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Radicati Alberto - 30 agosto 1972
Lunpentecnocrazia (*)
Indigenza culturale e ideologica del sottogoverno in Italia

di Alberto Radicati

SOMMARIO: Brani dal saggio di Radicati. Dal 1958 in poi il PSI non ha più discusso delle sue prospettive storiche, dando per scontato che il capitalismo dovesse sfociare nel socialismo. La politica del "piano" per l'attuazione delle istanze socialiste è stata una politica subalterna alla DC ed antioperaia. Dopo il "miracolo" degli anni '60 l'alternativa era tra conservazione e ricostruzione, tra transcrescenza post-capitalistica verso il socialismo e paternalismo medioclassista. Un vero partito socialista avrebbe scelto fra l'uno e l'altra. Dal passato frontista alla realtà piccoloborghese. Accordo "mafioso" tra DC e PSI per una caricatura di riformismo. Nasce la nuova classe politica tra dilettantismo e meritocrazia.

(LA PROVA RADICALE - BENIAMINO CARUCCI EDITORE - N. 4 - ESTATE 1972)

"Per gentile concessione dell'editore e dell'autore riportiamo la parte iniziale di questo saggio, scritto con la rabbia propria di chi deve registrare di aver accreditato il centro sinistra di speranze e virtualità che esso presto rivelò di non contenere (e non poteva contenere, ad avviso nostro, di radicali che si opposero ad essi sin da suo farsi).

Saggio che, nella sua volontà di ridefinire i termini effettivi, misurati sulla qualità della vita individuale e associata, di ciò che è conservazione e di ciò che è progresso, ci è parso quant'altri mai attuali in questa stagione politica, la cui realtà impone consuntivi e analisi che la dirigenza della sinistra non ha ancora affrontato appieno, timorosa del rischio salutare di mettere seriamente in discussione se stessa. Per questo il" pamphlet "di Radicati non ha sinora avuto e non facilmente riuscirà ad avere l'eco che merita. Motivo per cui pensiamo che la maggior parte dei lettori de »La prova radicale non ne abbia sinora avuto cognizione.

Ne riproduciamo dunque un ampio stralcio per farci agenti, con lo strumento ormai non irrilevante di questa rivista, della provocazione che è nelle intenzioni di Radicati e che ci interessa nel suo positivo significato di riproposizione delle scelte generali che stanno a monte di una politica economica, esplicite o chiaramente sottese alla sua aspra requisitoria. Riproposizione che investe tutta la sinistra, ma che è certo innanzi tutto rivolta al Partito Socialista nella misura stessa in cui l'autore ne fa oggetto troppo privilegiato dei suoi strali polemici".

»"...il giorno in cui avremo riacquistato il gusto acre della aggressione personale contro i cialtroni e i retori, contro le mezze coscienze, le mezze intelligenze, le mezze competenze che affliggono da anni il movimento operaio italiano..."

Da »Mondo Operaio , giugno 1961.

Direttore Francesco De Martino; condirettori Gaetano Arfè, Antonio Giolitti.

Anche in epoche caratterizzate da una minor accelerazione del ritmo storico, dieci anni non potrebbero sembrare un periodo troppo breve perché non se ne tentasse un bilancio. Un decennio di più o meno illuminato bonapartismo lasciò cambiamenti irreversibili nel Mezzogiorno; il decennio cavouriano resta come momento decisivo nella costruzione dell'Italia borghese; gli anni '90 hanno lasciato il ricordo di una frenesia di repressione che neanche il fascismo riuscirà a far dimenticare; l'età giolittiana non durò un decennio completo, né la restaurazione degasperiana ebbe bisogno di dieci anni per portare l'Italia del 25 aprile alla rivalutazione dello stato fascista.

E oggi un uguale intervallo di tempo contiene più storia: non sarà, perciò, troppo presto per tentare un bilancio dell'epoca che al movimento socialista italiano si aprì con il rovesciamento, per forza di popolo, del tentativo clericofascista di Ferdinando Tambroni.

All'indomani del fallimento dell'imposizione di un gollismo senza grandezza, l'ingresso del Partito Socialista nell'area di governo, preparato emozionalmente fin dagli avvenimenti del 1956 e teorizzato nel promettente sforzo di ricostruzione teorica e di riconquista ideale del periodo immediatamente successivo, si presentava sulla base di programmi che volevano essere incisivi e concreti.

Che a quei programmi mancassero, in misura già allora riconoscibile, da una parte i presupposti di un'analisi responsabile dei meccanismi di pressione e dello spostamento dei rapporti di forza, dall'altro la corrispondenza alle priorità reali della società italiana, fu osservato solo da pochi e comunque non fu ritenuto tema degno di discussione, non solo da burocrazie di partito e di corrente già allora ispirate a obiettivi di sottogoverno o ad astratte velleità di potere, ma neppure da una cultura che faceva della conclamata »obsolescenza delle ideologie l'inconfessabile, ma profondamente radicata, ideologia dell'oscurantismo tecnocratico.

Dolo le elezioni del 1958 nel PSI non si discusse più sulle prospettive storiche: al di fuori dell'ala poi secessionista, in gran parte mineralizzata nelle parole d'ordine dell'ortodossia semistalinista, si diede per scontato (o almeno ci si comportò come se si desse per scontato, ignorando su questo tema anche il dibattito in corso nel movimento socialista occidentale) che il capitalismo dovesse pacificamente e quasi naturalmente evolvere in un socialismo che non si cercava neppure di definire, o, a livello più implicito, che la prospettiva stessa del socialismo fosse da mettersi in soffitta di fronte all'avvento di una società imprecisamente ma apologeticamente definita (e l'imprecisione delle definizioni era già indice di disimpegno teorico) come »industriale , »moderna , »postindustriale o »pluralista .

Non ci fu, in questa svolta dell'inizio degli anni sessanta, che per l'Italia postfascista ha avuto un'importanza paragonabile a quella di dopo il 1898, un tentativo di comprendere la trasformazione concreta dei rapporti tra le classi, il momento italiano e internazionale della transcrescenza del capitalismo.

