di Dino CofrancescoSOMMARIO: E' il secondo dei tre saggi di Dino Cofrancesco apparsi su "Critica Sociale" (gli altri apparvero nell'ottobre e nel dicembre dello stesso anno) dedicati al partito radicale (testi n. 3790, 3791, 3792). Cofrancesco non condivide il giudizio di Giovanni Spadolini, che aveva negato qualsiasi parentela tra i radicali degli anni '7O e i radicali del "Mondo", ma anche per lui "quello contemporaneo e' un radicalismo di tipo nuovo". In particolare Marco Pannella esprime un moralismo che, smentendo le tesi machiavelliane sui "profeti disarmati", è riuscito ad imporsi all'opinione pubblica, anche tra dissensi e incomprensioni. Tra i giudizi ostili ai radicali, Cofrancesco prende in esame in particolare quello di Prezzolini (testo n. 1607) di cui mette il rilievo il conservatorismo, in fondo antidemocratico. Cofrancesco analizza quindi il concetto di "libertà politica" nei vari momenti in cui esso si esplica, portando esempi di situazioni diverse, così come si presentano in diversi paesi, per concludere inf
ine che "la libertà politica è un fatto empirico", che si realizza in forme diverse da analizzare caso per caso.
(CRITICA SOCIALE N. 11, novembre 1974)
I rilievi che abbiamo svolti nell'ultimo fascicolo non concludono davvero il discorso sui radicali. Nel mostrare le contraddizioni dello »spirito radicale non ci si è riferiti ad un approccio alla realtà politica che sono entro certo limiti coincide con quello dei radicali degli anni '70? In realtà non ha tutti i torti Giovanni Spadolini quando nega risolutamente ai seguaci di Pannella il diritto di richiamarsi a Pannunzio - anche se non si possono condividere i toni moralistici e risentiti della sua critica. »La componente libertaria, scrive il docente fiorentino, ha prevalso nettamente, col volgere degli anni, su quella liberale, e sia pure liberale di sinistra che costituì il fermento vitale del movimento organizzato dal "Mondo". I filoni della contestazione si sono nettamente sovrapposti a quelli del ripensamento democratico, sia pure in chiave rinnovatrice, che favorì l'esordio del centro-sinistra. La tecnica spontaneista dei movimenti extraparlamentari ha completamente schiacciato quella forma di devo
zione, perfino rigida, appunto britannica, allo schema del governo rappresentativo che caratterizzava i Pannunzio e di Carandini, giudicati `anglomani' non meno di quanto lo era, ai suoi lontani tempi, il giovanissimo Cavour, `milord Cammillo'. E c'è stata una infiltrazione di utopismo con accenti e trasalimenti cristiani, post-conciliari, nonostante l'ostentato, clamoroso laicismo di molti seguaci del PR o della LID (1).
Come risulterà più chiaro in seguito, non sono tanto i "contenuti" ad essere profondamente errati, nella critica di Spadolini, quanto il "metodo" impiegato nell'analisi del fenomeno in esame; il quale non può essere commisurato alle categorie ricorrenti nella valutazione dei programmi e dei comportamenti partiti ufficiali.
Resta nondimeno il fatto che quello contemporaneo è un »radicalismo di tipo nuovo , tanto diverso dall'antico quanto l'eresia è diversa dal dogma riconosciuto. A differenza di Spadolini siamo convinti che esista più di un filo rosso tra il radicalismo di Pannunzio e quello di Pannella; ma ciò non toglie, ancora una volta, che i tratti caratteristici dell'archetipo radicale assumano nel secondo un significato originale e quasi rivoluzionario. Si ha l'impressione, insomma, confrontando i radicali di oggi con quelli di ieri, di trovarsi in presenza di due quadri in tutto simili tranne che nelle tonalità cromatiche: nell'uno i colori sono tenui e delicati, nell'altro sono indiscreti e violenti; la figura, la forma, le dimensioni, le tinte usate sono tutte eguali, ma il risultato finale è tale che sembra di contemplare due soggetti diversi.
