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Galli Giorgio - 1 ottobre 1973
Referendum contro il regime (19) Interventi e adesioni: Giorgio Galli

SOMMARIO: Il Partito radicale ha deciso d'indire una serie di referendum popolari: per l'abrogazione del Concordato, delle norme fasciste del codice penale (compreso l'aborto), dei tribunali militari e sulla libertà di stampa e di diffusione radiofonica e televisiva. Giorgio Galli aderisce all'iniziativa referendaria con un articolo in cui contesta le diverse obiezioni avanzate contro il ricorso a questo strumento d'iniziativa popolare da parte di un partito di minoranza. In particolare concorda con la valutazione radicale sulle caratteristiche di "regime" del sistema politico italiano: il "regime" è un sistema politico nell'ambito del quale è praticamente impossibile il ricambio della classe di governo.

(LA PROVA RADICALE, n.10-11-12 agosto-ottobre 1973)

PROVIAMO I REFERENDUM PER L'ALTERNATIVA

di Giorgio Galli

Un lettore del settimanale ufficiale della DC "La discussione" ha recentemente paragonato l'iniziativa del partito radicale al "ruggito del topolino", con evidente riferimento al famoso film "il ruggito del topo" (protagonista Peter Sellers). Scrive dunque il dottor Francesco Marinucci (Roma):

"in questo nostro bel paese è sufficiente che un topolino si metta a ruggire e subito tutti, senz'altro, avranno paura del leone... Si scopre che questo partito riscuote l'adesione di ben 1.500 persone, anzi ci si ricorda che qualche tempo fa fu assalito dal dubbio di non arrivare nemmeno a 1.000. Qualcosa vorrei dire sull'abrogazione delle leggi incostituzionali. Mi pare infatti di ricordare che questa sia una funzione che la Costituzione, sempre da tutti citata, attribuisce alla Corte Costituzionale. A questo punto i casi sono due: o costoro, non avendo fiducia in questa suprema magistratura, vogliono esautorarla per sostituirsi ad essa. Oppure solo essi, in quanto 'unti' da una particolare perspicacia, sono in grado di giudicare ciò che è nella costituzione e ciò che ne è fuori".

Mi pare giusto parlare di questa iniziativa proprio prendendo in considerazione le osservazioni del dott. Marinucci, che probabilmente è un iscritto di base della DC. Non vorrei infatti essere da meno dei dirigenti di questo partito, che come è noto tengono nella massima considerazione i pareri anche dei più semplici tra i loro quasi due milioni di iscritti.

La mia adesione all'iniziativa è quella di una persona che, secondo la definizione dei promotori, crede di essere "autenticamente liberale". Dal punto di vista dello studioso politico, il discorso che sviluppo si collega a quello già presentato in questa rivista a proposito delle possibilità di una "alternativa": Ritengo quindi che l'iniziativa non vada al di là della proposta di utilizzare in senso riformatore le istituzioni di un Paese le cui caratteristiche economiche sono quelle di un capitalismo a forte intervento pubblico e le cui caratteristiche politiche sono quelle di una democrazia rappresentativa limitata da alcuni tratti di "regime".

Questa democrazia rappresentativa è stata contraddistinta, nella sua storia, dalla difficoltà di costituzione di un grande e moderno partito laico-borghese. E' un fenomeno studiato e le cui ragioni, nel passato e nel presente, sono state investigate.

Questo fenomeno spiega perché non un partito di ispirazione laica, bensì la DC, sia stata il centro di aggregazione di quel ceto sociale: "Se si tiene presente la larga rappresentanza dei lavoratori autonomi, delle casalinghe e dei dipendenti pubblici si può affermare che la grande maggioranza degli iscritti della DC è costituita da categorie piccolo borghesi o da categorie con mentalità, ideali ed interessi riconducibili a quelli della piccola borghesia... L'esame dei voti conferma che la DC ha una composizione dell'elettorato per classi sociali che riflette meglio degli iscritti i rapporti di classe esistenti nel Paese; in particolare, mentre viene confermata la forte incidenza della piccola borghesia, però nelle sue componenti più moderne, si avverte una incidenza molto maggiore... della classe operaia e in particolare dei lavoratori dell'industria". Questa la valutazione dell'on. Luciano Radi tratta da una indagine presentata in occasione del congresso della DC.

