di Marco PannellaSOMMARIO: Allarmata da test elettorali, dalla stanchezza e dal nervosismo della base, dalla straordinaria crescita dei socialisti, la direzione del PCF è riuscita a sollecitare e organizzare, in occasione del congresso straordinario del partito, un vastissimo e intenso dibattito. Dalle invettive si è così passati alla riflessione. Ora non è più lecito, semmai lo è stato, dubitare dell'autonomia e della volontà "nazionale" dei comunisti. Il programma comune della sinistra ha una netta maggioranza nel paese. Il grande capitale prepara le sue trincee di riserva, cambia strategia, per spezzare l'unità della sinistra)
(IL MONDO, 7 novembre 1974)
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Parigi. E' quasi l'una di domenica mattina. Jacques Duclos ha appena dichiarato chiuso il XXI congresso del PCF. Ondate di giovane buonumore, affettuosamente irriverenti, han fatto da puntuale contrappunto alla sua voce fermissima, durante l'intera mattina, grave e magniloquente. Ad ogni suo annuncio: "approvato all'unanimità", non vede nessun astenuto, nessun contrario, i delegati ridevano divertiti, piuttosto che applaudire. Era una platea di nipoti: per nulla un'assemblea di seguaci. Il carisma del capo, anche al di là delle volontà e delle dimostrazioni per l'esterno, non sembra più aver corso nel PCF, non risponde più a riflessi ed al carattere dei quadri e dei militanti. Semmai, oggi, rivive nel partito socialista e nel paese nei confronti di François Mitterrand.
Anche la replica finale di Georges Marchais, con la sua lettera lenta, marcata, martellante, categorica ha riscosso applausi, non ovazioni. Sono stati giorni di buon lavoro, dopo i quali si torna a casa stanchi ma soddisfatti. Nulla di meno, anche se non nulla di più. Il partito è sostanzialmente unanime e almeno provvisoriamente tranquillizzato. A riflessione fatta, nulla o poco è perduto e c'è un mondo da guadagnare.
Roland Leroy ricorda d'avermi promesso di discutere del congresso al suo termine. Ha per tre giorni presieduto la commissione che ha analizzato 1.500 emendamenti alla proposta di documento fatta al congresso del "Bureau politique" e ha appena svolto la sua relazione, durante quasi un'ora. Il suo aspetto è più fragile del solito, non oso avvicinarlo, ma è lui che viene. Mi chiedo un attimo se sarei capace di questa forza e di questa cortesia al termine dei nostri congressi.
Così restiamo, mentre il congresso sfolla verso le mense, in una saletta del "Palais des sports Maurice Thorez".
Com'è andata? "E' una delle rare volte in cui tutto il partito, tutto davvero, è stato capace di una riflessione profondamente creatrice", assicura, "di un approfondimento anche teorico e altamente politico. Siamo stati aiutati certamente dai risultati delle elezioni parziali, con i loro sintomi allarmanti, che hanno avuto una funzione rivelatrice d'una situazione e d'una tendenza che andavano meglio analizzate. Saremo più sicuri nell'attuazione dei nostri progetti". Sembrano dichiarazioni di prammatica o di comodo: penso, invece, che siano per una volta un'analisi pertinente, oltre che un riconoscimento del valore diverso e minore che hanno spesso avuto congressi comunisti. "Le condizioni oggettive per passare al socialismo sono realizzate, ormai, nel nostro paese. L'ostacolo può venire solo dalle forze del monopolio. Applicare il programma comune significherà anche rafforzare i fondamenti oggettivi dell'unità politica che abbiamo realizzato con i socialisti. Per il resto, vista la natura diversa dei due pa
rtiti, la discussione che oggi abbiamo con loro, sia detto fra di noi, era fatale".