Perciò non si tentò neppure un'analisi di classe di quel partito di maggioranza relativa che pure diventava il principale interlocutore in una politica che presupponeva - più che dimostrare - la necessità di partecipazione al governo, e in cui i periodi di assenza erano già sentiti come provvisorio soggiorno nell'anticamera del governo.

Anche su questo tema la continuazione, in forma leggermente modificata, dei luoghi comuni dello stalinismo, si congiungeva al loro rovesciamento meccanico nella formazione dell'ideologia implicita della capitolazione permanente. Come prima si era considerata tutta la DC "massa perditionis", partito reazionario da combattere con ogni argomento e con ogni alleanza (ciò che non impediva, sul consueto terreno della »doppia verità , il continuo e lamentoso appello alla presunta base »popolare e progressista di essa) così, all'indomani della caduta di Tambroni - senza alcuna modificazione del gruppo dirigente DC, ed essendo segretario del partito quegli che vi era stato chiamato a consacrazione del colpo di stato mafioso-fascista del gennaio 1959 - non si affermava neppure, ma si dava per dimostrato - continuando così il costume dell'epoca frontista - che la DC fosse acquisita a una politica »progressista di cui non si definivano neppure le condizioni e le finalità.

Ma e chiaro che il rifiuto della grottesca caricatura frontista non poteva giustificare altre mistificazioni. Certo, né la DC era espressione immediata e organica del capitalismo italiano, né il capitalismo italiano era una forza omogeneamente e necessariamente orientata alla più cieca reazione.

Perciò, in quelle che in un certo momento apparvero le formulazioni più esplicite e coerenti di quella che da alternativa di sinistra era ormai diventata »svolta a sinistra , quella che avrebbe dovuto essere una nuova politica economica appariva non come momento di crescita, di trasformazione e di transcrescenza di una società capitalistica, ma come palingenesi metaclassista (e, implicitamente, medioclassista), per effetto di intrighi semipolitici e di ultimative declamazioni minimaliste e alla luce di alcune banalità teoriche e penultime scoperte dalla politica economica statunitense.

Certo, era facile agli stalinisti di ieri dimostrare che il capitalismo italiano non era quello che essi per molti anni si erano impegnati a far credere: certo nel 1960 la destra economica non si proponeva la disindustrializzazione dell'Italia - e nel 1960 nessuno, o quasi nessuno, domandò se fosse vero che se lo proponesse nel 1948.

Nel 1960 era vero che una politica di progresso era possibile in Italia nel capitalismo e, in una certa misura, con il capitalismo. Non si poneva un'alternativa manichea tra azione fuori o dentro il sistema; e all'interno del sistema operavano forze con cui era possibile una collaborazione che andasse nel senso del socialismo. Nelle condizioni concrete del capitalismo italiano dell'inizio degli anni sessanta, le misure necessarie alla razionalizzazione del sistema - e perciò a una permanenza del sistema che non si riducesse a quella repressione allo stato puro di cui ormai mancavano le condizioni - erano anche le condizioni del superamento del sistema. L'ipotesi formulata da Schumpeter - non per nulla sorta dalle condizioni di un capitalismo »incompleto - forse mai fu così vicina ad essere un'alternativa concreta come nell'Italia dell'inizio degli anni sessanta: il completamento del capitalismo apriva la via al socialismo, e nello stesso tempo il congiungersi di condizioni oggettive e soggettive rendeva pro

ibitiva al sistema la conservazione dell'antica inefficienza.

E' chiaro che, all'indomani del luglio 1960, nessun governo italiano avrebbe potuto sostenere che si dovesse conservare il Sud arretrato, che si potesse conservare la stagnazione anacronistica del mondo contadino dell'Italia centrale, che la condizione operaia dovesse restare quella stigmatizzata in ricerche che non per nulla furono poi messe in soffitta, che l'emigrazione dovesse costituire l'unica parvenza di soluzione della »piena disoccupazione del Centro-Sud, e che nello stesso Nord la piena disoccupazione dovesse essere nascosta soltanto dalla favolosa inefficienza del settore terziario: sotto lo stimolo della presa di coscienza del »miracolo , che faceva entrare l'Italia nel mondo sviluppato, della sfida kennediana agli Stati Uniti, tutti i vecchi obbrobri di una società italiana mal rabberciata dal vuoto ideale di una restaurazione senza dignità, tutti i mostri del passato - dalla piena disoccupazione al Codice Rocco - apparivano con accresciuta intollerabilità.

Una scelta delle rivendicazioni che andasse nel senso del pieno sviluppo e perciò del superamento del capitalismo era allora possibile: sarà utile non dimenticare che non fu fatta né dalla sinistra di governo (che sempre più diventava sinistra di sottogoverno) né da quella sinistra maggioritaria che sempre più esprimeva in un velleitario estremismo minimalista le rivendicazioni reazionarie della piccola borghesia, formulate in miti tecnocratici (la »politica di piano ) e approssimativamente orecchiate, attraverso la semicultura di radicali camuffati da socialisti »moderni , dalla cultura nordamericana e dal pretenzioso oscurantismo dei tecnocrati gollisti (»modello di sviluppo alternativo all'opulenza , »consumo sociale , »priorità della ricerca scientifica ).

La »politica di piano , proposta allora, non fu il rifiuto riformista di un'alternativa rivoluzionaria, inesistente in breve periodo, e in lungo periodo complementare al riformismo: fu il rifiuto di ogni politica postcapitalistica, di ogni politica »di parte operaia e la proposta al capitalismo di un'alleanza con le forze reazionarie (reazionarie nei loro aspetti filocapitalistici e in quelli anticapitalistici) della piccolo-borghesia.

Dopo il 1960, in un ripensamento che non per caso ebbe inizio proprio allora, le minoranze di sinistra hanno spesso posto in termini di riforma o rivoluzione il giudizio delle scelte di cui, in quel momento decisivo, si assunsero la responsabilità direzioni che non potevano ignorare quale fosse il mandato implicito dei militanti. Il 1960 come il 1945? Non è certo per caso che solo dopo il 1960 si riapre, in qualche misura, il dibattito sempre soffocato sulle alternative del 1945: ma nel 1960 le responsabilità di coloro che capitolarono - e tutte le direzioni capitolarono - furono se mai più pesanti di quelle del dopoguerra immediato, in presenza del crollo ormai evidente di tutto l'antico »disordine costituito , di una »pienezza dei tempi che non poteva più essere ignorata.