In realtà dall'indagine risulta che l'origine sociale dei voti è ipotetica, né potrebbe essere diversamente, dato lo stato delle ricerche sociologiche in Italia. Il riferimento è l'opera di Paolo Sylos Labini "Sviluppo economico e classi sociali in Italia". L'ipotesi è che l'elettorato della DC sia per metà borghese e per metà di lavoratori salariati. Che la piccola borghesia che vota DC sia la più moderna, è intuizione dell'on. Radi che le ricerche elettorali ecologiche (mi riferisco a quelle dell'Istituto Cattaneo di Bologna) non confermano per nulla.

Questo tipo di insediamento sociale della DC e quello parallelo del PCI soprattutto nella classe operaia, ci spiega perché sia tanto difficile attuare quella norma della Costituzione che mette a disposizione dei cittadini italiani l'istituto del referendum. Infatti --a quanto asseriscono studiosi e conoscitori del mondo cattolico-- il gruppo che a promosso il referendum contro il divorzio è stato a lungo fermo al livello delle 300.000 firme, prima che l'appoggio (a mio avviso tattico e strumentale) di una parte dell'apparato ecclesiastico abbia fatto loro fare il grande balzo in avanti di un milione di firme. E, parallelamente, la sostanziale ostilità del PCI al referendum promosso da minoranze di sinistra per l'abolizione di alcuni articoli del codice penale ha fatto raggiungere all'incirca le stesse adesioni toccate dal comitato antidivorzista prima dell'intervento di cui si è detto.

In queste condizioni, l'iniziativa degli amici radicali per raccogliere cinque milioni di firme appare più emblematica che realistica e si presta all'ironia del dott. Marinucci. Personalmente riterrei un risultato significativo raccogliere almeno mezzo milione di firme per un solo referendum. Ma proprio l'apparente velleitarismo dell'obbiettivo sottolinea quella contrapposizione tra "repubblica costituzionale" e "regime" che è all'origine dell'iniziativa. Che vi siano, infatti, almeno dieci referendum da fare per attuare la costituzione, è l'indice delle caratteristiche di regime che ha realizzato la costituzione "materiale" degasperiana (derivo l'espressione dal qualificato giurista cattolico Leopoldo Elia), sovrapposta alla costituzione formale votata dall'assemblea costituente.

Che cosa è un regime? Gli scienziati politici possono affannarsi sulla definizione e non è detto che trovino un accordo. Personalmente ritengo che un regime sia un sistema politico nell'ambito del quale sia praticamente impossibile il ricambio della classe di governo pur nell'ambito delle regole della democrazia rappresentativa quali ho cercato di individuare nel precedente scritto in questa rivista.

Sotto questo profilo, il sistema politico italiano non è certamente un "regime" come quello fascista o quelli attuali della Spagna, del Portogallo e della Grecia. Ma è un regime nella misura in cui la DC è partito permanente di di governo da un trentennio. Personalmente, come "autentico liberale", penso che questa situazione abbia nuociuto alla stessa DC, ottundendone le caratteristiche dinamiche che essa ha manifestato sino all'inizio degli anni sessanta, pur nell'ambito di una strategia sostanzialmente moderata.