La differenza storica
Fin qui Leroy non fa che esprimere valutazioni che ho già raccolte dagli altri membri della segreteria nazionale del PCF nei giorni scorsi, da Marchais a Piquet, da Laurent a Fajon, da militanti e da delegati. Il nervosismo e la polemica antisocialista che erano esplosi dopo le elezioni parziali e le "assise del socialismo" s'erano tradotti, per un paio di settimane, quasi in invettive. La vecchia, pericolosa tentazione di trasferire in primo luogo negli altri la responsabilità delle proprie debolezze o inadeguatezze s'era fatta strada. Ma l'intenso e accanito dibattito precongressuale, ad ogni livello del partito, dalle cellule alla segreteria nazionale, aveva già dato i suoi frutti prima dell'apertura del congresso. In fondo il PCF, lui per primo, da quasi un anno, aveva finito per far passare in seconda linea le proprie peculiari ragioni e i suoi specifici obiettivi nell'ambito della sinistra unita. La lotta per propagandare il programma comune di governo, prima, poi quella per sostenere la candidatura un
itaria di Mitterrand, a favore della quale i militanti del PCF si erano effettivamente prodigati allo spasimo, avevano esaurito l'impegno politico di molti quadri.
Allarmata da test elettorali, dalla stanchezza e dal nervosismo della base, dall'ulteriore progresso della straordinaria crescita socialista, la direzione è riuscita a sollecitare e organizzare, in poche settimane, un vastissimo e intenso dibattito nel partito. Dalle invettive si è così passati alla riflessione.
L'analisi che i comunisti ora fanno appare lineare e solida. Il PCF è, per la sua stessa composizione sociale, organizzazione della classe operaia; lo è anche per le sue scelte costanti, inadeguatezze ed errori compresi. Su questa forza, quindi, più che su ogni altra, riposa oggettivamente la garanzia di una effettiva attuazione del programma comune di governo della sinistra unita, programma che i socialisti hanno concorso ad elaborare, cui si sono legati sottolineandone spesso, ancor più che i comunisti, il carattere alternativo, di concreta rottura del sistema capitalistico e di risposta socialista, oltre che democratica, alla crisi.
La differenza storica, in Francia almeno, fra comunisti e socialdemocratici è che i primi hanno sempre rifiutato la pratica della collaborazione di classe e hanno sempre rivendicato l'unità, e l'alternativa della sinistra; i secondi hanno invece tradizionalmente compiuto scelte riformiste e praticato la collaborazione interclassista.
Non è più lecito, semmai lo è stato, dubitare dell'autonomia e della volontà "nazionale" dei comunisti. Quelle scelte "nazionali" che negli anni cinquanta, di guerra fredda, potevano anche trovare le loro ragioni più dirette e immediate in un determinato contesto internazionale, ora sono perfettamente aderenti alle esigenze di difesa dalla superpotenza delle società multinazionali, dalla loro logica imperialista e colonialista di ricerca del profitto, dalle scelte classiste e subalterne del capitalismo di stato monopolistico e della "grande borghesia". In questo quadro le antiche accuse di "nazionalismo", di antieuropeismo ideologico o di marca pro-sovietica, diventano incongrue agli occhi di tutti e sono infatti sempre meno riproposte dagli stessi avversari di destra o di centro.
Quanto al problema della "democraticità", i comunisti sottolineano che non si tratta, per quanto li riguarda, di concessioni o di "aggiornamenti". La "dittatura del proletariato", nella sua accezione "scientifica", comportava certo discriminazioni e "egemonia", "sospensione" della democrazia formale, della democrazia liberale e rappresentativa. Ma essa veniva proposta e immaginata, ed è stata praticata, in situazioni storiche e in società dove la classe operaia era nettamente minoritaria, dove i ceti salariati erano attori nello scontro sociale, mentre la circostante coscienza politica delle masse era ancora minima e la loro natura ancora sottoproletaria; per di più affermandosi in paesi dove la democrazia politica, le libertà ed i diritti civili erano sconosciuti o vissuti corporativisticamente da ristretti ceti privilegiati. La domanda di mutamenti radicali, di espansione e di potenziamento delle libertà, delle speranze, dei diritti di ciascuno e di tutti è invece ora caratteristica oggettiva del paese e d
i molta parte della società contemporanea. La difesa è l'esaltazione della democrazia, in ogni fase e momento, è dunque non solo dovere, volontà, ma anche necessità e interesse del movimento operaio, del suo partito, degli schieramenti storici che organizza, esprime, promuove.