Sostenere, come ha fatto una parte della sinistra, che il PSI dopo il 1960 non ha svolto una politica anticapitalistica, ma si è limitato a rivendicare la razionalizzazione del capitalismo costituisce - nonostante la truculenza semistalinista con cui queste tesi sono presentate, p. es. da una parte del PSIUP - una interpretazione sostanzialmente apologetica della politica del partito socialista. Non è vero che il PSI non ha svolto una politica anticapitalistica: il PSI ha svolto, in posizione subalterna alla DC, in una nuova subalterna e inconfessata »unità d'azione , politica di anticapitalismo reazionario. Quando si sono sostenute, »contro la logica dell'efficienza (sembra una contraddizione in termini, ma è un titolo dell'"Avanti!" e dimostra che per il quotidiano del PSI l'efficienza non sia pensabile che come efficienza ai fini del profitto), politiche che obiettivamente disincentivavano gli investimenti, si svolgeva sì una politica anticapitalista, ma questa politica anticapitalista era, soprattutto e

prima di tutto, una politica antioperaia. E' stato con governi a partecipazione socialista, in un decennio in cui i socialisti sono stati al governo e nell'anticamera del governo, con la pianificazione economica quasi istituzionalmente affidata a ministri ed esperti socialisti, che l'Italia ha avuto, per la prima volta nella storia, una diminuzione assoluta di occupazione. D'altra parte, non è neanche vero che il PSI abbia voluto »soltanto (e non sarebbe poco) la razionalizzazione del capitalismo. La »politica di piano teorizzata da intellettual-socialisti di formazione radicale e di dipendenza clericale - presente ingiustificato qualcuno che ha avuto una formazione marxista - era, se mai, l'»irrazionalizzazione del capitalismo, il rifiuto del »benessere - scritto tra virgolette, con il virtuoso disprezzo che per il consumo delle »classi inferiori ostentano intellettuali e tecnocrati che al loro consumo provvedono largamente -, la conservazione e la ricostituzione delle strutture e dei »valori della s

ocietà tradizionale.

Non per nulla, già nel periodo di preparazione all'»apertura a sinistra e, anche più apertamente e brutalmente, quando i quadri »intellettual-socialisti si sentirono nell'agognata anticamera del governo, fu respinta, anche con toni di provocazione e irrisione che derivavano da tutto un passato di tradizione antipopolare delle caste intellettuali italiane, qualunque rivendicazione, anche riformistica, di egualitarismo e di benessere.

Nessuna rivendicazione democratica, anche nell'ambito del sistema, fu accolta o anche seriamente discussa.

Dalla limitazione delle crescenti prebende di classe media - l'orgia consumista accomunò tecnocrati e poliziotti, il presidente »socialista della repubblica e la vedova del dittatore fascista, i burocrati ereditati dallo stato sabaudo e fascista e gli »esperti dei nuovi organi della »pianificazione democratica : per il fronte unico del privilegio e del parassitismo solo i salari operai incidevano sui costi, che dovevano restare »competitivi - a un diverso orientamento del consumo pubblico: le autostrade, e anche il ponte sullo stretto di Messina, erano un pregevole »impiego sociale del reddito , mentre p. es. case per i senzatetto sarebbero state un »consumo privato , cosa spregevole fino a prova contraria, e comunque da contenere negli austeri limiti di una »politica dei redditi che, evidentemente, escludeva tutti i redditi superiori alle duecentomila lire al mese: contemporaneamente l'edilizia pubblica sovvenzionata (sovvenzionata a spese dei consumi popolari) serviva a finanziare lussuose abitazioni c

ooperative di burocrati e tecnocrati; ma quando i baraccati di Roma tenteranno di occupare le case predisposte per le classi medio-superiori si troveranno di fronte la ben organizzata, bene equipaggiata e ben retribuita (grazie alla »socialità imperante) polizia di quel centrosinistra che, se non era riuscito, come le convergenze tecnocratiche avrebbero voluto, a essere portato a battesimo dal filofascista Tambroni, pure dell'aggressività tambroniana assumeva la faziosità della passione antidemocratica, l'appello sanfedista a una base di massa reazionaria, il dogma della repressione come fine supremo e normale dello stato.

L'esplosione demografica è, certo, elemento permanente e cumulativo di impoverimento, degenerazione è imbarbarimento della società italiana, ma è anche segnacolo di unificazione di sanfedismi solo apparentemente opposti, simbolo di continuità con il fascismo, arra di omertà a tutte le forze che si identificarono con il fascismo, e, nelle condizioni concrete dell'Italia, strumento di »diseuropeizzazione , di soffocamento della avanguardia operaia da parte di maggioranze medioclassiste.

Per gli stessi motivi i governi deferenti al disordine costituito respingevano qualsiasi rivendicazione - quasi sempre implicita, e timidamente attenuata da direzioni abituate alla capitolazione - di una sia pur parziale liberalizzazione dello stato fascista, di uno stato armato di tutto l'apparato repressivo del fascismo e in più di tutta l'opulenza - di materiali e di tecniche, di "status" e di compiaciuta prepotenza - resa possibile dall'affluente piccoloborghesume sottonordamericano che fu la »concezione dello stato del clerico-intellettualsocialismo.

All'indomani del »miracolo , dunque, una politica coerentemente riformista, una politica di benessere, uno sforzo coerente di razionalizzazione del sistema, significava necessariamente un deciso, anche se graduale e solo incipiente, superamento del sistema.

