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Bandinelli Angiolo - 20 febbraio 1973
Niente nemici a "destra"
NESSUNA SERIA OPPOSIZIONE AL REGIME CLERICALE

al Comitato Centrale del PCI

di Angiolo Bandinelli

SOMMARIO: Capovolgendo il vecchio slogan delle sinistre francesi, il gruppo dirigente comunista attacca ogni forma di dissenso, per offrire alla DC una collaborazione a tutti i costi.

(NOTIZIE RADICALI - N. 187/188, 20 febbraio 1973)

Una delle tesi più care e più assiduamente coltivate dal gruppo dirigente del Partito Comunista Italiano è quella della continuità storica e politica delle lotte e della strategia del partito in questi venticinque anni. E' certamente la chiave di volta della presenza e dell'iniziativa del PCI è stata sempre, da Togliatti in poi, l'offerta rivolta alla Democrazia Cristiana, considerata come la forza naturalmente egemone del mondo cattolico e conservatore, di un articolato "dialogo" che avesse quale suo obiettivo l'inserimento del PCI nell'area di governo, a partire da quell'area di potere che il partito si è conquistata in ampie aree della società civile, nelle amministrazioni locali, come in importanti settori dell'economia.

Se in notevole misura questa continuità di ispirazione è un dato vero ed accertato, non sono mancati tuttavia, di volta in volta, spostamenti di accento ed anche fratture; più che di correzioni di tiro si può, anzi, in alcuni casi, parlare di svolte. Lo abbiamo verificato anche a proposito dell'ultima sessione del Comitato Centrale del PCI, che a nostro avviso ha segnato un grave momento di arretramento rispetto alle posizioni anche degli ultimi anni.

Come è noto, questo Comitato Centrale è stato caratterizzato dall'attacco massiccio ed indiscriminato alle forze della sinistra extraparlamentare, ed in particolare contro "Lotta Continua" ed il Movimento Studentesco milanese. Ad eccezione crediamo, del solo senatore Umberto Terracini, nessuno dei dirigenti comunisti ha avuto parole men che di condanna nei confronti di qualsiasi presenza politica che intenda collocarsi "a sinistra" del PCI. E se il "Manifesto" non ha fatto le spese degli interventi di Berlinguer o di Lama, o di quello, addirittura delirante, di Cossutta, è solo perché il gruppo sembra aver perduto, dopo la "svolta" seguita alla esperienza elettorale del 1972 e al pratico allontanamento dalla linea di Luigi Pintor, di mordente e di efficacia politica.

Lo stesso Terracini è stato fatto oggetto di pesanti critiche, da parte dei suoi compagni di partito, per la solidarietà espressa nei confronti di Guido Viale e per aver firmato l'appello per la sua liberazione.

Ma, a parte questa nobile e severa voce democratica e laica (di un laicismo espresso nei fatti, non in "eleganti" dissertazioni, come quelle di Amendola, di sapore davvero paleo-borghese, e davvero teso solo ad un eventuale "recupero" di consensi nel ceto medio ("lamalfiano"), a parte l'intervento problematico, ma caduto ancora una volta nel vuoto, di Ingrao, l'intero gruppo dirigente del PCI si è, in questa occasione, ancor più identificato con la linea espressa da Enrico Berlinguer. Per il segretario del PCI, l'obiettivo cui tutto il partito deve ormai tendere è l'accordo di governo tra "le componenti storiche" del movimento "democratico" italiano, i comunisti, i socialisti e i cattolici.

Berlinguer non esprime, con questa tesi, né il possibilismo governativo di un Amendola, né la linea tradizionale di un Togliatti o, in particolare, di un Longo. Per anni, soprattutto Longo, ha indicato piuttosto l'obiettivo della "unità delle sinistre laiche e cattoliche"; una tesi che almeno prefigurava e ricercava la rottura nel monopolio democristiano, una diversa articolazione dell'assetto di potere attuale. Berlinguer esclude, anche in via di ipotesi, e quindi come obiettivo, la rottura dell'interclassismo clericale e chiaramente individua come interlocutori di un possibile accordo vertice democristiano e vertice vaticano, senza sfumature e senza alternative. Postosi su questa strada, Berlinguer si è dichiarato disponibile per ulteriori compromessi e cedimenti, alcuni dei quali di eccezionale gravità, anche se non sono stati rilevati dalla stampa o dagli altri partiti.