Per questo, le considerazioni precedenti, applicate al movimento di Pannella, suonano in parte false. Esse non rendono la dovuta giustizia ai radicali contemporanei soprattutto in quanto prescindono da ogni considerazione di `identità'. Se è vero che ogni archetipo politico presenta tratti peculiari e costanti, è pur vero che, nei differenti contesti storici, questi assumono sensi diversi e quindi diversamente condizionano la realtà. Questo discorso vale soprattutto per il moralismo politico: aveva ragione Machiavelli quando annotava che sempre i profeti armati vinsero e quelli disarmati riunirono, ma non aveva neppure torto Hegel quando replicava che, in certe situazioni, i cannoni dei giustizieri sono preceduti dalle idee dei profeti. Non dico che questo sia il caso di Pannella e sei suoi seguaci, in realtà assai meno pretenziosi degli individui cosmico-storici hegeliani, ma certo è che il "moralismo", anche in politica, può rappresentare, talora, una forza determinante. Compito del sociologo e del politol
ogo è di individuare "come, quando e perché" questa forza riesca ad incidere positivamente sulla realtà e "come, quando e perché" è invece votata al fallimento. Questo impegno che si richiede allo studioso dei fenomeni politici è tanto più arduo quanto più coinvolge sentimenti, ideali, istinti che ci condizionano a nostra insaputa. Il radicalismo odierno, infatti, è ormai associato a Marco Pannella (indipendentemente dalla sua volontà) e questi non è una figura che lascia indifferenti: c'è in lui, che pure è un non-violento, qualcosa di profondamente violento e provocatorio, proprio di chi riesce solo a suscitare simpatie o antipatie tenaci e profonde.
Non credo che siano molti i militanti politici di cui è stato scritto ciò che Pasolini scrive di Pannella: »Frutto dell'assoluta e quasi ascetica purezza di questi principi, che si potrebbe definire `metapolitici', è una straordinaria limpidezza dello sguardo posato sulle cose e sui fatti; esso infatti non incontra né l'oscurità involontaria dei pregiudizi né quella voluta dei compromessi. Tutto è luce e ragione intorno a tale sguardo... (2). A questa `metafisica dello sguardo' quante terrene diffamazioni fanno riscontro da destra e da sinistra! Alludendo al digiuno di Pannella, Maurizio Ferrara, parlando a nome dei comunisti, non ha forse scritto, con tagliente ironia: »ogni volta che un disoccupato sale sul Colosseo e di lì grida la sua disperazione, noi cerchiamo di farlo scandere ma non invitiamo i disoccupati a fare altrettanto ? (3). L'occhio limpido e puro esaltato da Pasolini s'è trasformato nell'occhio allucinato del visionario: due valutazioni opposte, e pertanto paradigmatiche, a cui se ne potreb
bero aggiungere tante e tante altre, eguali o intermedie.
Comunque non è questo il punto: il fatto stesso che se ne parli tanto sulla stampa, sta a dimostrare che i radicali si sono imposti all'attenzione dell'opinione pubblica, vincendo quindi la prima battaglia decisiva: quella volta all'attivazione dell'interesse.
Il problema è quello di sapere "perché" hanno vinto e cosa significa questo successo. Come prima approssimazione, si può dire che i radicali hanno vinto il primo round dello scontro con il `sistema' perché, pur nella loro incapacità (o consapevole rinuncia) di risalire dagli effetti alle cause, sono stati gli unici a non nascondersi l'esistenza di regione residue di violenza e, nella misura in cui le loro denunce erano fondate, sono stati i soli a non perdere il senso della realtà: hanno visto solo gli effetti, ma hanno pur visto qualcosa; gli `altri', invece, i politici di professione, sembrano aver smarrito la capacità di percepire sia gli effetti che le cause. In tal modo, le formule democratiche, le analisi storiche e sociologiche dello schieramento progressista tradizionale sono impietrite a dogmi, sono scadute a litanie stancamente ripetute durante le ricorrenti funzioni rituali del regime (crisi di governo, commemorazioni resistenziali etc.). Eppure alla retorica in pubblico corrisponde, in privato, u
n atteggiamento di impotenza e di attesa e soprattutto un profondo sconforto proprio di chi vorrebbe quasi anticipare il momento in cui potrà dire: »finalmente è finita! .