Joseph Aloys Schumpeter ha descritto, con chiarezza di reazionario consapevole, questo momento: distrutti dallo sviluppo capitalistico i presupposti precapitalisti della civiltà capitalista, la liberalizzazione della società implica la liberazione delle forze che costituiscono una nuova società. La società industriale pienamente realizzata, cioè l'inserimento di tutta la popolazione nell'attività industriale, significa la distruzione di tutti i pregiudizi ereditati dalla tradizione, la scelta consapevole di una società razionale, e, una volta che sia fuori discussione che la società è fatta per l'uomo, il pregiudizio della proprietà non avrà miglior sorte di quelli della società precapitalista.

Se, in una società capitalista pienamente sviluppata, e tanto più in presenza delle aspirazioni socialiste molecolarmente diffuse nella cultura europea, si eliminano i settori precapitalistici e si demoliscono gli istituti e i pregiudizi della società tradizionale, la transcrescenza a una società in qualche modo postcapitalistica e, almeno tendenzialmente, socialista, diviene inevitabile. All'indomani del 1960 l'alternativa non era tra rottura del sistema e razionalizzazione del sistema, tra riforma e rivoluzione, perché un riformismo coerente era già l'inizio della rivoluzione. La società del benessere non era un'alternativa alla società socialista perché uno sforzo coerente per il benessere si identificava con la costruzione di una società socialista.

L'alternativa reale era tra la conservazione e la ricostruzione artificiosa di un tipo sia pure esteriormente modernizzato di società tradizionale, il controriformismo piccoloborghese, la »sottonordamericanizzazione , che in Italia assumeva i miti oscurantisti della reazione clericale come ideologia di una »civiltà postindustriale inserita sulla società preindustriale del centro-sud e sulla irrazionalizzazione di quella che, nell'Italia settentrionale, era già una società industriale; e la trascrescenza verso il socialismo.

I rapporti di forza concretamente esistenti in Italia rendevano possibile ognuna di queste due alternative: non c'era nessuna condizione fatale e inevitabile per la reazione che venne dopo.

Nelle condizioni concrete dell'Italia del 1960, come in ogni società capitalista sviluppata e anche semisviluppata del nostro secolo, era pienamente possibile una transcrescenza post-capitalistica come sviluppo necessario di misure di razionalizzazione del capitalismo: finora la volontà politica delle direzioni si è rivelata l'elemento limitante, perché è certo che per un riformismo coerente è necessaria ben più intransigente volontà rivoluzionaria di quella che può consentire l'assunzione del potere in un vuoto di potere, un colpo di stato che per appoggio popolare si configura come rivoluzione - come le tante rivoluzioni quasi inevitabilmente tradite del Terzo Mondo negli ultimi venti anni.

E' del tutto astratta la apparentemente ineccepibile constatazione che una classe dominante riesce sempre a difendere i suoi interessi fondamentali. Il fatto stesso che le società di classe si siano trasformate - anche se, finora, solo in altre società di classe - dimostra che nessuna classe e riuscita, finora, a costituire un apparato di potere tanto omogeneo e tanto organicamente ispirato a un'espressione univoca degli interessi della classe al potere da non dar luogo a contraddizioni e da non richiedere adattamenti che non possano essere l'inizio di un rovesciamento.

Le alternative del potere di classe sono state finora o l'adattamento e la »razionalizzazione , al prezzo di una »rivoluzione diluita , del passaggio sia pure graduale e incompleto a un nuovo potere di classe; o l'immobilismo a costo della degenerazione, la sconfitta della classe progressista a costo dell'abdicazione della classe al potere, il crollo verticale della civiltà nell'esaurimento reciproco delle forze contrapposte.

Se si assume che il capitalismo contemporaneo sia capace di reprimere consapevolmente e coerentemente qualsiasi tentativo di una razionalizzazione che è un superamento, si deve prevedere che il Terzo Secolo è già cominciato: che come la fine del mondo antico non fu la sopravvivenza della società schiavista, ma la fine della civiltà antica, così oggi una borghesia incapace di sopravvivere in nome dei suoi valori potrà sconfiggere la rivoluzione aprendo le porte alla barbarie, trascinando nel suo imbarbarimento una società in cui non si è costituita un'alternativa valida.

E' un'eventualità tutt'altro che improbabile, tanto più probabile in quanto, da una parte i gruppi di potere delle società che si ispirano a valori anticapitalistici non rappresentano più una alternativa, o comunque non un'alternativa progressiva, al capitalismo, e dall'altra, all'interno stesso delle società capitalistiche, e ai margini di esse, nel Terzo Mondo, si costituiscono forze di alternativa antisocialista e, contemporaneamente, di reazione anticapitalista che cominciano ad essere classi o embrioni di classi, e che, se nella definizione astratta e solo per esclusione di »nuova classe non trovano un'identificazione della loro natura, concretamente si definiscono nella confluenza di tutte le reazioni, nelle tecnocrazie irresponsabili dell'oligopolio privato e pubblico, nei militarismi e clericalismi che non sono più solo un fatto di sovrastruttura, nell'autoritarismo di massa delle piccolo-borghesie che sono ormai la classe privilegiata almeno di quella gran parte del Terzo Mondo - Africa e Medio Ori

ente, ma anche zone marginali dell'America »latina come la Bolivia e Haiti - che non ha fatto a tempo ad avere una rivoluzione borghese prima di avere una controrivoluzione piccolo-borghese.

E' chiaro, comunque, che la controrivoluzione »post-industriale come alternativa alla transcrescenza postcapitalista della società industriale è una possibilità e non una fatalità. Neanche nel Nordamerica le forze che pur solo appaiono eversive più che rivoluzionarie dovranno essere necessariamente soffocate dal Tallone di Ferro di un 1984 neocapitalista: non sarebbe stato razionale estrapolare la desertizzazione dell'età del maccartismo e oggi il Nordamerica non è più, puramente e semplicemente, »nazione di pecore .

Il nostro secolo non ha certezze, ma neppure la certezza di un avvenire di reazione.

E, in Europa, non si può prescindere da un insieme di condizioni soggettive indubbiamente più favorevoli alle forze che si ispirano a un avvenire socialista.

Dire che una classe dominante trova sempre il modo di garantire i suoi interessi fondamentali può essere oggi una spiegazione di moda, ammantata com'è della cupa saccenteria di una cultura »marxiana - e non marxista! - giustificatrice di sconfitte e teorizzatrice di catastrofi.

