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Liberazione - 14 ottobre 1973
PENSIONI: NIENTE RIFORMA, ALTRA ELEMOSINA
Malgrado le »grandi ire di La Malfa i sindacati sono riusciti ad allargare di qualche misura, senza strapparla, la coperta delle pensioni. Ma è troppo poco: un'elemosina non vale una riforma. Senza una seria iniziativa politica che abbia come obiettivo iniziale sia l'ancoraggio delle pensioni agli stipendi che l'unificazione degli enti previdenziali si »razionalizza soltanto il neocorporativismo fanfaniano.

SOMMARIO: Critica gli accordi raggiunti tra il governo di Fanfani e le confederazioni sindacali in tema di pensioni; in particolare, si rileva che gli aumenti, e in generale i benefici, conseguiti dai lavoratori tendono a configurare - col cedimento anche di La Malfa - non già le realizzazioni di un moderno "welfare State", ma la "caricatura corporativa di uno Stato capitalistico". Fanfani ha operato solo in vista di vantaggi elettorali, senza preoccuparsi di avviare contestualmente una vera riforma del sistema pensionistico che porti l'Italia ai livelli delle socialdemocrazie europee. Insomma, certe giuste preoccupazioni di La malfa, come certe "sacrosante" richieste sindacali, corrono il rischio di restare "nell'orbita" del "corporativismo fanfaniano". La verità è che Fanfani ha anticipato l'iniziativa dei socialisti e dei sindacati per mantenere le "riforme" "nei limiti di compatibilità del regime".

(LIBERAZIONE, 14 ottobre 1973)

Dieci ore di trattative fra governo e sindacati. I due giorni precedenti occupati da una serie convulsa di contatti, incontri, colloqui fra i ministri e fra i partiti della maggioranza. Una battaglia condotta a colpi di comunicati, di note di agenzia, di editoriali della »Voce Repubblicana . De Martino che si incontra con Rumor. Fanfani che convoca nel suo studio, secondo una prassi che sembra ormai consolidarsi, i ministri finanziari, fra cui lo stesso La Malfa che oltre ad essere ministro del tesoro è anche segretario di un altro partito della maggioranza. E aveva, oltre tutto, sollecitato l'onore dell'incontro. Ancora Fanfani che, nel momento stesso in cui i rappresentati del governo si riuniscono con i rappresentanti delle confederazioni, fa trasmettere dalle agenzie una dichiarazione in cui invita Rumor e i ministri a raggiungere l'accordo.

Il risultato di questo braccio di ferro è stato: l'aumento dei minimi di pensione per gli ex lavoratori dipendenti a 42.950 lire e a 34.800 lire per gli ex lavoratori autonomi; l'aumento a 25.850 lire per le pensioni sociali; l'accettazione del principio dell'agganciamento alla dinamica salariale nella misura del 27,79 per cento della media dei salari industriali; indennità di disoccupazione portata a 800 lire giornaliere e assegni familiari portati a 8.000 lire per il coniuge e per ciascun figlio.

La Malfa ha dunque ceduto. Sul leader repubblicano, depositario degli equilibri finanziari di uno stato che è la caricatura corporativa di uno stato capitalistico, si sono dirette e sommate due pressioni convergenti: quella riformatrice dei socialisti e delle forze sindacali e quella demagogica e popolista di chi - oggi Fanfani come il Peron, o ieri, il Mussolini - non vuole le riforme ma solo trarre vantaggio dalla distribuzione di una massa più o meno consistente di benefici e condizionamenti assistenziali. Le due preoccupazioni si sono intrecciate nelle polemiche di questi giorni e si intrecciano anche nella stessa definizione conclusiva dell'accordo raggiunto a Palazzo Chigi.

Che Fanfani abbia voluto imprimere il suo marchio su questi provvedimenti è più che comprensibile: solo considerando gli ex lavoratori dipendenti sono circa otto milioni e mezzo (su poco più di dieci milioni) i pensionati interessati all'aumento dei minimi di pensione, appartenenti nella loro stragrande maggioranza alla massa degli sfruttati, dei proletari e dei sottoproletari di questo paese. L'aumento degli assegni familiari, un istituto che sembrava destinato a scomparire, rientra decisamente nel quadro degli interventi soltanto assistenziali: recherà benefici inconsistenti ai lavoratori del nord, sarà invece importante, data la differenza dei livelli di reddito, per quelli del sud, ma nel complesso comporterà un onere per lo Stato sproporzionato ai benefici che le masse ne ricaveranno. Nella stessa logica si iscrive l'indennità di disoccupazione: non si campa con 800 lire come non si campa con 400. La cassa per l'integrazione guadagni e le lotte per difendere e conquistare il posto di lavoro rimangono pe

rciò le uniche leve per combattere la disoccupazione.

Lo stesso aumento delle pensioni o è di per se, già, per le modalità in cui si attua, l'avvio di una riforma che si indirizzi verso il raggiungimento di un sistema di sicurezza sociale, o può rivelarsi un'ennesima elemosina che sarà spazzata via ben presto dal declino del valore della moneta.

Le cifre concordate, e la stessa percentuale di aggancio alla media dei salari dell'industria, sono ben lontane dall'assicurare il minimo vitale necessario per vivere che uno Stato e una moderna società industriale dovrebbero assicurare a tutti i lavoratori.

Quale di queste due logiche prevarrà? Se teniamo conto di ciò che avviene e di ciò che si sostiene nei vertici della sinistra italiana, dobbiamo dire che sarà la logica fanfaniana delle concessioni di regime alle masse lavoratrici a prevalere. Non si arriva alla sicurezza sociale, alla riforma sanitaria, al welfare state, in una società industriale, senza smantellare le organizzazioni corporative (e quindi le mutue e l'Inps) e senza modificare profondamente in senso egualitario l'intero sistema distributivo, azionando in pieno le leve fiscali.

E' la strada percorsa dalle socialdemocrazie europee, a cui si possono rivolgere tutte le critiche che si vogliono, ma di cui non si possono disconoscere i risultati e le conquiste che hanno raggiunto, sia pure nel quadro di una razionalizzazione anche produttiva del sistema capitalistico. Ed è una strada che per essere battuta con successo comporta oggi una scelta socialista almeno a livello delle sovrastrutture del sistema distributivo se non a livello delle strutture. E una strategia di »alleanze di classe che sia coerente con questa scelta socialista.

Le preoccupazioni di La Malfa sulla tenuta del bilancio dello Stato sono sempre serie e giuste e sacrosante, tranne che per una certa tendenza a ignorare le effettive esigenze di progresso e di umanizzazione dell'economia. Le richieste dei sindacati, il loro tentativo di allargare i margini della partecipazione dei lavoratori ai vantaggi della società industriale, sono certamente sinceri e anch'essi sacrosanti. Ma le prime (di La Malfa) come i secondi (dei sindacati) non contengono scelte e approfondimenti seri da questo punto di vista: possono correre il grave rischio di collocarsi e rimanere nell'orbita dell'egemonia - politica e ideale - del corporativismo fanfaniano.

Lo stesso discorso vale per i problemi della salute. Dopo le pensioni, l'»attivismo del segretario della DC ha messo infatti sotto pressione il governo Rumor anche per la riforma sanitaria.

Fanfani non intende subire, come nel '69 e nel '70, l'iniziativa dei socialisti e dei sindacati, ma l'anticipa per mantenere le »riforme nei limiti di compatibilità del regime, cioè di semplici aggiornamenti che mantengono le situazioni di potere e di sfruttamento esistenti.

 
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