Sensibilissimi alla crisi del sistema, i radicali odierni sembrano vivere, in effetti, in un mondo allucinato perché gridano ai quattro venti l'allucinazione collettiva. Pannella, scrive in proposito Benedetti, »resta il mostro che ha inventato un realtà da cui siamo atterriti, e non quello che ne denuncia l'esistenza (4).
Certo la violenza è di tutti i regimi e vent'anni fa, in Italia, ce n'era più di oggi e quarant'anni fa più di ieri; ed inoltre bisogna distinguere tra la violenza psicologica e la violenza materiale e concedere al Grosser che »la parte della credenza è considerevole nell'apprezzamento della violenza non cruenta subita e del suo carattere sopportabile o insopportabile (5). Ma il fatto nuovo è che oggi siamo più consapevoli e meno psicologicamente sprovveduti dinanzi alla sopraffazione e, pertanto, meno disposti ad accettarla - in primo luogo perché, nel frattempo, anche la coscienza morale si è andata evolvendo - siamo indubbiamente divenuti più miti e più sensibili al dolore; in secondo luogo, perché non crediamo più tanto facilmente ai principi e alle giustificazioni cui il potere fa ricorso per legittimare l'uso della forza.
Alla vigilia della rivoluzione francese, un borghese che di lì a poco sarebbe divenuto un tribuno del popolo, ebbe un moto di rabbia realmente violento dinanzi a un nobile che gli aveva sottratto un palco a teatro, da convertirsi all'idea dell'aperta ribellione all'ordine costituito. Forse i suoi antenati avevano sopportato soprusi ben più gravi; senonché, nel frattempo, era mutato l'atteggiamento verso la violenza esercitata dal potere. Quest'ultima, allorché viene ritenuta come inutile e ingiustificata, suscita impulsi di rivolta che non sono meno grandi per il fatto che gli attentati alla libertà riguardano sfere limitate della vita comunitaria. In questi casi, »è il principio che conta . Lo stesso richiamo alle regole del gioco, per disarmare i ribelli, suona falso e stonato. Le »regole del gioco , infatti, a cominciare dalla »conta delle teste , sono una garanzia irrinunciabile di libertà solo quando nella società civile si ha un minimo di consenso e di coesione. La preoccupazione fondamentale dei liber
ali classici - da Consant a Toqueville, da Madison a Stuart Mill - non è stata tanto quella di proclamare i benefici della libertà - noti del resto in tutti i tempi - quanto quella di individuare la base sociale del garantismo giuridico e costituzionale. Pur coi limiti di chi mal rinuncia alla difesa intransigente della proprietà privata, essi indagarono concretamente i rapporti tra società civile e potere politico, tra borghesia e costituzionalismo, senza farsi soverchie illusioni sulle virtù taumaturgiche della "balance of powers". Per garantire la libertà, scriveva ad esempio Tocqueville, »non ho molta fiducia nelle grandi assemblee politiche, nella proclamazione della sovranità popolare. Tutte queste cose si conciliano, fino a un certo punto, con la servitù individuale (6).
Gli istituti rappresentativi, nell'analisi tocquevilliana, costituiscono le condizioni necessarie, ma non sufficienti, di vita democratica: sono strumenti, aggiungiamo noi, atti più a conservare, e a consolidare il potere a chi già lo possiede che non a promuovere, specie nei periodi di crisi, una partecipazione autenticamente popolare, al di fuori dei canali politici ufficiali.