Il primo non ci giunge nuovo. Parlando del referendum abrogativo del divorzio, Berlinguer ha ribadito che debbono essere accolti i pareri di quei giuristi che affermano che il referendum stesso deve ormai "slittare" al 1974. Il lasso di tempo così guadagnato dovrà, secondo Berlinguer, essere utilizzato per raggiungere un accordo, che evidentemente coinvolga oltre ai clericali anche lo stesso PCI, per "migliorare" la legge sul divorzio e quindi rendere impossibile la effettuazione del referendum. Berlinguer non ha introdotto elementi nuovi di studio, su questo tema, oltre a quelli che già conosciamo; anche se i due anni trascorsi dall'introduzione della legge Fortuna dovrebbero aver convinto tutti che né il paese, né l'opinione cattolico-moderata, né la magistratura considerano la legge Fortuna così negativa da richiedere "aggiornamenti" o miglioramenti di sorta. Il piatto discorso del segretario del PCI su questo punto è stato certamente facilitato da altri interventi, provenienti da altre parti, anche essi

inadeguati ad una situazione assai delicata, che vede la legge sul divorzio esposta al rischio di una "revisione" conseguente ad una sentenza di incostituzionalità (per l'articolo relativo ai matrimoni concordatari) della Corte Costituzionale, sentenza attesa ormai tra breve. Tra questi interventi ricordiamo qui solo quello dell'on. Mancini, il quale ha di recente chiesto agli organi dirigenti del PSI (dove egli si trova adesso all'opposizione) di insistere presso il governo per ottenere la fissazione della data del referendum. L'iniziativa di Mancini ha avuto tutto l'aspetto di un "siluro" tattico lanciato contro la attuale maggioranza interna del suo partito e la segretaria di De Martino; tanto è vero che lo stesso Mancini non ha più accennato all'argomento, neanche in sede di Comitato Centrale, per rafforzare la sua tesi, della "irreversibilità", a breve scadenza, della svolta a destra della Dc, e dello spregiudicato uso che questo partito fa di ogni strumento (compreso il referendum) per piegare il PSI a

i suoi obiettivi.

Che questa classe dirigente sia così scaduta da considerare il referendum sul divorzio solo come merce di scambio per le sue lotte interne e per disegni di potere per i quali la definizione di "corporativi" è sempre più adeguata e calzante, è confermato anche da un altro passo della relazione di Berlinguer, al Comitato Centrale, solo in parte sfumato nella replica conclusiva dei lavori. Illustrando i caratteri di quella battaglia di "rinnovamento" del paese cui oggi i comunisti sarebbero chiamati, Berlinguer ha detto che occorrerà cercare di meglio definire anche alcuni rapporti attinenti alla sfera delle istituzioni. In particolare, ha affermato il segretario del PCI, "qualora si raggiungesse l'ampia maggioranza parlamentare necessaria, "sarà possibile esaminare alcune modifiche alla Costituzione", "per esempio - ha specificato - nella parte che riguarda le norme sui referendum".

Così, dunque, il PCI si è dichiarato ufficialmente disponibile per liquidare in pratica (perché di questo si tratta) l'istituto dei referendum abrogativi, quella che fu una delle più avanzate conquiste delle sinistre in sede di Costituente. Tanto più grave è questa profferta in quanto sempre, in questi venticinque anni, il PCI aveva dichiarato che la Costituzione uscita dalla Resistenza era ed è intoccabile e che il solo problema politico che deve interessare le sinistre è la sua effettiva attuazione ed il suo completamento normativo. L'intoccabilità della Costituzione era fino a ieri difesa anche con la tesi che ogni eventuale richiesta di modifica potrebbe aprire il varco a più pericolose e gravi manovre di destra, come l'esempio francese in questi anni è venuto dimostrando. Che l'uscita di Berlinguer sia stata un po' una sorpresa lo dimostra l'infortunio in cui è caduto negli stessi giorni un autorevole parlamentare del PCI, l'on. Spagnoli. Difendendo, in una intervista sul settimanale del dissenso cattol

ico COM, la tesi della revisione del concordato in contrapposizione a quella della pura e semplice abrogazione, Spagnoli affermava che una eventuale abrogazione del concordato avrebbe richiesto, contestualmente, anche una revisione costituzionale. Tale revisione è fermamente respinta dai comunisti - spiegava Spagnoli - in quanto "ci si avventurerebbe in una posizione politica dalle incalcolabili ed imprevedibili conseguenze negative", si aprirebbe il varco, infatti, "alla richiesta di revisione (...) da parte delle forze più interessate ad una sua revisione "in pejus". La spregiudicatezza di Berlinguer è dunque tale da cogliere in contropiede i suoi compagni di partito e da costringerli ad impervie correzioni di rotta.

Ma, soprattutto, è grave che il PCI si apra a queste disponibilità senza avvertire come esse finiscano con l'indebolire tutta la sua strategia complessiva e le ragioni con le quali esso la difende. Perché, dopo questa sortita sui referendum, non ci si potrà più accusare di rievocare fantasmi del passato (cosa che non abbiamo mai, volutamente fatto) quando chiederemo al PCI ed al suo segretario che, revisione per revisione, le forze della sinistra dovrebbero richiedere, in primo luogo, la abrogazione dalla costituzione dell'infausto articolo 7.

 
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