di Angiolo BandinelliSOMMARIO: Bandinelli sostiene che spesso, per la classe dirigente, l'"antifascismo" ha costituito un valido alibi con il quale si copriva una manovra antisocialista e illiberale. Il compito delle "avanguardie" è di verificare la forza, la responsabilità politica di una classe dirigente che ha rifiutato mediazioni e selezioni corporative per rivendicare la propria autonomia e una adesione alle speranze popolari e democratiche. Ha il compito, cioè, di lottare contro il regime.
(NOTIZIE RADICALI N. 189-190, 23 gennaio 1973)
Perfino la RAI-TV di Bernabei e di Mattei ha saputo recuperarsi - in occasione del congresso paleofascista a Roma - il suo nuovo volto antifascista. Alle immagini sbiadite che stuzzicavano e mettevano in rilievo lo squallore del congresso dell'EUR, hanno immancabilmente fatto seguito in questi giorni dal teleschermo - andreottiano o fanfaniano, non importa - vibranti cronache delle manifestazioni indette per protesta dei partiti democratici; da Roma, da Milano o da Firenze, l'"antifascismo" è stato, per i dirigenti della TV, pane quotidiano ed argomento austero e sentito. Meglio quasi che con Paolicchi. Persino la "violenza" degli extraparlamentari non è stata, in definitiva, troppo maltrattata.
Vi era, nei circoli della classe dirigente clericale, più di una ragione per tale comportamento. Non avrebbe dovuto del resto lo stesso sindaco di Roma, Darida, presenziare alla grande manifestazione romana del 18 gennaio? Se un soprassalto di prudenza (il ricatto dei voti missini, a Roma, è determinante) o di viltà aveva poi dissuaso il successore di Petrucci a ritirarsi, l'iniziativa non aveva suscitato problemi o sdegno negli organizzatori delle manifestazioni; in nome della unità (televisiva) antifascista anche un Darida ci sta bene. Ma contemporaneamente e subito dopo sono cominciate ben altre manovre democristiane, per recuperare a sinistra, proprio in nome dell'"antifascismo". Fanfani, a Parigi, è andato di persona a controllare quel che si dice di bene dei programmi elettorali antigollisti di Mitterrand e Marchais, e Galloni ha tessuto gli elogi, nel linguaggio gesuitico che gli è proprio, di Rumor e di Moro, di Fanfani e del PCI, oltreché del PSI. A questi grandi manovre non è mancato il benestare d
i Amendola, il cui "laicismo" può oggi essere misurato sul metro del suo confronto con Lombardi.
Così, invece di un luglio '60, che capovolgeva i disegni di Gronchi e Tambroni - come molti compagni avevano sperato - abbiamo visto gli inizi di una conversione, manovrata e corporativa, dei gruppi di potere clericali, preoccupati certamente del deterioramento della situazione, ma solo in quanto, da sempre, loro regola aurea è quella di impedire il formarsi, nel Paese, di una qualsiasi spinta che non possa essere ricondotta al loro disegno, alla loro egemonia.
Per questa classe dirigente, ancora una volta, l'"antifascismo" ha rappresentato un valido alibi. Forse questo è sfuggito ai compagni che hanno pensato invece di poter riesumare, nelle piazze gli scontri e i confronti, ideali prima che politici, di anni passati, del '60 o del '68-'69. Si è di nuovo prodotto, in sostanza, quanto avevamo detto; e non da ieri, ma da prima delle elezioni del '70, quando rigettammo l'appello "antifascista" e dichiarammo che non era Almirante, o Ciccio Franco, il "fascismo" di questi anni, e denunciammo come proprio sull'antifascismo si stava consumando una spericolata manovra, in primo luogo antisocialista ed illiberale; o quando avvertimmo che "antifascismo" - ma da respingere - era la stessa piattaforma che avrebbe dovuto giustificare l'elezione di Fanfani.
Furore operaistico e confronti operai meritano di più: hanno - devono avere - anche essi, oggi, obiettivi diversi, ed alternativi. Hanno ragione i compagni che nelle mobilitazioni di questi giorni hanno visto qualcosa di diverso dall'antifascismo di maniera "ufficiale"; ma a questa volontà di lotta null'altro hanno saputo indicare se non la liquidazione del governo Andreotti. Certo, non siamo per il "tanto peggio, tanto meglio"; ma apparenti ci sembrano quelle "contraddizioni" sulle quali il "nuovo" governo che dovrà sostituire Andreotti, dovrebbe impiantare il suo maggior riformismo, le sue minori chiusure. Apparenti, quando non si ha attenzione verso i modelli di ristrutturazione in corso, non tanto e non solo della imprenditorialità privata, quanto di quella pubblica (o, magari, del credito) e del suo rapporto con il potere; che è il grande, necessario pilastro su cui si formeranno negli anni prossimi spaccature e dialoghi, frontiere di progresso e barriere corporative (come sembra aver capito finalmente,
al convegno comunista sulle partecipazioni statali, il solo Ingrao).
Il compito, il problema vitale anche delle "avanguardie" - pena la stessa loro scomparsa, non dimentichiamolo - è di farsi carico di ipotesi di più ampio respiro, sulle quali verificare la forza, l'intelligenza ed in definitiva la responsabilità politica di una classe dirigente che ha rifiutato mediazioni e selezioni corporative per rivendicare la propria autonomia e - soprattutto - una più lungimirante adesione alle speranze popolari, democratiche ed operaie. L'ipotesi - in primo luogo - della lotta, oggi, al regime.