Si può certo discutere all'infinito circa la `critica' del momento storico attuale; resta il fatto che, se in base a considerazioni oggettive, essa risultasse giustificata, richiamare il ribelle al rispetto dei codici (»non di occupa un suolo pubblico , »non di ricatta l'autorità col digiuno etc.) non avrebbe alcun senso.
Alla luce di queste considerazioni, è non poco significativo che, nella polemica aperta tempo fa dal "Corriere della Sera" sul caso Pannella, ad assumere la difesa intransigente delle meccaniche »regole del gioco sia intervenuto proprio Giuseppe Prezzolini, il decano della cultura italiana conservatrice. Il suo articolo merita un attento esame, al di là del fatto di cronaca, non come esempio di particolare penetrazione - sia pure di parte avversa - del fenomeno radicale, né solo perché esso contiene, nella sua chiarezza espositiva e nella sua brevità (Prezzolini è un grande giornalista) molti degli argomenti coi quali il pensiero conservatore cerca di mettere in difficoltà la democrazia come sostanza (partecipazione alle scelte politiche resa possibile dall'integrazione sociale) facendosi scudo con la democrazia come forma (le modalità attraverso cui si realizza la partecipazione). Tutti i conservatori, in realtà, quando non sono al potere, tendono ad ignorare che la democrazia formale è vuota senza la demo
crazia sostanziale, così come questa è cieca senza quella. Ciò che fa l'interesse dell'articolo di Prezzolini, invece, è il modo con cui la retorica conservatrice riesce, nel caso dei radicali, a cambiar le carte in tavola, spostando abilmente, al momento opportuno, il discorso dalla sostanza alla forma e viceversa. E' un gioco di prestigio a cui non avremmo prestato alcuna attenzione, se esso non si prestasse assai bene a farci comprendere "e contrario" come non vada analizzato il fenomeno radicale, quali metri di giudizio portino fuori strada, che cosa rappresenta realmente, nell'Italia contemporanea, il radicalismo della LID e del partito radicale.
Con l'apparente spregiudicatezza di chi, da più di sessant'anni, s'è assunta la parte del pepe nel minestrone borghese, Prezzolini argomenta: in democrazia chi fa le leggi sono il governo e il parlamento; il parlamento è costituito dai partiti e il partito più numeroso è quello che deve avere più voce in capitolo; Pannella non rappresenta nessun partito e non si pone di nessuna forza parlamentare: non si vede pertanto chi, e perché, dovrebbe garantire a un privato cittadino il diritto di parlare in televisione, di interferire nelle vicende interne del "Messaggero", di essere ricevuto dal Presidente della Repubblica. »L'ufficio del Presidente della Repubblica non è, secondo la Costituzione "democratica" che l'Italia si è data, fatto per ricevere tutte le persone che hanno un ideale nella testa (...) La democrazia è così e non l'ho inventata io (7).
Ma la democrazia è proprio `così' e Prezzolini ha ragione di fare il modesto? In altre parole, al di fuori delle forze politiche `istituzionalizzate' vi sono soltanto privati cittadini, a cui non si può riconoscere alcun diritto di parola, per lo meno a livello radiotelevisivo e di grandi quotidiani? In realtà, tutto dipende dalla definizione di `privato'. Prezzolini adopera questo termine confondendo sostanzialmente due categorie di cittadini: coloro che non sono riusciti ancora a trovare una rappresentanza politica ufficiale e coloro che parlano a titolo personale. Probabilmente, da buon conservatore italiano poco disposto ad ascoltare »chi non sta scritto da nessuna parte , egli identifica in buona fede i due significati, senza accorgersi che in tal modo, ogni comprensione dell'"ethos" democratico resta preclusa. La capacità di un sistema democratico di soddisfare le esigenze dei cittadini, infatti, è data soprattutto dalla misura in cui esso riesce a trasformare il `il privato' - nel senso di esigenze no
n ancora `aggregate' - in pubblico. E' un'operazione, questa, così complessa e delicata che dinanzi ad essa la garanzia fornita ai partiti politici ufficiali di concorrere liberamente alla lotta per il governo, assume un valore secondario.