In ogni caso, il nostro sistema politico ha tratti di regime nella misura in cui la costituzione materiale mantiene il ricambio della classe di governo nettamente al di sotto del limite fisiologico. Indice di questo limite: il centro-sinistra era partito dieci anni fa per fare dell'Italia un paese compiutamente europeo ed ora trae vanto dal riuscire ad assicurare la pastasciutta agli italiani. La costituzione materiale --dunque-- entrata in vigore il 18 aprile 1948, ha il suo punto di forza nella impossibilità del PCI di concorrere a formare una alternativa alla classe di governo. Questa situazione di fatto è definita dalla DC "minaccia comunista", da allora sino alle recenti dichiarazioni (tattiche e strumentali) dell'antico neo segretario del partito: "i nuovi compiti che oggi si pongono alla DC sono imposti... dal duplice assalto sferrato dall'estrema destra e dall'estrema sinistra. I due assalti devono essere fronteggiati e respinti in coerenza con i nostri ideali... e, per quanto riguarda la pe

rmanente minaccia rappresentata dal comunismo, nella consapevolezza della insanabile contrapposizione ad esso nelle nostre concezioni del mondo, dell'uomo e della società".

In conseguenza di questa posizione, non solo la costituzione materiale si è sovrapposta alla costituzione formale, ma questa costituzione formale è stata violata in misura che si è andata facendo via via sistematica.

Si sono indette elezioni insediando un tipo di governo che si sapeva a priori che no avrebbe ottenuto la fiducia; si è governato con decreti legge fuori dei casi di necessità ed urgenza previsti dalla costituzione; si sono conferite al governo immense deleghe legislative delle quali neanche ha saputo servirsi; si è ricorsi a gherminelle giuridiche per non svolgere un referendum chiesto da oltre un milione della stessa DC.

Ma per questo, ha scritto il dott. Marinucci, c'è la corte costituzionale. Certamente. Ma la corte costituzionale si pronuncia con un ritardo al quale non è estranea la sua composizione politica. E quando si pronuncia, i giochi sono già fatti. Il ministro Gioia, che ha violato l'art.21 della costituzione, è stato fatto ministro per i rapporti col parlamento; e quando la corte si pronuncerà la questione della tv via cavo sarà stata risolta di fatto limitando il diritto dei cittadini.

Quando poi la corte si pronuncia, come nel caso dei fitti rustici, i rappresentanti del sistema politico disattendono le sue decisioni, prorogando le norme definite incostituzionali.

Il bello è che queste procedure incostituzionali sono rese possibili dalla accondiscendenza dello stesso PCI, presentato come una minaccia permanente alle istituzioni. Stà sentendo il dottor Marinucci le strida del PCI per i 250 miliardi regalati ai super-burocrati? Questo decreto fu registrato con riserva dalla Corte dei conti (al di là dei ben noti interessi corporativi) perché il governo aveva violato le indicazioni della delega fattasi conferire dal parlamento, disponendo nuovi criteri retributivi e di funzionamento senza abbinarli alla riforma funzionale della pubblica amministrazione, come la delega prescriveva. Questa sostanziale-violazione della costituzione traducentesi in un danno per l'erario (250 miliardi) e in gravi implicazioni per il futuro (ulteriore difficoltà di funzionamento e di organizzazione della pubblica amministrazione) avrebbe consentito ad una opposizione combattiva di costringere il governo a ritornare sulle sue illegittime decisioni. Così non è stato.

Quindi abbiamo, oltre che la minaccia, anche la benevolenza del PCI a sostegno di una costituzione materiale che contraddice alla costituzione formale (quella voluta dalla costituente). E per completare il quadro non si vogliono fare i referendum che pure escluderebbero il tradursi della "minaccia comunista" da potenziale in attuale.

Infatti, perché la DC è destinata a governare sempre? Perché una alternativa di governo comprendente il PCI metterebbe in pericolo la nostra democrazia. Il PCI si impadronirebbe dei ministeri chiave e preparerebbe all'Italia il destino della Cecoslovacchia. Ma il referendum non implica questa terribile prospettiva. Il referendum derime una singola questione senza comportare cambio di governo. Permetterebbe, in ipotesi, di mettere in minoranza la DC nel paese senza implicare l'arrivo dei carri armati russi in Piazza S.Pietro. E allora perché non si è fatto il referendum sul divorzio?

