parlare anche fuori del ristretto ambiente di chi segue da vicino queste vicende, dopo il secondo rinvio della questione del divorzio.

In questo periodo i mutamenti della compagine dei Giudici della Consulta non saranno molto vistosi per il numero delle sostituzioni. Scaduto il mandato di Fragali il 2 agosto, seguirà il 20 dicembre la scadenza di quello di Costantino Mortati, e poi il 16 febbraio 1973 quello del presidente Chiarelli. Dopo di che, solo nell'agosto del '74 si avrà una nuova sostituzione, quella di Giuseppe Verzì. Il vero terremoto nella composizione della Corte si avrà solo nel '77-'78, quando nel giro di un anno saranno sostituiti più della metà dei giudici.

Ma i tre giudici che lasciano la corte in questo periodo hanno indubbiamente un peso particolare, e per la già accennata situazione di ristrettezze di ogni margine negli schieramenti che si creano ogni volta sulle più delicate questioni, e per il ruolo che questi tre giudici hanno avuto nella vita della Corte specie negli ultimi tempi.

La scadenza del mandato di Chiarelli pone, ovviamente, il problema della presidenza della Corte, carica alla quale, non da ora, aspira Francesco Paolo Bonifacio, il più giovane dei giudici, che già ha posto la sua candidatura per la successione a Branca, puntando sul ritardo dell'elezione, conseguenza del blocco della nomina del quindicesimo giudice da parte del parlamento, che metteva fuori gioco Fragali. Egli mostrò allora una notevole capacità di manovra (è democristiano ed imparentato con Gava!) ma alla fine l'elezione di Chiarelli fu determinata proprio dalla convergenza di tutti quei giudici che non vedevano con simpatia la nomina di lui, che, oltre ad essere, come si è detto, il più giovane, avrebbe bloccato la presidenza fino a tutto il 1975. A febbraio egli potrà contare, probabilmente, su di un paio di voti in più mentre avranno lasciato la Corte i candidati che gli furono contrapposti al suo primo tentativo.

Un presidente democristiano della Corte si potrebbe avere anche nella persona di Ercole Rocchetti, altro giudice eletto dal parlamento su designazione DC, che pure sembra aspirare alla presidenza, mentre si parla anche di altre due candidature, quelle di due giudici nominati da Saragat, Paolo Rossi e Vezio Crisafulli.

Ma il gioco per la nuova presidenza è ancora assai aperto, proprio per le sostituzioni che nel frattempo dovranno essere effettuate di Fragali (da parte della Cassazione) e di Mortati (da parte del Presidente della Repubblica) oltre che dello stesso Chiarelli, pure di nomina presidenziale.

Se la scadenza del mandato di Chiarelli ha importanza soprattutto per il problema della nuova presidenza che esso comporta, quella del mandato di Fragali e di Mortati, e la loro sostituzione, hanno un peso particolare per la figura dei due giudici e per la loro personalità.

Chi affermasse che Michele Fragali è un progressista, direbbe cosa inesatta e tuttavia non aggiungerebbe alcuna nota positiva alla sua figura. Egli è certamente un conservatore, che ha tuttavia sempre badato bene alla dignità delle cose da conservare e non è mai divenuto, pertanto, un reazionario, come non ha mai negato a priori dignità e valore a qualsiasi innovazione. Non è quindi venuto meno alla coerenza quando si è venuto a trovare dalla parte sostanzialmente progressista ed autenticamente liberale. Ciò è avvenuto sicuramente nelle questioni del Concordato e del divorzio ma, ad esempio, sembra che anche nella questione della libertà delle collette per la raccolta dei fondi per iniziative politiche, sia stato tra i pochissimi a difendere questo diritto civile.

Per la sostituzione di Fragali scaduto, come si è detto, il 2 agosto, la Cassazione dovrà provvedere alla sua sostituzione nell'assemblea indetta per il 9 ottobre. Le candidature sono quelle di Flore, che ha forse le maggiori probabilità, di Rosso, di Guarnera e di Giunfrida. Il primo di essi è certamente un conservatore. Ha fatto parte dell'UMI, ma non può essere considerato un reazionario. Di grande vigore intellettuale, per carattere e formazione, non è disposto ad indulgere a compromessi e strumentalizzazioni della propria capacità di giurista per soddisfare, sia pure, le sue stesse preferenze ed inclinazioni politiche. Più aperto è progressista è forse Rosso, cui si attribuiscono simpatie politiche un po' più a sinistra. Guarnera, di cui si diceva fosse vicino a Saragat, è tuttavia forse il più a destra della rosa.

Tradizionalmente la Cassazione, nel designare i giudici costituzionali di cui le compete la scelta, guarda più ai problemi del proprio organico che a quelli della compagine della Corte Costituzionale. Si tratta di vedere se ciò avverrà anche ora, in questa atmosfera di tensione nei confronti della Consulta, con il test del divorzio così drammaticamente presente ed incombente. Per questo, infatti, si può dire che il colpo di mano dell'ordinanza delle Sezioni Unite, per altro verso intempestivo e tatticamente sbagliato, può considerarsi invece tempestivo e pericoloso; perché offre un punto di riferimento fin troppo efficace per ognuno che sia impegnato nelle future scelte sui giudici della Corte.