Ma quali sono gli »interessi fondamentali di una classe dominante? Significano solo l'astratta sopravvivenza di una struttura istituzionale, o hanno anche qualche cosa a che fare con le aspirazioni e le prospettive delle persone che, in un determinato momento, costituiscono la classe dominante? Rappresentavano l'avvenire della società schiavista gli imperatori, usurpatori di province e organizzatori di sconfitte del terzo e del quarto secolo, che, certo »efficacemente , repressero le lotte popolari aprendo ai barbari il mondo romano e distruggendo la civiltà antica? E chi furono i rappresentanti »coerenti della società feudale, se tutte le società feudali che si svilupparono si svilupparono in società borghesi? Dovremmo dire che i Colbert del XVII secolo - e perché non già i Luigi XI del XV! - »tradivano la società feudale, e che i soli rappresentanti coerenti della lasse feudale al potere erano gli organizzatori dello sfacelo, un Carlo II di Spagna magari un Carlo Felice di Savoja?

Certo, nessuna società capitalista si è finora trasformata »spontaneamente in una società socialista. Ma in tutte le società capitaliste sviluppate dell'Europa occidentale - le condizioni, soggettive prima che obiettive, degli Stati Uniti sono indubbiamente diverse - una trasformazione che eliminasse le tendenze incoronate alle transcrescenze in socialismo richiederebbe una controrivoluzione, come fu evidente già con il nazismo.

La disgiuntiva tra le due vie è evidente nella politica dell'occupazione. La »scelta di civiltà della reazione piccolo-borghese anticapitalista (di appoggio della reazione populista ai capitalisti contro le conquiste progressive della civiltà capitalista) richiede una politica di piena disoccupazione. L'accrescimento del prodotto "pro capite", l'uscita dalle condizioni della miseria di massa può significare la generalizzazione della società industriale e il riassorbimento dei settori arretrati. Ma può anche consentire la ricostituzione, a un più alto livello di consumo, di un nuovo tipo di società tradizionale: l'esclusione dalla società industriale di una parte crescente della popolazione, consentendone la sopravvivenza in base alla più alta produttività di un ridotto settore industriale. In questo tipo di società le industrie ad alta intensità di capitale verrebbe ad avere la stessa funzione che nell'infelice Medio Oriente hanno i pozzi di petrolio.

Un partito socialista che avesse saputo essere se stesso - in dannatissima ipotesi, che non avesse rinunciato ad essere almeno un partito democratico-borghese conseguente - avrebbe saputo che tra queste ipotesi non si poteva mediare e si doveva scegliere: e avrebbe saputo che nell'Italia del 1960, nel mondo »kennediano che allora sembrava affermarsi, non poteva essere dubbia la vittoria di chi avesse saputo rifiutare coerentemente gli ideali del sanfedismo. Le nostalgie clericali avrebbero potuto restare confinate nei meandri della Roma secentesca, negli antri di un lungo passato di oscurantismo e di imperialismo; ma una tecnocrazia »socialista , che dalla soggezione staliniana aveva imparato »il coraggio di dirsi moderati , non sapeva resistere alle tentazioni della capitolazione permanente.

Ci fu un tentativo socialista di realizzare con Tambroni un governo di centrosinistra? Le prove evidentemente non ci sono, e non ci saranno finché le omertà delle burocrazie unite opporranno il fronte unico di tutte le complicità a un controllo popolare che richiede, ormai, una rottura del sistema; ma l'orientamento di burocrazie e tecnocrazie, le suggestioni golliste di un anticapitalismo tecnocratico mal camuffato da socialismo »di sinistra , i legami non reconditi tra clientele »intellettualsocialiste e capitalismo monopolistico di stato, il rifiuto tenacissimo e provocatorio di un processo al passato e di una rottura con le condizioni del passato all'indomani del luglio 1960, fanno pensare che se l'accordo non ci fu, esistevano le condizioni dell'accordo, che se l'intenzione non ci fu - ma non c'è nessuna prova che non ci fu - non c'era, almeno, da parte del PSI, un rifiuto consapevole della »scelta di civiltà che si esprimeva negli ideali dell'"Opus Dei".

Tra transcrescenza post-capitalista verso il socialismo - attraverso lo sviluppo coerente e, in certo modo, l'esasperazione di tutte le tendenze obiettivamente progressiste della civiltà capitalista - e paternalismo »salazarista esteriormente modernizzato nel medioclassismo nordamericano non v'era, evidentemente, nessuna possibilità di mediazione: ma proprio nella volontà di cercare una mediazione dove è irrinunciabile una scelta, nella ricerca della conciliazione di ciò che è inconciliabile per chi ha rispetto per se stesso e per le sue convinzioni, si misura la degenerazione - o se vogliamo »il realismo - delle direzioni ispirate all'indigenza ideologica.

Non si dovrà sottovalutare, in questo oscuro e complesso processo, la parte che assunse la piccolo-borghesia meridionale, che proprio in quegli anni andava assumendo un peso crescente in tutte le direzioni di partito e anche - forse qualche anno dopo che in altri partiti - nel partito socialista. I miti della società »postindustriale inseriti in una società preindustriale servirono a contrabbandare una degenerazione ideologica che non ebbe neanche la dignità di cercare una spiegazione teorica: l'abbandono implicito e ipocrita del marxismo dà la misura della serietà di un gruppo di potere che si proclamava »classe politica (con linguaggio che era, già in sé, un rifiuto del marxismo) e chi sappia resistere alla ripugnanza di sfogliare una collezione dell'"Avanti!" di dopo il 1963 avrà la prova di un vuoto ideale che si esprime nell'ostentazione della mediocrità culturale e della meschinità di un tatticismo ridotto a furberia di sottogoverno.

