Marco PannellaSOMMARIO: Vivace, efficacissima narrazione di alcuni episodi, relativi a violazioni di domicilio e vere e proprie "perquisizioni" compiute evidentemente - sotto l'apparenza di furti - dai "servizi segreti" in casa di Marco Pannella a Via della Panetteria e dei suoi genitori, in via Collalto Sabino: "Da dieci anni...si cerca di colpirmi, innanzitutto, attraverso coloro che amo, che sono le mie amicizie, colpendo loro per giungere a me".
(LIBERAZIONE, 25 ottobre 1973)
E' ormai da dieci anni che le polizie parallele operano apertamente, cercano di intimorire e ricattare i militanti radicali. Nei giorni scorsi l'abitazione di Pannella è stata scassinata e rovistata dai servizi segreti, più o meno pubblici, come avevano già fatto esattamente un anno fa. Una lunga catena di abusi, di furti, di controlli, di sostanziale violenza.
La piena continuità fra regime del Partito Nazionale Fascista e quello della Democrazia Cristiana. Quando e perché non si è disarmati da questi esemplari metodi autoritari.
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Alle 11 di domenica sera ero in redazione, solo, potendo finalmente rispondere ad alcune delle lettere accumulatesi senza risposta nell'ultimo mese, assaporando anche silenzio e serenità subentrati dopo la sospensione delle nostre pubblicazioni quotidiane. Pensavo anche al caso di Giovanni Marini, a quello di Gianfranco Corti; e riflettevo, poi, alle intollerabili notizie seguite alla scoperta del microfono-spia nell'ufficio del giudice Squillante, al successivo comunicato della procura generale sulla regolarità della presenza del furgoncino del SID nella zona.
Chiamai Franco De Cataldo e, a lungo, come ci accade ormai da vent'anni, conversammo, confrontammo idee, impressioni, ascoltai i suoi consigli e le sue spiegazioni. Franco mi ricordò la visita notturna che era stato costretto a farmi in questi giorni, lo scorso anno, quando, tornato a sera in via della Panetteria dove abito di frequente, dopo più di venti giorni di digiuno per ottenere il voto della legge sugli obiettori e di quella »Valpreda , avevo trovato la porta scassinata e grande confusione all'interno. Dovunque potevano essere lettere, documenti, indirizzi avevano rovistato, in un ambiente senza elettricità usando candele; in due grandi borse, che mancavano, avevano evidentemente ammucchiato tutto quel che di privato sembrava loro potesse essere significativo ed interessante e l'avevano portato via. Null'altro mancava. Scesi - doveva essere già passata mezzanotte - per telefonare a Franco, che venne naturalmente subito.
A partire da Corti, Marini, Squillante
V'erano altri segni, incomprensibili. Un letto sicuramente rifatto, la mattina, era ora in disordine, come usato. Anche cassetti con biancheria erano stati rovistati. Sorrisi alla sua proposta di chiamare la polizia: l'una o l'altra di queste erano già passate. Perché invitarle di nuovo? Chi: l'ufficio politico di Provenza, i carabinieri di Servolini? Cosa avevamo fatto negli anni precedenti, in occasioni analoghe? Quando apprendemmo, nell'aprile o nel maggio del 1964 che nel bilancio ufficiale dell'AGIP risultavano versate manciate di milioni (se ben ricordo a Tom Ponzi) per »indagare sul mio e nostro conto, perché aiutasse il gruppo del colonnello Rocca, degli uomini di Allavena, che già erano mobilitati in questa direzione, nel corso della nostra campagna contro gli illeciti finanziamenti alla stampa ed ai partiti da parte di Mattei e di Cefis? O quando, nello stesso periodo, s'era cercato di raggiungere una delle segretarie di De Cataldo, a qualsiasi prezzo, poiché pensavano che era lì che avrei probabi
lmente steso un memoriale per la procura generale della repubblica? O quando, ancora, i portieri delle abitazioni erano regolarmente visitati e »interrogati ? Più di recente, cosa avevamo fatto, ancora, quando una hostess dell'Alitalia, ospitata un pomeriggio per un suo incontro sentimentale, era stata poi invitata così categoricamente, e anche in modo così allettante, a »lavorare per il SID, »lavorandomi , spiandomi, »provandole - a lei allibita - quale mostro e depravato fossi, sicché, dopo poco, aveva lasciato con un forte esaurimento nervoso il suo lavoro? E le oggettive minacce, le larvate ma eloquenti persecuzioni ad amici, colpevoli solo di essere tali?
