Marco PannellaSOMMARIO: Candidato unico delle sinistre contro De Gaulle alle elezioni presidenziali del 1965, artefice della rifondazione socialista e a lungo segretario del nuovo PSF, fautore dell'unità a sinistra e del programma comune nei primi anni settanta, sconfitto di misura da Giscard d'Estaing alle presidenziali del 1974 e poi due volte vincitore nel 1981 e nel 1988, François Mitterrand è il maggior protagonista della recente vita politica francese. Alla sua azione, soprattutto per l'opera svolta nella rifondazione socialista, i radicali guarderannno a lungo come a un possibile modello.
Nel 1973, nell'imminenza delle elezioni legislative francesi, il direttore dell' "Espresso" invitava Pannella a seguire quell'avvenimento. Le corrispondenze, però, venivano censurate. Quest'articolo è un racconto di quest'episodio, ma contiene anche interessanti valutazioni sulla politica francese e sul modo di fare informazione in Italia.
(La Prova Radicale - Maggio 1973 da " Marco Pannella - Scritti e discorsi - 1959-1980", editrice Gammalibri, gennaio 1982)
E' possibile per un semplice democratico, per un liberale , esercitare con qualche attendibilità e rigore il "mestiere" giornalistico, senza alibi "deontologici" per coprire le compromissioni politiche e civili, e senza alibi politici per coprire le compromissioni deontologiche? Penso di sì, ma penso anche che sia difficile e che non siano facilmente individuabili esempi che comprovino questa possibilità.
Sergio Saviane, da par suo, anche in questo numero di La Prova Radicale, torna a denunciare i meccanismi di autocensura ormai dilaganti. Su un recente numero di Panorama, a proposito della Rai-Tv e del suo sistema ormai planetario (non c 'è stella pur scialba nella nebulosa pubblicistica editoriale italiana che non ne faccia parte), ci viene un altro onesto contributo di conoscenza e di volgarizzazione (cioè di laicizzazione) sulle servitù e le indennità del mestiere giornalistico. L'apologia coraggiosa e fraterna di Giorgio Bocca a favore del pericolante Manifesto (e l'analogo atteggiamento di Livio Zanetti) mostra inoltre che anche fra i nostri maggiori giornalisti c'è ancora chi non dimette la speranza e la volontà di recuperare i valori di libertà e moralità nel settore dell'informazione e del giornalismo professionale, fatto da non sottovalutare e anzi da secondare; anche se, a proposito del Manifesto, sarebbe tempo di fare un più ampio e complesso discorso dal quale potrebbe forse agevolmente ricavarsi
la dimostrazione che la deliberata e lodevole povertà, la rinuncia a compromessi editoriali e politici attraverso la pratica dell'autofinanziamento, non risolvono di per sé il problema che ci sta a cuore: nel Manifesto l'uso della censura, dell'informazione intermittente al servizio delle particolari simpatie personali o di gruppo, dello strumento-giornale come elemento di potere contro le verità della cronaca militante, sono sempre stati presenti e lo sono in misura preminente tutt'ora.
Ci sembra che se continueremo a denunciare il "fascismo" (del tutto inesistente sul piano della prassi) di giornalisti come Enrico Mattei, o a essere ipersensibili a quello, dubbio, di un "paleo-fascista" come Alberto Giovannini, continueremo a produrre quelle grottesche incarnazioni del velleitarismo e dell'ipocrisia davvero neo-fascista o vetero-corporativa che furono, o sono, nella sostanza, il Movimento dei giornalisti democratici dei Ceschia e dei Rocco Pellegrino, dei Manca e La Volpe, dei pennuti radiotelevisivi o realistico-rivoluzionari o mistico-rustici che tanto bene vivono e mangiano insieme, alla faccia dell'onestà giornalistica, della democrazia e della libertà dell'informazione e del cittadino.
Ma un po' fascisti, in verità, lo siamo tutti. E' un fatto di capacità e di inadeguatezze, prima che di buone volontà e di buone fedi.
Avevo pensato, dopo dieci anni di totali dimissioni dalla "professione" remunerata e organica, di poter finalmente accettare, sul piano personale e politico, un rientro nel "giornalismo" ufficiale. Dopo un anno di rinnovata conoscenza, di dialogo più generale, nel gennaio di quest'anno ho infatti accettato l'offerta di Livio Zanetti, direttore dell'Espresso, di seguire come inviato speciale le elezioni francesi e gli eventi successivi. Dieci settimane di prestazione professionale con condizioni finanziarie disastrose per me ma, nel contesto di un accordo pedante e quasi notarile, con la più assoluta libertà da ogni censura e controllo, anche indiretti. A titolo di esempio, e ritenendo, per altro verso, doveroso "informare" sulle dirette, minime certo, ma significative esperienze che accumuliamo sui meccanismi dell'informazione '"democratica", vorrei brevemente raccontare quel che mi è accaduto in questa occasione.