Perché, ha sostenuto, col PCI, gran parte della sinistra, il referendum spaccava in due il paese su un problema particolarmente delicato. Ma in realtà tutti i referendum dividono in due l'elettorato (o il paese) su problemi delicati. Se i problemi non fossero delicati e non dividessero nettamente tra favorevoli e contrari, i referendum sarebbero inutili, mentre la nostra costituzione li prevede espressamente (anche se ci sono voluti oltre vent'anni perché l'istituto fosse reso prevalentemente realizzabile).

In realtà, né la DC né il PCI vogliono referendum perché essi sancirebbero una semplificazione della lotta politica dopo un periodo di tensione che essi non desiderano. Se non si può cambiare governo --sostiene la DC-- perché ciò favorirebbe la minaccia comunista, non si possono fare nemmeno i referendum --sostiene il PCI-- perché ciò favorirebbe la minaccia fascista. In particolare il referendum sul divorzio creerebbe nel paese un blocco clerico-fascista che metterebbe in pericolo la nostra fragile democrazia: Questa la posizione di Berlinguer nell'ultimo comitato centrale del PCI, che ha anche benevolmente irriso all'ottimismo di Lucio Lombardo Radice, secondo il quale la maturità dell'elettorato italiano ed anche dei cattolici italiani è ormai tale, che si può svolgere un referendum senza che esso diventi una specie di giudizio di Dio.

Dopo aver citato testualmente il segretario della DC, è giusto fare altrettanto con quello del PCI: "non esistono nel nostro Paese possibilità di governi conservatori per così dire 'normali', che cioè non tendano più o meno rapidamente a diventare reazionari: sono sempre abbastanza esigui in Italia i 'margini di sicurezza' del regime democratico... Il compagno Lombardo Radice mi pare abbia una visione un po' idilliaca di quello che sarebbe lo scontro sul divorzio nella effettiva realtà politica italiana. Di fronte all'impegno massiccio di forze fasciste, reazionarie e anche clericali, noi saremmo costretti non certo a reagire sul terreno dell'irrazionalità e dell'anti clericalismo, ma indubbiamente a impegnarci in un duro scontro politico perché sarebbero in ballo valori fondamentali che noi vogliamo difendere come la sovranità del Parlamento e la laicità dello Stato".

Sono, quelle di Fanfani e Berlinguer, le più recenti battute di un leit-motiv trentennale: le minacce parallele del comunismo e del clerico-fascismo giustificano un regime di democrazia protetta.

Chiarisco: concordo con Berlinguer nel ritenere che il referendum sul divorzio sarebbe un duro scontro politico; aggiungo che se il PCI e la sinistra ritengono --come affermano-- che il tema del divorzio non è il più indicato per un referendum, dovrebbero indicare "quale" è il tema più indicato; il fatto che vi sia stata una opposizione di fatto all'iniziativa della raccolta delle firme su altro tema, sembrerebbe suggerire che "ogni" argomento non è adatto ad un referendum e che quindi si tenta di evitare l'applicazione dell'istituto in quanto tale; per smentire questa interpretazione, la sinistra potrebbe impegnarsi a fondo per "almeno uno" dei referendum proposti dai radicali. Ma se la sinistra parlamentare ed il PCI vogliono evitare "qualunque" referendum, allora significa che ritengono ogni referendum suscettibile di trasformarsi in un duro scontro politico e che evitando il referendum si vuole evitare --appunto-- un duro scontro politico. E le democrazie che evitano duri scontri politici sono --app

unto-- democrazie protette.