I sondaggi parlano chiaro
Di fronte a questa situazione, il potere sta intanto costatando la sua impotenza a dominare la crisi che è oggi innanzitutto crisi del mondo capitalistico: i paesi socialisti non ne sono per ora toccati se non marginalmente. Crisi sociale, crisi economica, crisi morale, crisi di credibilità, crisi ad ogni livello. Non a caso Giscard d'Estaing, per anni profeta di un avvenire roseo (per alcuni mesi recenti, "letteralmente roseo"), prevedeva una Francia ed una Europa socialdemocratiche, e parla ora di organizzare la convivenza nella e della crisi. "Incapace di risolvere la crisi, il potere l'aggrava", afferma un emendamento al progetto di mozione del comitato centrale votato dal congresso. "Le dichiarazioni maltusiane, pessime e rivelatrici del pensiero di una classe che perviene ai suoi limiti storici", afferma Leroy, "non sono nemmeno più dissimulate: Giscard le propone ormai con chiarezza".
E' il potere, insomma, che "deve" in prospettiva divenire sempre più violento, sopraffattore, dittatoriale; e lo sta divenendo. E' il potere che sta espropriando, alienando, ogni possibilità di gestione democratica delle strutture produttive, dei beni nazionali, del patrimonio civile e politico. Lo stesso capitalismo monopolistico di stato, di fronte alle sue contraddizioni oggettive, rinuncia ad ogni autonomia e nei settori chiave della produzione e dell'economia cede il passo a ritmo accelerato alle società multinazionali.
Il programma comune della sinistra ha ormai una sua netta maggioranza nel paese: i sondaggi demoscopici che ogni giorno si riversano sull'opinione pubblica da parte dei grandi organi di stampa parlano chiaro. Da maggio, quando Mitterrand sfiorò la vittoria con il 49,3 per cento dei voti, la progressione della fiducia vero la sinistra è costante e netta.
Condizioni oggettive e soggettive perché l'esercizio del potere passi all'unione fra comunisti e socialisti, radicali di sinistra sono ormai riunite. Il "grande capitale" ne è consapevole. Sta preparando le sue trincee di riserva e rinnovando la sua strategia. Il suo obiettivo principale, ormai, è quello di spezzare l'unità della sinistra indebolendo prima il partito comunista che "fu, è e sarà sempre il partito dell'unione". Egli sa che se la sinistra andasse al potere con un partito comunista ridotto, indebolito, strapuntino per il PS, il programma comune potrebbe non essere completamente applicato, e di conseguenza nel partito socialista potrebbero prevalere di nuovo, o comunque affermarsi, tendenze per la "collaborazione di classe". Per questo, continuano i comunisti, la questione decisiva è quella del contenuto dell'unione. L'unità, insomma, è innanzitutto la lotta ogni giorno ricominciata per l'unità, la chiarezza dei suoi contenuti e obiettivi.
A questo punto la polemica si biforca: qui ideologica, lì più direttamente politica. Fra i vertici del partito si è più sensibili, sembra, ai rischi di concorrenza teorica e di linguaggio da parte del nuovo "partito dei socialisti" che sta per nascere, a fine gennaio, con il congresso del PS, rafforzato da una parte del PSU e dalla "terza componente" in maggioranza sindacale. Anche se la polemica non è qui così esplicita come lo è stata contro il PSU e contro certe correnti del PS prima della firma del programma comune, gli attacchi contro il massimalismo, il "gioco al rialzo" socialista continuano. La diffidenza e l'ostilità di Rocard, e le sinistre del PS, ad esempio, sono evidenti sia in Marchais che, e ancor più, in Leroy. Ed è ancora al più altro livello del partito che sono state ammonite: "Rocard è per la collaborazione di classe", vedrete. "E' la vecchia storia socialdemocratica. Mayer sconfisse Blum da sinistra, e da sinistra Mollet scalzò Mayer. Da sinistra Mitterrand ha sostituito Mollet e, se del
caso, Rocard colpirà Mitterrand. Solo la logica oggettiva dell'attuazione integrale del programma comune potrà avere ragione di questi dati soggettivi, tradizionali e immutati".