E quante volte i compagni mi avevano chiesto di consentire che si bonificassero soffitta e casa dai probabili microfoni che v'erano stati istallati? Non avevo forse ragione ad aver rifiutato? Come avevo rifiutato, dinanzi al rischio ed alla pratica costante di provocazioni, di mutar vita, di chiudere la mia porta a chi vi bussasse (ed erano tanti: come selezionarli, come assumere il sospetto a modo di vivere, ed il timore?), di usare con discrezione i telefoni del Partito, che regolarmente e fra l'imbarazzo dei tecnici della Teti continuavano a impazzire e guastarsi?
Rocca, Allavena, Cefis e una manciata di milioni
Perché tollerare, o rischiare che la psicosi di persecuzione, per quanto giustificata o comprensibile, si installasse anche fra di noi, ci rovinasse il nostro modo di viver, di essere felici, di esser liberi, responsabili certo, ma non intimamente condizionati da questi metodi dell'Italia democristiana, molto di più di quella paleo-fascista?
Ricordavamo, dunque, questi anni di episodi e di testimonianze al telefono (le registrazioni che non mancheranno certo potranno documentarlo), e Franco, dinanzi all'episodio Squillante, mi induceva a misurare e non sottovalutare la profondità e la gravità di questi guasti, dilaganti, che da tempo - senza che ne parlassimo - s'erano manifestati nella nostra vita. Come spesso accade, il suo diveniva uno sfogo, ma controllato, consapevole, attento; non ancora amaro, solo addolorato.
Tornammo di nuovo a parlare di Marini e Corti (»allucinante, davvero , diceva Franco) e ci salutammo.
Tornai a scrivere, a rispondere, un po' distratto, forse anche stanco. La mattina dopo dovevo partire molto presto per Milano, per portarvi una trentina di collezioni di »Liberazione e sollecitare nuovi impegni e collaborazione per i prossimi numeri e, soprattutto, la nuova serie quotidiana. Avevo bisogno di una giacca, di una camicia. Dovevo passare a casa, a casa dei miei per prenderli. Ho continuato per un po' a scrivere. Forse, chissà, ero lì anche perché avrebbe potuto raggiungermi una telefonata, che sapevo non mi sarebbe arrivata: non v'era - purtroppo - ragione che m'arrivasse. Ma, comunque, non poteva eventualmente che raggiungermi lì. Vita pubblica, vita privata?
Sorridevo, una volta di più, di queste astrazioni, o di questi errori, senza più molto senso, per fortuna e per decisione, nella mia esistenza.
Milano è saltata. I miei hanno più di settant'anni
Verso l'una e mezza ho preso un tassì in viale Trastevere. Arrivato in via Collalto Sabino, pregai il tassista di attendermi cinque minuti: avrei preso il necessario e sarei, con questo, andato in soffitta, in via della Panetteria, dove avevo lasciato il tesserino ferroviario. I miei erano in Abruzzo. Non riuscivo a far entrare la chiave nella toppa; guardo meglio e non c'è dubbio che le serrature sono state manipolate. Con un semplice scatto la porta s'apre. C'è luce accesa: ci sono state visite. Speriamo che non siano ancora dentro, e in troppi. Già nell'ingresso, armadi a muro, cassetti, all'aria. M'affaccio nella prima stanza e torno a capire. L'argenteria dei monili son lì. Fotografie e carte di famiglia, sparse per terra, tolte dai tiretti del mobile dove'erano riposte. Nell'altra stanza, i cassetti erano stati rovesciati su un divano: c'era perfino la corrispondenza un po' preziosa del vecchio prozio monsignore, gloria di famiglia, con Croce e Gentile e tanti altri; di là, ancora, le solite carte, ric
evute, banche, telefoni, fitti, dei miei; poi un mobile chiaramente più »mio . Qui non s'è lasciato nulla: scatole di gemelli, porta-sigarette, lettere, appunti, vecchi libri, quaderni. Ma qualcosa, lettere in francese, per esempio, sono restate.
Ho chiamato la Volante, fatta la denuncia al commissariato Vescovio. »Giornalista? E' roba politica, dotto' . »Ma dove andremo a finire, dotto' .
Milano è saltata. I miei hanno più di settant'anni. Se mia sorella non potrà star qui al loro arrivo, è bene che ci sia io.