Le elezioni, in Italia, con questo sistema politico ed elettorale, non consentono alcuno scontro politico. Che scontro politico è quello che consente ad un partito (la DC) di riuscire comunque confermato al governo? In realtà in Italia, le elezioni servono soltanto per scegliere quali alleati la DC privilegi a seconda di spostamenti elettorali all'incirca del due e mezzo per cento.

Evidentemente, elezioni il cui solo scopo è favorire la scelta di alleati al partito comunque al governo, non rappresentano uno scontro politico, né duro, né molle. Costituiscono una cerimonia costosa ed inutile nella misura in cui non concorrono a quella dialettica di democrazia rappresentativa quale ho qui tratteggiato nel precedente articolo e che stimola la dinamica del sistema precisamente attraverso duri scontri politici: "politici" (nel senso che non comportano l'uso sistematico della violenza); ma "duri": nel senso che il consenso sia richiesto su programmi e impostazioni alternative. Se la democrazia rappresentativa non è questo, non è nulla; ora si tratta di vedere se la società italiana è matura per questo tipo di democrazia rappresentativa, oppure se è matura solo per una sua parodia, per una democrazia protetta che garantisce le libertà fondamentali, ma non perché siano utilizzate per la crescita socio-culturale e per lo sviluppo sociale, ma solo per la soddisfazione degli intellettuali che

possono scrivere e discutere o per la tutela di diritti fondamentali, ma settoriali, il più importante dei quali è la contrattazione sindacale (che definisco settoriale nel senso che i sindacati stessi attribuiscono le opzioni di fondo non a se stessi --il così detto pansindacalismo-- ma ai partiti; ché se i sindacati volessero farsi i soli interpreti di tutte le esigenze di rinnovamento sociale --come fu loro attribuito nel 1969/70-- si aprirebbe un nuovo discorso, che andrebbe al di là delle nostre norme costituzionali così come nel funzionamento effettivo del nostro sistema politico).

Ho detto: "si tratta di vedere se la società italiana è matura" per una democrazia rappresentativa protetta, parziale, limitata, oppure per una democrazia rappresentativa completa, nella quale siano possibili autentici, duri scontri politici.

Ora, chi può decidere il grado di maturità di una società? Il dottor Francesco Marinucci è evidentemente del parere che lo debbano decidere in primo luogo la DC; e in secondo luogo gli altri partiti. Se la DC e gli altri partiti ritengono che l'Italia sia matura solo per il tipo di democrazia protetta (e non costituzionale) che ho descritto, ai cittadini non rimane che prendere atto di questa valutazione. Il fatto che oltre dodici milioni di italiani votino per la DC, che vi sia una partecipazione alle elezioni del 90% degli iscritti alle liste, sono altrettante conferme che questo sistema è gradito alla quasi totalità degli italiani. Come possono pretendere un migliaio di radicali ed alcuni intellettuali di mettere in discussione la volontà di quasi tutti gli altri cittadini?

In realtà, a me pare che l'attuale assetto istituzionale goda in Italia del consenso cosciente di una parte di cittadini, dell'accettazione passiva di un'altra larga parte; ma che l'organizzazione dei partiti --per valutazione di coloro stessi che vi militano, alla base, con più impegno e con maggior disinteresse-- è soggetta a tali deformazioni oligarchiche da escludere che essi rappresentino effettivamente non solo il grado di maturità del Paese, ma persino il grado di maturità dei loro iscritti. Per evitare tutte le citazioni che una lunga serie di studi in proposito renderebbe possibile, mi limito a segnalare che la critica alla "oligarchia" (testuale) che dirige la DC è stata a lungo un tema di fondo dello stesso direttore de "La discussione" (Bartolo Ciccardini) e dei suoi amici.

Quindi, se non solo i partiti hanno il diritto di essere i giudici e gli arbitri del grado di maturità del Paese, della sua capacità o meno di essere all'altezza di duri scontri politici senza precipitare nella guerra civile o nella rassegnazione di fronte a regimi autoritari di carri armati (russi) o di colonnelli (greci), credo che il dottor Francesco Marinucci possa essere d'accordo nell'ammettere che un giudizio più positivo di quello dei partiti parlamentari sul grado di maturità della società italiana possa essere espresso anche da movimenti di opinione.