Un rosario di esempi
Su questo piano, non potrebbe che esserci "mauvaise querelle"; un brutto affare. Ma non penso che questa linea finisca per prevalere, se non troverà pericolosi corrispondenti in casa socialista.
Dove invece il partito comunista potrà o potrebbe più facilmente riacquistare lo smalto perso, o toglierne al PS, e nello stesso tempo contribuire decisamente a far superare obiettive e gravi contraddizioni che pesano su tutta la sinistra, è spostando la polemica sulla "realtà" della pratica di collaborazione di classe, o centrista o di centrosinistra che dir si voglia. René Piquet mi assicura che è almeno in sessanta dipartimenti che i socialisti sono arroccati o invischiati in queste situazioni, negli enti locali, in particolare nei comuni. Quel che è certo è che Pierre Mauroy, il vice di Mitterrand nel PS, segretario nazionale con il compito di coordinatore di tutte le responsabilità di segretaria, è sindaco di Lilla in collaborazione con i centristi, che fecero campagna, a maggio, per Giscard, seguiti da cospicue fette dell'elettorato socialista. Nella seconda città di Francia, Marsiglia, Gaston Defferre, presidente dei deputati del PS, ex-candidato Sfio alla presidenza della repubblica, ha per vice-sind
aco Schelini, un "riformatore" che è ufficialmente nel gabinetto del ministro Abelin.
La contraddizione non è dunque marginale. Nel congresso di Vitry gli interventi delle federazioni comuniste hanno fornito un rosario di esempi del genere. E' su questa base, ci par di capire, che in realtà la polemica può e dovrà fatalmente divampare se il PS non mostrerà maggior capacità di rigore e di corrispondenza della pratica politica all'immagine nuova che in modo così intenso e suggestivo, ricco e popolare sta dando a sé, non solo in Francia. E' infatti su questo che i militanti e i quadri del PCF sembrano più motivati e sensibili, più decisi e anche obbligati a prendere l'iniziativa. Vi sono certo difficoltà gravi a rendere omogeneità ad ogni livello ad un partito che ha pur sempre una origine che è quella della vecchia Sfio collaborazionista e di centro-sinistra. Ma all'inizio del 1977, fra poco più di due anni, vi saranno elezioni amministrative in tutto il paese. Se i socialisti dovessero presentarsi con un bilancio troppo recente di tipo paleo-socialdemocratico è probabile che il nuovo elettorat
o di sinistra non continuerà in quella occasione a premiarlo. Di questo, stranamente, il documento approvato dal congresso comunista non parla affatto. Se ne deve arguire che in realtà Georges Marchais e in bureau politique, nella sua grande maggioranza, preferiscono non ancora la polemica fra PS e PCF e dati troppo concreti e difficili da rimuovere rapidamente? O che preferiscono, come oggi mi suggeriva Gilles Martinet, avere per bersaglio le componenti più di sinistra e più rigorose che, pur collaborando anch'esse nel PS con François Mitterrand, notoriamente sono abbastanza autonome da lui e possono quindi essere attaccate senza colpire direttamente il leader socialista? Anche se a queste correnti è difficile rimproverare altro che veri o presunti furori e irresponsabilità ideologiche e non concrete, forse di pratica interclassista?
Comunque, questo dibattito che s'è aperto nella sinistra offre più vantaggi e segni positivi che inconvenienti gravi.
Nulla, davvero, per ora, consente di sospettare gli uni o gli altri di consapevole volontà di rottura o anche di superamento dell'alleanza. Unità e programma comune sono i pilastri della strategia di Mitterrand non meno che di Marchais. Nell'evoluzione che s'è aperta, anche il livello teorico sta facendo salti qualitativi. Nel PCF tutti gli emendamenti votati dal congresso risentono dell'unanime preoccupazione dei comunisti di riqualificare e rafforzare il quoziente rivoluzionario e socialista del loro progetto di "Unione del popolo di Francia per il cambiamento democratico". S'è tassativamente precisato che l'appello a tutti i cittadini, gollisti e cattolici in particolare, per aderire al PCF riguarda sì tutti: ma a condizione che condividano oltre che il "programma comune" anche gli obiettivi socialisti e rivoluzionari che sono i suoi.