Il principio fatto valere da Prezzolini, radicalmente anti-democratico per l'uso ambiguo del termine `privato' può venire così formulato: "tutti coloro che nella rivendicazione di particolari diritti, non hanno trovato udienza nelle organizzazioni politiche riconosciute dal sistema, parlano a titolo personale". Pertanto le televisioni straniere che hanno consesso a Pannella più di due ore di trasmissione, al tempo del referendum per il divorzio, sono state unicamente mosse dal desiderio di conoscere le opinioni "private" di un italiano qualsiasi. Insomma la democrazia ha istinti o di burocrate (è vietato l'accesso a chi non è munito di visto ufficiale) o di perditempo (chiediamo a un qualsiasi cittadini cosa ne pensa del divorzio e riserviamogli un'intera trasmissione).
Che si sia un qualche grado intermedio tra il parlare a titolo personale e il parlare a nome di una organizzazione politica ufficiale è sospetto che non sfiora neppure Prezzolini, il quale si chiede: e se anche un buddista, un maomettano, un ateo chiedessero di parlare alla televisione? La risposta, per un democratico, non è difficile: se il buddista, il maomettano, l'ateo rappresentano una parte rilevante di opinione pubblica, ebbene anche loro dovrebbero far valere il diritto alla libera comunicazione delle idee attraverso i più importanti mass-media.
Il discorso s'intende, almeno teoricamente, vale anche per il nazista Fumagalli: non sono i libri e le profezie di Gentile e di Evola che impensieriscono un regime democratico, ma le bombe dei terroristi; ed anche coloro che propongono di mettere al bando il MSI - avvalendosi comunque di un preciso dettato costituzionale - non pensano certo a ciò che quel partito "dice", ma a ciò che si presume che "faccia" o aiuti a fare, dietro le quinte (8).
E tuttavia non credo sia possibile stabilire con precisione l'abito di libertà che va assicurato ad ogni movimento o partito politico. La matita e la squadra, in questi casi, servono ben poco ed occorre rimuovere, una buona volta, il complesso di ricadere in una concezione idealistica e qualitativa della libertà ogni volta che a determinati gruppi se ne negano i benefici. Certo la libertà politica fa questione di »più e di meno , ma si tratta di misure che entrano in gioco »a posteriori , coinvolgendo non solo articoli di diritto costituzionale ma anche - e soprattutto - rapporti concreti di potere: relazioni dei membri della »società civile tra loro e col governo.
Croce (e i teorici `realisti' della politica) aveva buon gioco quando, nella sua instancabile polemica contro i `democristiani', scherniva le garanzie costituzionali come veicolo determinante di libertà; senonché egli non riusciva poi a individuare i limiti reali delle ideologie criticate.
A mio avviso, la libertà politica è destinata a rimanere un concetto ambiguo finché non si distinguono almeno tre momenti del rapporto politico che, in mancanza di altre espressioni più appropriare, possiamo così indicare:
a) il piano politico superiore
b) il piano politico inferiore
c) il piano della società civile.