Alla piccolo-borghesizzazione del PSI contribuiva tanto il passato sottostalinista quanto il rifiuto del frontismo divenuto rifiuto del classismo per chi aveva stalinisticamente presentato il frontismo come una politica di classe. Nel frontismo il PSI aveva accettato tutti i miti reazionari del populismo - alla fine, con esplicito rinnegamento della sua tradizione, accettò anche i »valori dell'azienda contadina, proprio negli anni in cui milioni di contadini rifiutavano decisamente il mondo contadino! - e, in più, aveva subìto un'implicita delega del partito comunista a fungere come strumento di penetrazione verso la piccolo-borghesia cittadina, ribattezzata eufemisticamente »ceto medio ai fini di »alleanze che vanificavano i fini di ogni possibile alleanza, ma consolidatasi in forza di conservatorismo neotradizionale proprio negli anni in cui i partiti che si richiamavano al marxismo ne teorizzavano la presunta vocazione progressista. Una volta decisa, sia pure implicitamente, l'unità d'azione con la Dem

ocrazia Cristiana, il PSI non per questo rompeva un'unità d'azione che era stata sempre unità e omertà con la burocrazia e non collaborazione e comunicazione con la base del PC. I burocrati del PC si preoccupavano di evitare che gli operai comunisti potessero essere »contaminati , e tentati, da quella parvenza di libertà di opinioni, o almeno di tolleranza, che permaneva ancora, almeno in linea di principio, nel PSI frontista del principio degli anni cinquanta. L'unità con la burocrazia del PC, nel momento in cui la subordinazione alla DC era accettata come realtà inevitabile, prima che discussa come alternativa, diveniva patto di non aggressione di burocrazie: la burocrazia del PC aveva bisogno di non essere criticata da sinistra, e questa esigenza rispondeva evidentemente alle necessità e agli istinti stessi di un "Establishment" che nello stesso tempo ha bisogno di un PC come spauracchio »sovversivo e rispetta nel PC la burocrazia di un partito d'ordine.

Perciò la penetrazione, non soltanto strumentale, di aspirazioni e »valori piccolo-borghesi nel partito socialista, se fu indotta dal frontismo, rivelò tutta la sua importanza dopo la fine del frontismo. Posizioni che fino al 1956 erano potute apparire come una concessione tattica alla mitologia stalinista, assumevano dopo il 1956 un loro peso autonomo di spinta reazionaria e rivalutavano nella sinistra - con il non rinnegato avallo del partito comunista - »valori tradizionali e tradizionalisti il cui sradicamento ad opera dei socialisti aveva costituito un salto qualitativo di civiltà. I quadri provenienti dal Partito d'Azione, e che perciò non erano passati per una scelta di civiltà socialista, e che nel 1947 avevano aderito al populismo filostalinista del partito socialista ben più che ai valori del socialismo, svolsero una funzione non insignificante in quest'opera nefasta.

Del resto, senza il passato frontista e senza la penetrazione molecolare dell'indigenza teorica e del cinismo quasi masochista che avevano caratterizzato lo stalinismo, sarebbe incomprensibile la capitolazione non soltanto tattica del partito socialista di fronte a una Democrazia Cristiana che, vilipesa pochi anni prima come strumento della reazione e dell'imperialismo straniero (dato che per il »marxismo dei cobelligeranti di Togliatti era inconcepibile e »provocatoria l'idea che il degasperume fosse per se stesso reazionario), diventava, senza dibattito e quasi senza spiegazioni che non fossero tautologiche, il »partito popolare e democratico che era stato per il PC nel 1944, e fino al 1947, benché, allora, con qualche non velata riserva da parte di un PSI frontista ma ancora non disposto al rinnegamento esplicito delle sue tradizioni.

In poco tempo l'unità d'azione con la DC diveniva dogma implicito dell'"Establishment" socialista, con la piena approvazione e spesso l'appoggio attivo "esternato, p. es., dall'"Espresso") di quegli intellettuali radicali e »intellettualsocialisti (tra cui l'"Astrolabio", allora non ancora esplicitamente frontista) che per conto loro e come rappresentanti corporativi della casta intellettuale ostentavano anticlericalismo, ma anche come mentori e pedagoghi del partito socialista ne indicavano come promettente segno di »maturità ogni capitolazione filoclericale.

La riconquista classista del PSI era possibile dopo il 1956 e avrebbe cambiato decisamente i rapporti di forza all'interno di un movimento operaio in cui la stessa burocrazia del PC era stata costretta, per gli stessi strumentalismi del frontismo, a consentire un'udienza al partito socialista.

Ma era evidente che questa possibilità doveva apparire minacciosa a tutte le forze conservatrici della destra tradizionale, che, naturalmente, comprendeva una DC cui le molteplici dichiarazioni di sinistra non precluderanno il governo di Tambroni con i fascisti (e Tambroni si era qualificato come uomo »di sinistra della DC, appoggiando sia la »sinistra di Fanfani che la clientela semiperonista di Gronchi e le molteplici iniziative del presidente dell'ENI), e al partito comunista: passando, naturalmente, per tutte le intermedie »saggezze della permanente predica dell'on. La Malfa.

Una risposta attiva ed efficace al tentativo dei conservatorismi uniti di impedire la riqualificazione del partito socialista avrebbe richiesto l'accettazione di un costo - la rinuncia al facile e apparentemente significativo successo dell'adesione di tutte le forze modernamente moderate che si ribellavano alle volgarità e alle meschinità della lunga malavita clericale e che non ritenevano di aver più bisogno della DC come »fronte unico anticomunista .

Richiedeva, nello stesso tempo, un'»aggressione - e in questi termini questa alternativa fu qualificata e desorcizzata dalla burocrazia del PC, che ne aveva compreso le enormi possibilità - e, perciò, una comprensione e un coordinamento tra tutte le componenti, di origine e formazione diversa, e mosse anche da diverse motivazioni, che si orientavano verso la costituzione e la costruzione di un autonomo partito di classe. In questo senso vi fu una convergenza tutt'altro che priva di significato, in difesa della rivoluzione ungherese del 1956 e - ma già in misura inferiore - nella condanna della complicità dei partiti comunisti a la controrivoluzione francese del 1958, ma ben presto prevalsero motivi, più o meno artificiosi, di divisione, anche perché una gran parte della sinistra, che da parte sua era decisa a condannare i misfatti dei partiti comunisti, si irritava quando la stessa condanna veniva da correnti che avevano tradizioni riformiste.