Appena giunto a Parigi, il programma e gli accordi erano già saltati in aria. Da 24 ore era lì, con un denso itinerario di incontri e di interviste, il direttore editoriale del giornale. Mentre il corrispondente da Parigi, l'ottimo e unico Giancarlo Marmori, aveva appreso soltanto da poche ore il nostro arrivo. Disguido "aziendale", certo, superato alla fine con realistici compromessi, ma il guasto era provocato. Il programma saltato. E tuttavia, essendo l'accordo con Zanetti che una delle chiavi di interpretazione sulla "novità" della situazione francese era la rivalutazione motivata e documentata di François Mitterand (ne ero convinto dal l959) e della sua linea politica, rigorosa, pulita, efficace, chiara, laica, democratica, autenticamente socialista, concordiamo di pubblicare, accanto ad altri articoli e interviste sul Partito socialista francese, anche un mio servizio di quattro o cinque cartelle che consenta, senza troppe contraddizioni , l'avvio del discorso critico concordato. Ebbene, il servizio da
un canto viene ridotto di almeno un terzo (i soliti e classici motivi di "spazio"), e dall'altro arricchito di aggiunte compensative. Avevo a più riprese ripetuto con voluta insistenza che Mitterand ' "crede nel socialismo", che "non crede più alla possibilità di uno sviluppo democratico fondato sul capitalismo". Erano interventi deliberati : per contestare il vecchio "cliché" dell'uomo politico trasformista e contraddittorio, ambizioso e furbo, che continua a circolare in quei giorni: perfino Spadolini, sulle colonne della Stampa , sentenzia e trancia moralisticamente, in questa direzione. Da quale pulpito!
Ebbene, la "redazione" dell'Espresso non trova nulla di meglio che censurare ogni accenno polemico contro la denigrazione nei confronti di Mitterand, e, puntualmente, le affermazioni che il leader socialista "crede nel socialismo" o "non crede nel capitalismo" vengono integrate da un subdolo inciso: "ufficialmente". Cosi anch'io mi trovo a firmare un pezzo nel quale si sottolinea con scaltrezza che Mitterand è socialista solo "ufficialmente" e si lascia intendere che nella inconfessata realtà la verità è ben altra. E per non lasciare dubbi su questa brutta verità mi si fa scrivere anche che Mitterand era stato vittima di poco chiare avventure come quella del 'falso' attentato dell' Observatoire. Altra balla,abbastanza ignobile anche se ampiamente diffusa: Mitterand riuscì a non essere vittima, anche moralmente, in quell'ennesimo tentativo di linciaggio, a tal punto che ancora oggi la "giustizia" francese e gollista non ha avuto, a distanza di oltre dieci anni, il coraggio di dar corso ai procedimenti giudizi
ari che Mitterand e la polizia misero in moto.
Così, dopo una decina di giorni me ne torno a Roma: se già in partenza gli "accordi" funzionano in tal modo, meglio abbandonare subito.
Al giornale mi s'accusa di drammatizzare un incidente tecnico, di peccare d'eccessivo e formale rigore, ma tutti , tutti sono d'accordo nel deprecarlo. Mi s'assicura, a ogni livello, che il fatto non si ripeterà in alcun modo, e mi si prega di tornare al lavoro. Cosi torno a Parigi. Scrivo un pezzo piuttosto lungo sul PCF, Marchais e i "nuovi comunisti". Sottolineo le differenze patenti tra PCF e PCI, rovesciando il giudizio corrente: in Italia un partito democratico e liberale, in Francia un partito sclerotico e stalinista, che ha avuto corso per vent'anni. Rilevo che sarebbe comunque, anche in futuro, impensabile che, il PCF si trovi a tal punto corresponsabile di regime da appoggiare incondizionatamente, come fece il PCI nel 1963, l'opera di un personaggio come Eugenio Cefis " . Sull'Espresso la frase viene cosi mutata: Né è pensabile che il PCF possa mai, come può aver fatto in passato il PCI, tollerare l'azione di ambigui personaggi dell'economia pubblica o privata". Da un'affermazione precisa, smentibi
le, ma anche documentabile, firmata, si passa all'allusione, tipica di un certo nostro giornalismo esperto nel dire non dicendo, nell'insinuare non affermando.
Tre settimane dopo invio un servizio conclusivo, di prospettiva. Non comparirà mai. Antonio Gambino s'accorge che vi sono le elezioni francesi e tira fuori un pezzo in cui sostiene esattamente l'opposto di quanto finora pubblicato.