Bisognerà trovare un corriere, la posta non funziona mai, per noi. Scendo in piazza Sant'Emerenziana, non ci sono tassì. Risalgo, m'accorgo di sorridere fra me e me; voglio svegliare Franco. E mentre parlo, mentre sento, ancora una volta, la gravità della sua attenzione, la trepidazione celata, ma ormai antica, del fratello, del compagno, dell'amico - mi torna in mente quel che avevamo dimenticato, l'uno e l'altro. In via della Panetteria, dieci giorni fa, per tre giorni di seguito, avevano provato di nuovo ad entrare. Porta, e muro d'appoggio, ne serbavano, ogni sera, le tracce. Alla fine avevo lasciato un messaggio: »Stronzi, non ce la farete così. La serratura morde in alto ed in basso . Avevo raccontato, ogni giorno, l'episodio ai compagni. Alla fine, ero restato un pomeriggio; ma non erano più passati.
Dunque, osservo, mentre decido di tornare a piedi in centro, questa volta hanno fretta. Ma sto bene. M'hanno restituito la prospettiva che psicologicamente s'era smarrita, in queste settimane, del significato di queste nostre esistenze, di quel che abbiamo, in non molti, cercato d'essere, di divenire, che sento, ora, che stiamo divenendo davvero. Scelte ed istinti, moralità e spontaneità s'incontrano, s'identificano.
A casa, trovo Giulio, un po' tetro: il congresso, i referendum, il lavoro gli sembra difficile, inadeguato.
Il racconto lo sconvolge. Ma sbaglia, cerco di spiegarglielo. Cosa devo, dobbiamo temere? Cammino per casa, appena un po' nervoso, veloce, leggero, lentamente felice con il crescere delle riflessioni, dei pensieri, pensando al partito, al giornale, a noi, alle speranze, alle sconfitte, al senso di tutto questo.
Quello che hanno cercato. Quello che troviamo
Cosa mai dovrei temere? Vorrei quasi ringraziarli. Da dieci anni, la mia vita, grazie a loro è un documento. Quanto rischiava di perdersi, di pensieri, di felicità, di amicizia, di creazione e di »ignominie ; di notti e di giorni di ricerca, di riuscite, forse vivranno; ancora forse potrò, potremo meglio intenderle, nutrirmene, nutrircene, parlarne, coglierne e sceglierne il senso. Quello che abbiamo sempre, con l'intelligenza, sperato: che i più intimi e privati dei nostri gesti siano i meno »particolari , i più »pubblici , i più validi e nuovi per ciascuno e per tutti, non momenti di consumo, di abbandono, di evasione ma il massimo di moralità, di tensione creatrice; di dialogo e di intelligenza; e che quelli »politici vivano e si proseguano invece come i più »privati ed intimi; questa integrità, insomma, la dobbiamo, la dovremo anche a loro.
Certo, non è stato sempre facile, non lo sarà. Certo, da dieci anni (forse da quando, con i fratelli algerini, qualche moderato impegno che assunsi allora, sempre da radicale, mi valse la segnalazione dei servizi francesi a quelli italiani) si cerca di colpirmi, innanzitutto, attraverso coloro che amo, che sono le mie amicizie, colpendo loro per giungere a me. Certo, qualcosa di drammatico, in questo dovere e potere essere non responsabile astrattamente e solo dinanzi ad una coscienza che sa sempre fin troppo esser »brava , arrangiarsi pur nel suo rigore, ma di fronte ad altri, a sconosciuti, a »nemici può anche esservi. Ma quale aiuto, anche.
Falsificazioni, provocazioni, linciaggi?
Qui non posso che annotare un solo pensiero. Come è stato, come è importante il Partito, laico, così come l'abbiamo fatto e lo viviamo, con i suoi temi, le sue inadeguatezze.
E' proprio vero che non ci sono nemici, se non ce li inventiamo come fantasmi e dèmoni delle nostre coscienze.
Una osservazione, forse necessaria: se la fretta che questa povera gente (serva di coloro che credono potenti e la cui cifra umana - invece - è data proprio dalla tristezza e dallo squallore di quel che debbono fare - essi stessi - per illudersi d'esserlo) mostra oggi d'avere è perché c'è »Liberazione , perché temono - giustamente - che continuerà ad esservi ed a irrobustirsi, non commettano errori troppo gravi. Li assicuro, in coscienza, che non sono fisicamente necessario perché continui e cresca.