Questi movimenti hanno un preciso strumento --previsto dalla costituzione, anche se attuato con molto ritardo-- per valutare se sia più esatto il loro giudizio o quello dei partiti parlamentari. Questo strumento è il referendum.

Si può a lungo disquisire --in sede di scienza politica-- sulle origini e sul significato di questo istituto. Si può supporre che il suo carattere di conflitto a somma zero, come dicono i politologi (cioè: o si vince, o si perde; non ci sono mediazioni o soluzioni intermedie) possa giovare a regimi autoritari o plebiscitari, dai bonapartismi ai gollismi passando per i fascismi degli anni trenta. O si può ritenere che esso sia uno strumento delle democrazie più evolute ed antiche, da quella svizzera a quelle scandinave (mentre un referendum sull'adesione inglese al MEC era richiesto, per esempio, dai laburisti).

Personalmente non escludo che in una fase iniziale di applicazione il referendum possa favorire l'evoluzione di un sistema politico in senso deresponsabilizzante e plebiscitario; in seguito, la sua normale applicazione favorisce la partecipazione popolare e la sua responsabilità nelle scelte. In base a questo giudizio, dunque ritengo che per divenire sempre più democrazia e sempre meno plebiscito, sempre più partecipazione e sempre meno delega, sempre più responsabilizzazione e sempre meno deresponsabilizzazione, il referendum debba cominciare a diventare pratica corrente. Ma "cominciare", appunto.

Questo giudizio in sede di scienza politica --comunque-- si collega a quella che è una precisa realtà della nostra costituzione. Già sistematicamente violata, come ho dimostrato. In questa costituzione stà scritto che il referendum è un diritto dei cittadini sancito dai loro rappresentanti in sede costituente. Quando quindi i movimenti di opinione chiedono il referendum come prova della maturità del paese, sono i difensori della repubblica costituzionale; i "soli" difensori della repubblica costituzionale.

I sostenitori della arretratezza culturale degli italiani, coloro che ritengono che i referendum aprano la strada, attraverso duri scontri politici, all'autoritarismo (di vario tipo), possono invocare un metro di giudizio diverso della bontà della loro opinione (per esempio le elezioni come sopra descritte), solo violando per l'ennesima volta la costituzione (antifascista e nata dalla Resistenza) alla quale sempre (e ipocritamente) si richiamano.

Ragioni di sostanza e di forma; di scienza politica e di impegno civile; di analisi politica e di correttezza costituzionale, fanno oggi del referendum (della possibilità del referendum) un banco di prova delle possibilità di sviluppo della democrazia rappresentativa in Italia. Se si vuole evitare questo banco di prova, la trasformazione della repubblica costituzionale in regime di democrazia protetta tende a diventare irreversibile.

Per verificare questo assunto, si può tentare di costruire possibili scenari, sempre per riferirmi alla metodologia dei politologi. Cominciamo da uno scenario attinente al passato.

Ho già detto come, a mio giudizio, hanno potuto essere raccolte le firme per il referendum abrogativo del divorzio. Esse, una volta raccolte, legittimavano comunque tutti i cittadini ad effettuare il referendum. Per evitarlo si sono sciolte le camere. Si è affermato che un referendum effettuato nella primavera del 1972, dopo ol'ondata di destra dell'estate precedente, avrebbe sancito la vittoria di un blocco clerico-fascista. Supponiamo che questa ipotesi risultasse confermata. Il divorzio sarebbe stato abrogato. Dopo di che si sarebbero svolte le elezioni alla regolare scadenza (primavera 1973). Che tipo di campagna elettorale antifascista avrebbe potuto condurre la DC dopo l'esperienza e il risultato precedente? E senza una campagna elettorale antifascista (quale condusse al nord nel 1972) quali risultati avrebbe conseguito la DC, soprattutto nei settori popolari ed operai del suo elettorato?