Com'era prevedibile, insomma, questo congresso è stato anch'esso, per qualche verso, un'"assise del socialismo". E il rischio di un eccessivo "aggiornamento" da parte del PCF, con caratteristiche opportunistiche, che pure era emerso all'inizio dell'estate, sembra almeno per ora superato.
Alla fine del congresso, non solo dunque per l'opinione e le valutazioni che Leroy mi comunica, il partito sembra tutto più sereno, fiducioso. Ma se, tutto malgrado, il PCF continuasse a perdere terreno?
E' stato difficile, in genere, far anche solo prendere in considerazione questa ipotesi. Quando René Piquet ha accettato di discuterne sentivo che rifletteva intensamente. Non aveva certamente, dietro di sé, né una risposta collettiva né una personale già pronta. Piquet è di una sorprendente, contagiosa lealtà intellettuale, rigoroso e tollerante, serio e sereno, spesso allegro. Alla fine la sua risposta è che con una sinistra gravemente squilibrata, con un partito comunista indebolito, meglio sarebbe non assumersi la responsabilità del potere, rivedere tutto, a tempo, per non sciupare una occasione storica, che potrebbe e dovrebbe essere, nella qualità delle sue acquisizioni, irreversibile. Esistono, per lui, ragioni obiettive che possono infatti, in quel caso, portare quasi fatalmente il partito socialista alla liquidazione riformistica del processo rivoluzionario e riformatore. I nuovi ceti "salarizzati" e proletarizzati, proprio per le loro caratteristiche diverse dalla classe operaia in senso proprio e
più tradizionale, possono facilmente essere "veicolo" delle inadeguatezze, delle velleità, delle illusioni minimaliste o massimaliste. Un forte partito comunista, per le sue strutture, le sue tradizioni, la sua composizione, la decisione e chiarezza con la quale è impegnato nel progetto d'unità, d'alternativa e di governo comune di tutta la sinistra, delle grandi masse popolari è elemento indispensabile, non surrogabile.
I nemici di Marchais
Meno articolata, l'opinione al riguardo di Paul Laurent non è però molto diversa: sottolinea che si tratta davvero di una ipotesi per assurdo; ammette che in tal caso, probabilmente, avrebbero giocato contro il PCF riserve e incomprensioni sul piano della difesa delle libertà e della democrazia politica. Per il PCF si tratterebbe, a questo punto, di riconoscere d'aver sbagliato quasi tutto, in questi anni. Laurent mi sembra animato di fiducia unitaria, e non avere né animosità né gravi riserve nei confronti del PS e dei suoi esponenti: ed è molto sereno. Ma la sua serenità è proverbiale, comunque. E non fa testo politico.
Marchais mi ha dato l'impressione d'essere forse il più all'unisono con gli umori e le necessità della massa dei militanti. Ha evidentemente ancora o di nuovo fiducia nella linea di apertura e di stretta alleanza con i socialisti e ritiene fondamentale un loro comportamento "leale" sia nel portare avanti con il massimo di energia la piena attualità delle proposte contenute nel programma comune (che essi sembrano a volte considerare importante più come indicazione di metodo che per tutti i suoi specifici contenuti) sia nella pratica politica dell'intesa ad ogni livello e per ogni implicazione. Quando gli esprimo l'opinione che il nuovo tono e queste esigenze possano in definitiva servire anche al partito socialista non mi sembra molto interessato a questo aspetto della questione.
Torna a sottolineare i pregi del programma e l'inutilità di aggravarlo come alcuni affermano di volere.
"Non c'è niente da aggiungere. Perché dovremmo prevedere, come alcuni vorrebbero, anche di nazionalizzare la terra? In buona sostanza già appartiene spesso ai contadini. Sono stato ieri da amici agricoltori. Circa settanta ettari: qualche anno fa sembravano grossi proprietari. L'intera famiglia, in realtà, guadagnava anche meno di una di operai specializzati. E' una situazione generale".