Furono gli anni del »miracolo e della fine del maccartismo. Questo significava una notevole trasformazione, al livello delle condizioni obiettive e dell'orientamento di una parte importante dei quadri potenziali del futuro partito di classe. La cooptazione nell'"Establishment", iniziata dapprima in forme ambigue, diveniva sempre più ampia e scoperta. A questo punto (e, probabilmente, il punto dopo di cui un'alternativa diversa diventava quasi impossibile era il rovesciamento del governo Tambroni, quando il PSI offriva garanzie di continuità e rifiutava di assumere il coordinamento della rottura »a sinistra di una parte consistente delle forze fino allora egemonizzate dal PC) il partito che accedeva, con una specie di pubblico riconoscimento della sua »maturità moderata, all'anticamera del governo, era qualche cosa di diverso dal partito che nel 1956 aveva proposto un'alternativa alla sinistra italiana.

Non è certo casuale, p. es., che il partito socialista abbia abbandonato ogni polemica, e anche ogni sostanziale proposito di »competitività con il partito comunista, dal momento in cui cominciò a considerare un fatto compiuto l'ingresso nell'»area di governo (concezione che presupponeva l'esistenza di un ghetto contrapposto all'»area ): già alla fine del 1960, e poi sempre più decisamente, chi avrebbe voluto discutere sulle grandi scelte della sinistra italiana si sentiva rispondere sempre più spesso che quelli non erano i problemi »attuali .

Poiché non era »attuale domandarsi, p. es., se i partiti comunisti con base di classe potessero ridiventare partiti di classe, e se, in assenza di questa alternativa, si dovessero costruire nuovi partiti o se al di fuori dei partiti si potessero costruire gli strumenti per l'avvento del socialismo nell'Europa occidentale (naturalmente il presupposto, che già allora non era più fuori discussione, era che si volesse l'avvento del socialismo nell'Europa occidentale); poiché le rivoluzioni, già in gran parte tradite, del Terzo Mondo, diventavano da problema per un consapevole impegno internazionalista, tema di evasione e occasione di apologetica contro il proletariato »privilegiato dei paesi avanzati; poiché un tentativo di analisi marxista della nuova società divisa in classi che si era consolidata nei paesi dell'Est, e che aveva represso una rivoluzione a Budapest come più tardi reprimerà un tentativo riformista a Praga, era non solo »non attuale ma »provocatoria nel momento in cui il Papa e Eisenhower, l'

ENI e la FIAT, i radicali e l'Opus Dei ostentavano simpatia e comprensione per i governi d'ordine imperanti all'Est, la »cultura socialista si rifugiava nella falsa concretezza di programmi che o non trovavano i rapporti di forza per realizzarsi o, più spesso, intanto potevano realizzarsi in quanto fossero distorti agli interessi di un rinnovato conservatorismo.

Non è per caso che la capitolazione del PSI verso una malavita clericale su cui non era più lecito nutrire illusioni fu amministrata dalla »sinistra socialista. La »politica di piano , la »politica dei redditi , le »riforme che non possono essere indolori , tutto l'insieme delle parole d'ordine con cui l'apparato ex-stanilista divenuto "Establishment" dell'area di governo mise in soffitta le rivendicazioni normali e naturali di un partito socialista, vennero dall'ex-ministro della restaurazione Riccardo Lombardi, già "leader" radicale della destra azionista e ora leader di una corrente socialista che si qualificava di sinistra perché rifiutava il riformismo, anche se lo rifiutava da destra. Il conclamato anticapitalismo del "leader" semiautonomista era certo sincero, come lo è sempre l'anticapitalismo della piccola-borghesia, ma era l'anticapitalismo reazionario di chi considerava socialismo l'avvento di un 1984 tecnocratico, proprio perché non sapeva neanche concepire una società socialista. L'uso che il g

ruppo lombardiano, autonominatosi consesso di »scienziati (poi si scoprì che la magniloquente denominazione si riferiva a innocui personaggi accademici) e illuminato - ma non »illuministico , perché la tradizione dell'89 restava scomunicata dall'ortodossia crociana - "trust" di cervelli, volle fare del potere contrattuale di cui disponeva, o si supponeva disponesse, il partito socialista, indica chiaramente quale fosse l'orientamento della direzione, verso chi si sentisse responsabile il gruppo dirigente di ispirazione radicale che controllava il PSI.

La DC, contro cui la conclamata »svolta avrebbe dovuto aver luogo, di cui per riportare l'Italia al livello dell'Europa si sarebbe dovuto demolire l'opera reazionaria di molti anni, accettò sostanzialmente le richieste dopo scontati mercanteggiamenti: »successo evidentemente troppo facile perché non si debba pensare che i socialisti si fossero impegnati a rivendicare solo ciò che la DC era già disposta a concedere. Non ci fu uno scontro e neanche un confronto: il PSI non si trovò mai in minoranza, neanche in un tentativo di riconquista di elementari libertà di democrazia borghese, neanche in un tentativo di abolire le leggi poliziesche dello stato fascista o anche semplicemente di dichiarare la "damnatio memoriae" di un fascismo che così era recepito nella legalità dello stato democratico.

C'era un accordo »mafioso di non porre rivendicazioni »inaccettabili ? Se l'accordo non ci fu, se di accordo non c'era bisogno perché l'apparato socialista era tanto organicamente integrato al sistema da far sue le regole del gioco di una malavita che ormai chiedeva solo di partecipare, ciò significa una degenerazione anche più grave di quella di un esplicito "pactum sceleris".

Così quella che avrebbe dovuto essere la palingenesi delle »grandi cose , un insieme di riforme talmente »incisive da rendere inutile una rivoluzione, era ridimensionata nella richiesta, fatta magari con toni esagitati, di ciò che rientrava negli interessi sostanziali, anche se non sempre nelle intenzioni soggettive, del potere oligopolistico.