Che cosa è invece avvenuto? Che per evitare il referendum si sono anticipate le elezioni; che per consentire alla DC il recupero di un paio di percentuali di punti del suo elettorato moderato, si è protratta per un anno e mezzo un'esperienza di governo (Andreotti) limitata a questo solo scopo; che si è bloccato per due anni il processo decisionale in un periodo nel quale l'evoluzione del nostro sistema economico nell'ambito di quello internazionale in fase di modificazione avrebbe richiesto tempestivi interventi. Siamo egualmente arrivati all'autunno del 1973, senza nessun confronto chiarificatore, beandoci di un centro-sinistra che ha assicurato la benzina e la pastasciutta ai gitanti di Ferragosto.

Scenario futuro: per evitare il referendum sul divorzio (sempre quello!) si dovrà bloccare il parlamento per un certo periodo di tempo, obbligandolo (attraverso i partiti) ad una soluzione che violerà ancora una volta la costituzione. Si introdurranno modifiche di lieve portata alla legge Fortuna-Baslini, modifiche che di per sé non implicherebbero la decadenza della richiesta di referendum. Dopo di che si troveranno giuristi compiacenti (e forse uno particolarmente illustre) che definiranno essenziali le modifiche e quindi decaduta la richiesta di referendum.

Questo scenario è l'intenzione attuale (agosto 1973) di tutte le maggiori forze politiche. Ma per la vischiosità del nostro sistema, l'attuazione di questo progetto sarà lenta e difficoltosa, si intersecherà con la politica economica e coi problemi dell'università, si trasformerà in una serie di patteggiamenti e di baratti che eviterà il duro scontro politico a prezzo di un ritardo e di un peggioramento nelle soluzioni (già insufficienti e parziali) di molti problemi. La violazione della costituzione si accompagnerà ad un ulteriore deterioramento del processo decisionale in un periodo che vedrà accentuarsi il distacco dell'Italia dalla dinamica del sistema economico internazionale. Si saranno così create le basi tanto strutturali (difficoltà economiche) quanto sovrastrutturali (violazioni costituzionali e degenerazione politica) di un consolidamento del regime di democrazia protetta.

E' a questo punto che mi pare l'iniziativa di far presente al sistema politico, ai suoi partiti parlamentari, alle oligarchie che li dirigono, che liquidato (in quel modo!) il problema del referendum sul divorzio (presentandolo come una vittoria della famiglia sana e cristiana e nel contempo come una sconfitta del clerico-fascismo), c'è il rischio che non abbiano liquidato il problema del referendum, se nel frattempo si verificherà l'esistenza di centinaia di migliaia di cittadini disposti a richiederlo.

Credo che questo, come scrivevo all'inizio, sia il punto sul quale il dottor Francesco Marinucci può dimostrare di avere ragione. Se gli italiani giungessero al livello di maturità che voi supponete --potrebbe osservare il dottor Marinucci-- sarebbe agevole raccogliere cinquecentomila firme per ciascun referendum anche senza la presenza di quel forte apparato di insediamento sociale che caratterizza i cattolici ed i comunisti. Se senza questo apparato le firme non sono raccoglibili, significa che la maturità democratica che voi ipotizzate non esiste e l'ulteriore verifica del referendum è perfettamente superflua.

L'obbiezione è seria. E' forse schematica, poco dialettica, ma seria; il solo modo di superarla è di ottenere le firme; di dimostrare che --indipendentemente dall'organizzazione partitica e dalle tradizioni di insediamento sociale --vi è almeno un italiano su cento, un elettore italiano ogni sessanta, che sia disposto ad utilizzare i diritti che la costituzione gli assicura. Proviamo.

 
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