Per Marchais c'è davvero poca gente contro la quale è necessario combattere senza quartiere. Anche nei suoi discorsi pubblici se la prende sempre più frequente solamente con "gli aristocratici del danaro", "i feudali" che comandano e cercano di imporre i loro interessi di classe contro il popolo nella sua grande immensa maggioranza. Consapevole, democratico. Non sembra più preoccupato come ha mostrato d'esserlo per alcune settimane.
Mi dice che è in partenza per la Svizzera, per impegni politici ma che intende approfittarne per strappare 3 o 4 giorni di riposo che sente necessari. E' una conferma della serenità che è tornata.
Ma nelle prossime settimane, con un intervista completa ed esauriente a "Il Mondo", avremo analisi, riflessioni e progetti del leader comunista. E' inutile quindi anticiparli frettolosamente in questi giorni.
Per l'essenziale dovremo ancora tornare sulla straordinaria ricchezza e esemplarità del PCF e di molti suoi dirigenti e militanti, e di una condotta politica che, in Italia, non dovrebbe solamente esser compresa e studiata dai compagni e amici del PCI, ma ancor più da autentici liberali e repubblicani.
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MAPPA DEL PCF
La Francia in rosso
di M. P.
PARIGI. Il XXI congresso nazionale del partito comunista francese è il primo "straordinario" in 53 anni. Si è svolto a Vitry, comune della "Banlieau" rossa di Parigi, con sindaco e deputato comunista, dal 24 al 27 ottobre. Il congresso ha approvato la proposta di condurre una campagna politica per l'"unione del popolo di Francia per il cambiamento democratico", confermando all'unanimità le scelte di fondo del PCF basate sul "progetto comune di governo" della sinistra e sull'alleanza con il partito socialista e il movimento dei radicali di sinistra.
I delegati del congresso erano 1.257, dei quali 370 donne (29,4 per cento). L'età media era di 30 anni, la più giovane registrata in un congresso politico francese. Socialmente: il 40 per cento erano operai, il 2 per cento studenti, il 25 per cento impiegati, il 10 per centi insegnanti, il 5 per cento contadini o coltivatori diretti, il 10 per cento dirigenti aziendali, professioni liberali, tecnici. Poco meno di un quarto dei delegati (295 su 1.257) erano salariati nel settore metallurgico: 676 erano eletti da cellule di fabbrica o d'azienda, 486 da cellule zonali, 95 da rurali.
Il 56 per cento aveva aderito al partito dopo il 1968. Un sesto durante il periodo stalinista o dei primi passi della destanilizzazione.
Le cellule sono 21.000. I tesserati circa 430.000. Le federazioni sono 97 (20.000 iscritti quella parigina, meno di 100 quella della Vandea). Il comitato centrale conta 123 membri, la direzione (bureau politique) 19; la segreteria nazionale è di 7 membri. Il primo segretario è Georges Marchais, 54 anni, licenza elementare, metallurgico fino al 1956, iscritto al PCF nel 1947 a 27 anni. Seguono: Paul Laurent, 49 anni, licenza media, origine operaia, dal 1954 al 1962 segretario nazionale della federazione giovanile; Roland Leroy, 48 anni, iscritto dal 1942, scuola media interrotta, responsabile del settore culturale, a lungo indicato come il più probabile successore di Thorez e di Waldeck Rochet; René Piquet, mostra molto meno dei suoi 42 anni, origine contadina, nessun titolo di studio, rigoroso e tollerante, popolarissimo, è detto "l'arcangelo". Etienne Fajon, 69 anni, da venti direttore dell'"Humanité", con Gaston Pelissier rappresenta la "vecchia guardia" e la continuità nella segreteria nazionale. Nel bure
au politique, che si riunisce settimanalmente, sono il vecchio leader storico Jacques Duclos e Georges Seguy, il potente segretario nazionale della CGT, considerato come la vera carta di riserva per la leadership del partito nell'ipotesi di una sua crisi.