Con un anticipo di una decina di giorni lascio Parigi. Invece delle oltre settanta cartelle concordate, ne sono uscite la metà, in parte manipolate.
Eppure quel che è passato è bastato per sollecitare grosse pressioni politiche cui è indubbio merito di Zanetti d'aver resistito: e alla fine, nonostante tutto, qualcosa è pur stato possibile far "passare" che, senza L'Espresso, non sarebbe circolato.
Perché penso che un episodio cosi marginale, in apparenza cosi povero e personale, valga la pena di essere raccontato? Perché se questo accade all'Espresso, vuol dire che anche numerosi colleghi di questo giornale ritengono certe procedure normali e ineluttabili. Questi colleghi sono, nella stragrande maggioranza, presi uno per uno, sicuramente "democratici" e non di rado più "a sinistra" di me, oltre a essere sinceramente amici e buoni compagni. Allora? Non si tratta, oltre tutto, di fatti nuovi, di tendenze che siano in particolare imputabili all'attuale direttore. Per quasi dieci anni la censura su ogni iniziativa, sul nome stesso del Partito radicale, è stata regola costante. E' con Zanetti, anzi, che i primi segni di disgelo sono venuti fuori. Se con Zanetti gli scontri si sono verificati è perché un minimo di onestà di informazione anche sulle lotte e sulle organizzazioni di conquista dei diritti civili si è fatta strada. Ancora tre anni fa vivemmo una esilarante avventura per un articolo chiestomi su
l divorzio e sulla "mediazione Leone", sugli emendamenti approvati dal Senato: per cinque settimane l'articolo non uscii, per due o tre mi fu pagato, alla fine venne fuori massacrato: "clericale" era pudicamente "democristiano" . e "anticlericale" era diventato "laico" .
Questo oggi, per le discussioni che facemmo, non accadrebbe. Piuttosto non mi si chiede o chiederebbe un articolo. Ed è un progresso. Ma i colleghi e gli amici dell'Espresso non credono che la ' "democrazia" piuttosto che predicarla, conviene viverla? Con Panorama, L'Espresso è forse l'unico settimanale politico che serbi libertà e contraddizioni tali da poter sperare di non essere assorbito dal regime. Ed è certamente un fatto non trascurabile . Ma ci si può contentare di questo? Non ritengono i colleghi dell'Espresso che dovrebbero loro per primi esigere criteri e metodi più rigorosi e onesti nella cucina interna del giornale? Che sia il direttore, o il "legale" onnipresente, o l 'autocensura, non importa. Si tratta semplicemente d'essere coerenti, tanto più che si potrebbe scoprire che all'Espresso questo non comporta necessariamente perdita di tranquillità o svantaggi personali .
Resta da dire , pubblicamente , qualcosa a Livio Zanetti . Non potremmo riconoscere gli indubbi meriti che egli ha guadagnato in questi ultimi anni , se non fossimo altrettanto attenti ed espliciti (e forse più) nel sottolineare quel che non va, e che va mutato.
Se d'una vicenda apparentemente marginale ho ritenuto giusto informare i lettori di La Prova Radicale, è perché siamo in diversi qui a pensare che i mezzi qualificano i fini, almeno quanto è vero l'inverso; che i veri "contenuti" democratici siano dei metodi, piuttosto che delle formule o delle proclamazioni: che i problemi della stampa non s'esauriscono nei più importanti e gravi problemi formali per i quali affrontiamo processi e rischiamo ogni giorno qualche lustro in più di galera. D'altra parte, proprio in questa occasione, ho potuto constatare quanto diffuso fosse il consenso, all'interno dell'Espresso , alle preoccupazioni e alle osservazioni che venivo facendo (e circoscrivibile il dissenso). E' possibile, certo, ch'io paghi questo modo d'agire, ancora una volta, con il permanere d'un ostracismo ferreo, che mi precluda, per altri anni, ogni occupazione "professionale". Peccato, ma non è qui l'essenziale, almeno per noi e per me.
Quel che ci interessa è altro. Speriamo, ad esempio, che L'Espresso cresca: che ci renda possibile, politicamente e personalmente, altro che l'assenza, la distanza, la polemica. Nutrire di verità quest'attesa, cercare di fare sempre il massimo di pulizia proprio lì dove abitiamo (qui, nel PR) o speriamo di poter abitare, e non soltanto nelle sudice case dei Bernabei e dei Monti, o in quelle ipocrite e ottuse dei "puliti" Biagi e Ronchey, è il nostro modo d'essere amici e di nutrire fiducia. Che qualcuno, poi, in via Po, invece s'incazzi e tenti di imporre ancora più veti e censure in particolare contro di noi, è magari probabile: in tal caso, tanto peggio per loro.