Così l'Italia ebbe una caricatura di riformismo ad opera di un partito che proclamava il suo disprezzo per il riformismo: ebbe l'ENEL ma non la piena occupazione; le regioni ma non la liberalizzazione dello stato; vide una redistribuzione del sottogoverno che non aveva neanche la dignità dell'ipocrisia, ma non l'eliminazione di un malcostume che era ormai divenuto il »normale costume; assisté a concessioni alle burocrazie sindacali - anche di opposizione, purché servissero a reprimere la protesta di base - ma non a una demolizione del mostruoso apparato di repressione che Romita e Scelba avevano derivato dal fascismo nel riarmo non metaforico di una lunga violenza di restaurazione.

Chi era il personale dirigente emerso in quegli anni? Quella che allora, con linguaggio coerentemente antimarxista, cominciò ad autodesignarsi come »classe politica , l'insieme delle burocrazie unite era, in sostanza, la burocrazia di una nuova classe, ma era costituita da gruppi diversi che appartenevano a diverse stratificazioni della tormentata geologia politica italiana.

C'erano quelli che potremmo chiamare i »tecnocrati della nuova classe . In questo gruppo rientrano i tecnocrati in senso tradizionale: economisti che dalle camorre accademiche traevano una »realistica preparazione di sottogoverno, ingegneri dilettanti di economia, architetti e urbanisti con vocazione di sociologia, statistici con pretese di pianificatori, agronomi con propensioni di sottogoverno, neolaureati che aveva orecchiato qualche penultima novità francese o nordamericana. Ma rientrano anche i »tecnocrati della politica : intellettuali radicali che erano disposti ad offrire al PSI, »ravveduto dal frontismo , i lumi della loro semicultura, ma che non avrebbero mai tentato di capire che cosa significhi l'impegno di classe di farsi socialisti; opulenti »esperti e »organizzatori di cultura pronti a deplorare il »consumismo popolare, amareggiati dell'»imborghesimento degli operai, e affamati di consumi pubblici complementari al loro già enorme consumo privato, e di retribuzioni multiple per sostenere i

l consumo privato.

C'erano poi i burocrati di formazione frontista, o che avevano accettato il frontismo. Questi avevano perduto (e cinicamente se ne compiacevano) le »illusioni di gioventù : in parte credevano di aver acquisito con la vera o presunta partecipazione alla Resistenza il diritto ad essere filistei per il resto della vita e a diventare senatori prima della morte; di alcuni di questi, successivi accertamenti faranno risultare l'appartenenza alla Repubblica Sociale, ciò che del resto diverrà un merito ulteriore nei rapporti politici e affaristici con i fascismi arabi. Perdute le illusioni di gioventù e avvicinandosi ai quaranta o ai sessanta anni gli ex-giovani del dopoliberazione, passati per l'insegnamento del cinismo staliniano, vedevano il sottogoverno come carriera e trovavano nell'inserimento nel parassitismo statale la conclusione di un'esistenza fallimentare. Questi personaggi ostentavano atteggiamenti di stanchezza anche fisica e in un linguaggio dimesso e cinico (»smettiamola con il moralismo! ), vantavano

la meschinità della loro statura: ostentavano una fame arretrata di consumi vistosi e di rispettabilità neopiccoloborghese. Sarà in questi ambienti che si diffonderà il sospiro »come faccio a vivere con solo cinquecentomila lire al mese! . In genere questa frase veniva dopo la virtuosa deplorazione dell'imborghesimento degli operai »che guadagnano perfino centocinquantamila lire al mese e le conclusioni di tutto il ragionamento era un piagnucoloso »che vuoi fare! in cui la sostituzione del punto esclamativo al punto interrogativo esprimeva la rinuncia anche a domandarsi se ci fosse qualcosa da fare.

Nei quadri della capitolazione confluiva anche un gruppo abbastanza omogeneo e che, sebbene numericamente limitato, diede un notevole contributo a questa »seconda restaurazione : gli ex-dirigenti politici giovanili (giovani nel 1945, alle soglie della maturità, e, in genere, oltre le soglie di uno »spregiudicato realismo nel 1960) rimasti ai margini dell'impegno politico nei dieci inverni della reazione, qualificatisi intanto come tecnici, spesso con notevole successo e sulla base di innegabili capacità. Riemergevano ora, abbandonavano gli pseudonimi, in un'atmosfera confusa in cui non si capiva - ed essi stessi spesso non capivano - dove finisse il tecnico e dove cominciasse il politico, in che misura il militante politicamente impegnato si servisse del suo prestigio professionale e delle sue connessioni di consulente per contrabbandare proposte precedentemente irrealizzabili, accettandone tutti i condizionamenti e i ridimensionamenti, e in che misura un tecnico ai margini del successo si servisse di appar

tenenze politiche per compiere i suo destini di tecnocrate del trionfalismo neocapitalista.

Quello che caratterizzava l'insieme della fauna, era, comunque, che non si sentissero impegnati verso la classe operaia (espressione che, in genere, dava loro fastidio) e che si sentissero responsabili, più o meno consapevolmente, ma sempre più apertamente, verso la piccolo-borghesia: questa lenta revisione, timidamente avviata attraverso l'accoglimento delle tesi europeo-occidentali sul »deperimento della coscienza di classe , alla vigilia del luglio 1960, esploderà alla fine del decennio (alla vigilia e all'indomani del maggio 1968!), in un'orgia di dilettantismo »teorico in cui tra i ferrivecchi della »meritocrazia e della »proletarizzazione del ceto medio spunteranno peregrine escogitazioni come la »fine della classe generale e il »tramonto delle ideologie , che diverrà la squallida ideologia di una casta e di una generazione educata alla capitolazione.

Questo meccanismo, che opera in un modo estremamente complesso e a diversi livelli e che trova la sua unificazione nell'anticapitalismo populista e in un rivendicazionismo »sudista mal camuffato da meridionalismo, spiega gli apparenti paradossi del »contenuto economico della svolta a sinistra e la conversione di una »politica di piano nella politica di un piano di sottosviluppo.

(*) Dal pamphlet di uguale titolo pubblicato dalla casa editrice Summa Uno - L. 1.000.

 
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