Ma se può sussistere il dubbio che la scelta della Cassazione sia influenzata in modo determinante dalle preoccupazioni per la futura maggioranza in seno al collegio giudicante della Consulta, sarebbe ingenuo pensare che da tale preoccupazione sia libero il presidente Leone.

A Leone, nel corso del suo mandato, toccherà provvedere alla sostituzione di tutti e cinque i giudici di nomina presidenziale. Saragat ne nominò solo tre e nessuno fece a tempo a nominarne Segni. Dopo Mortati e Chiarelli, dovranno essere sostituiti dal Capo dello Stato Crisafulli nel maggio 1977 e Rossi ed Oggioni nel 1978.

Per la sostituzione di Mortati e di Chiarelli (le due nomine sono a così breve distanza che le candidature non sono nettamente distinte per l'uno e per l'altro seggio) già i fanno i nomi tra i quali dovrebbe orientarsi per la sua scelta il Presidente Leone. E non c'è da stare allegri. Accanto a quello di Conso, professore di diritto penale a Torino, si fanno infatti i nomi di Picella, segretario generale della Presidenza della Repubblica, che rischierebbe di apparire una specie di missus dominicus del Presidente in seno alla Corte, e quelli di Santoro Passarelli, democristiano, esponente dell'Azione Cattolica e del comitato antidivorzista, ex presidente dell'INA, e persino quello di Salvatore Foderaro, ex deputato democristiano, notabile calabrese del regime clericale e, in precedenza, di quello fascista, assunto all'insegnamento universitario (è preside della Facoltà di Economia e commercio di Roma, feudo di Fanfani) in virtù dei suoi studi giuridici sulla Milizia e sul partito fascista.

Il problema dei futuri orientamenti della Corte non è certo condizionato soltanto dalle personali inclinazioni dei singoli giudici che andranno a sostituire quelli che man mano lasceranno la carica. Sarebbe un errore ritenere che alla Corte Costituzionale maggioranze e minoranze si formino secondo dati numerici prestabiliti, come in parlamento o in un consiglio comunale.

Per questo la personalità, il carattere, la forza persuasiva dei singoli giudici pesano più di quanto non si creda. Giuoca comunque una parte assai importante un certo attaccamento al prestigio ed al ruolo costituzionale della Corte ed alla sua indipendenza. Per questo essa ha finito, tra tutti gli organismi dello Stato, per rimanere fino ad oggi il più lontano dall'inquadramento nel regime e per questo il suo prestigio nell'opinione pubblica è stato forse più alto di quello di qualsiasi altra istituzione. Alla Corte Costituzionale sono state rimesse con fiducia, non soltanto da una singola parte politica, questioni le più diverse e la battaglia per l'affermazione di taluni diritti costituzionali è stata fino ad oggi quasi sempre più difficile presso i giudici che hanno il compito di rimettere alla Corte le questioni sollevate dalle parti scartando quelle »manifestazioni infondate o che essi ritengano tali, che non davanti alla Corte stessa.

Ma se questa situazione non è destinata a cambiare per una pura e semplice alterazione del rapporto numerico tra i giudici delle varie tendenze ed estrazioni, essa potrebbe invece subire mutamenti assai incisivi per il mutamento di altri rapporti e di altre situazioni all'interno ed all'esterno della Corte.

E' l'atmosfera della Corte che potrebbe cambiare, combinando o venendo meno l'ascendente di taluni giudici, stabilendosi tra di essi nuovi rapporti, mutando la capacità di resistenza di taluni di essi a talune sollecitazioni esterne, ed, infine mutando l'attenzione e la pressione che il regime potrà esercitare nei confronti della Corte.

La scadenza del mandato di Branca non ha determinato soltanto la vacanza, a lungo protrattasi, di un seggio cui doveva essere designato un giudice di estrazione socialista. Ha privato la Corte di una forte personalità che aveva fatto pesare i suoi convincimenti ben al di là del dato numerico del voto che esprimeva.

Intanto si notano, nelle decisioni della Corte, orientamenti che non riflettono più quell'impegno per la salvaguardia dei diritti civili e l'eliminazione delle più viete norme fasciste che aveva caratterizzato soprattutto il periodo della presidenza Branca. La prima sentenza emessa dalla Corte dopo la scadenza del suo mandato, quella relativa alla legittimità costituzionale dell'obbligo di chiedere una autorizzazione di pubblica sicurezza per effettuare collette e raccolte di fondi anche per scopi politici, è passata pressoché inosservata. La conferma della costituzionalità di tale norma, che la Corte ha sancito, pare, a larga maggioranza, è certamente assai grave, perché disconosce addirittura l'esigenza del finanziamento per tutti quei gruppi ed organismi che non possono usufruire di generose sovvenzioni e delle abituali ruberie del regime. Essa potrebbe significare che, quando i problemi di libertà riguardano specificatamente individui e gruppi al di fuori di certi schemi e di certe prassi del regime, è m

eno facile, già da oggi, che la Corte ne colga tutta l'importanza.

A questa sentenza ha fatto seguito quella sulla responsabilità dei rivenditori di giornali per la vendita delle pubblicazioni ritenute oscene, fatti oggetto di talune vere e proprie campagne persecutorie ed intimidatorie da parte di certi magistrati bacchettoni. Ed anche in questo caso la sentenza della Corte non ha segnato un successo per la difesa della libertà del cittadino.

Clamore e polemiche ha suscitato invece la sentenza sulla legge sui contratti d'affitto dei fondi rustici, dichiarata incostituzionale in alcune parti assai importanti. C'è da dire, a proposito di essa, che, forse per la prima volta, la sentenza era stata preceduta da una campagna della stampa di sinistra, che non aveva risparmiato il modo in cui si affermava fosse stata redatta la relazione e condotti gli studi e la raccolta della documentazione relativi. E c'è da dire, anche, che la legge dichiarata incostituzionale era informata ad un tipo di »socialità molto corporativistica e settoriale. Resta il fatto che questa sentenza può segnare l'inizio di una inclinazione della Corte ad una maggiore attenzione per i problemi della conservazione di un certo ordine economico, piuttosto che per i diritti di libertà.

Le questioni che la Corte Costituzionale dovrà affrontare nei prossimi mesi e forse nei prossimi anni sono del resto tali che dalla loro soluzione resterà segnato il carattere del nostro ordinamento, e di riflesso, della nostra società. Giacciono oramai da tempo alla Corte in attesa di fissazione diversi giudizi relativi ai reati di opinione, vilipendi, istigazione dei militari a disobbedire alla legge, etc. Se si pensa che l'ondata repressiva in atto contro i cosiddetti extraparlamentari si incardina soprattutto su queste norme fasciste, non può sfuggire l'importanza delle questioni. Anche le norme relative ai procedimenti penali per reati di stampa sono oggetto di numerose ordinanze che rimettono alla Corte la questione alla loro legittimità costituzionale. In un sistema penale e giudiziario in cui il »sorteggio (o peggio la scelta discrezionale) del caso da punire efficacemente e rapidamente (scegliendolo tra i tanti lasciati a dormire ed a prescriversi o ad andare incontro alle provvidenziali amnistie)

è la vera discriminante, le norme che autorizzano il rito direttissimo nei reati di stampa, sono di per sé delle disposizioni odiosamente repressive.

Finalmente un primo caso di eccezione di illegittimità costituzionale dell'ordinamento giudiziario militare è riuscito a rompere il muro con il quale sistematicamente la Magistratura militare è riuscita ad impedire alla Corte Costituzionale di toccare le assurde norme che regolano la cosiddetta giustizia militare. L'ordinanza del Giudice Istruttore Militare di Cagliari non tocca un aspetto dei più gravi e neppure dei più vulnerabili per la loro incostituzionalità, tra quelle che i tribunali militari cercano di impedire che siano in qualsiasi modo messi in discussione. Ma è un primo passo, e prima o poi, anche le altre questioni, dichiarate »manifestamente infondate dalla giustizia dei colonnelli finiranno, magari attraverso un'ordinanza di un magistrato ordinario, per arrivare alla Corte.

Se a questo si aggiunge il nuovo giudizio sulla legge sul divorzio e quelli, che da varie parti vengono sollecitati, sulla giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale, il quadro degli impegni e delle responsabilità della Corte è tale da confermare la valutazione che fa della Corte Costituzionale il punto critico, nei prossimi mesi ed anni, della lotta che si va sviluppando per dare alla società italiana forme e strutture più civili e moderne.

Ma forse il compito più delicato che attende la Corte nel prossimo futuro, sarà quello, apparentemente assai semplice sul piano tecnico, di sanzionare la legittimità dei referendum popolari che le forze laiche, se avranno la possibilità di esprimersi e di incontrarsi nel Partito Radicale e nelle altre organizzazioni ad esso collegate, dovranno richiedere per il 1974 sulle leggi esecutive del Concordato, sui reati di opinione e su altre leggi chiave del regime.

Se la possibilità di svolgere positivamente il ruolo che le è affidato dipende per la Corte essenzialmente dalla sua capacità di conservare autonomia ed indipendenza dal regime, è vero anche che essa non potrà chiudersi in una torre d'avorio di distacco più o meno »tecnicistico dalla realtà del paese perché questa sarebbe soltanto una caricatura della sua indipendenza ed un alibi per il suo effettivo allineamento con le forze peggiori che stanno dando alla Repubblica un volto tanto diverso da quello che, piaccia o non piaccia, ha voluto darle la Costituzione.

 
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