In tutti e tre i piani, per libertà non intendiamo né la libertà qualitativa di origine romantica, fondata sulle diseguaglianze naturali e su quella che Georg Simmel ha chiamato la »legge individuale di sviluppo - intesa come la possibilità per ciascuno di svilupparsi, senza incontrare limiti e ostacoli, secondo la sua più intima e irriducibile natura; né la libertà di Comte, di origine spinoziana o russoviana, consistente in una »sottomissione razionale alla sola supremazia, convenientemente constatata, delle leggi fondamentali della natura, al riparo da ogni arbitrario potere personale (9); sibbene la libertà "antica" di concorrere - possibilmente in prima persona - alla formazione delle leggi - e non solo di quelle politiche "stricto sensu" - volte a definire i nostri obblighi e i nostri diritti nei confronti degli altri consociati; e la libertà "moderna", consistente in un rapporto cioè garantito dall'arbitrio. Entrambe le libertà presentano un côté "positivo" ed uno "negativo". La libertà antica, infa
tti, come libertà di partecipazione, da un lato deve essere garantita, nel suo esercizio, dalla violenza esterna, dall'altro, deve potersi aprire effettivamente la via del governo; la libertà moderna, come garanzia di un corretto rapporto col potere, d'altra parte, deve essere assicurata e per quanto riguarda la non-ingerenza dell'autorità nella "privacy" e per quanto riguarda la possibilità, riconosciuta dal Constant, di influenzare le decisioni della classe politica (10).
Nello schema su riportato, quello "sub a") è il piano in cui forze politiche organizzate concorrono alla distribuzione dei vantaggi che il controllo, diretto o indiretto, del governo conferisce a coloro che, nella gara, sono riusciti a piazzarsi in posizioni strategiche; il piano "sub b"), con riferimento alle categorie impiegate dal Dorso (11) riguarda i rapporti tra classe politica, da una parte, e classe dirigente e classe diretta dall'altra: l'interferenza cioè più o meno grande, che le seconde subiscono ad opera della prima e la disponibilità di questa a recepire le esigenze e le richieste di quelle; il piano "sub c") infine, riguarda le relazioni tra classe dirigente non politica e classe diretta, ovvero i rapporti dei cittadini tra loro: non solo le garanzie approntate per impedire il loro vicendevole impacciarsi, ma anche le effettive "chances" di operare e costruire solidamente.
L'errore dei liberali classici è stato quello di interessarsi prevalentemente alla libertà del piano politico inferiore, poco curandosi della libertà del piano politico superiore e lasciando completamente da parte, infine, il piano della società civile, nell'illusione che questa fosse dotata di una sorta di meccanismo autoregolantesi. Operava in questo atteggiamento l'antico pregiudizio illuministico che aveva indotto Voltaire a scrivere nel "Dizionario filosofico": »Raccogliete da una capo all'altro del mondo i semplici e pacifici agricoltori, e tutti saranno facilmente d'accordo che deve essere permesso di vendere ai propri vicini quanto avanza del proprio grano, e che la legge contraria è inumana e assurda; che le monete le quali rappresentano le merci non debbono essere alterate come non lo debbono essere i frutti della terra; che un padre di famiglia deve essere padrone in casa sua, che la religione deve collegare gli uomini per farli vivere in pace, e non per farne dei fanatici persecutori, che quelli
che lavorano non debbono privarsi del frutto del loro lavoro per premiare la superstizione e l'ozio. Questa brava gente farà in meno di un'ora trenta leggi di questo tipo, tutte utilissime al genere umano (12).
I liberali classici sono consapevoli che la dimensione del potere, o in altri termini il monopolio della forza repressiva da parte dello Stato, è qualcosa cui cui bisogna fare i conti, una triste necessità derivata dal fatto che degli uomini c'è poco da fidarsi, e tuttavia, per quanto riguarda la società civile, condividono pienamente la fiducia e l'ottimismo di Voltaire, estendendoli anche ai non agricoltori, e cioè ai mercanti, agli industriali, ai banchieri, alle classi medie cui la Rivoluzione francese aveva spianato la via del potere. Nelle società civile, quindi, non si pone il problema delle garanzie di libertà: qui infatti non ha alcun senso né l'essere protetti "dall"'interferenza "legale" degli altri, né la capacità "di" determinare attivamente, avvalendosi della legge, il comportamento degli altri. Il diritto tutela i contratti tra privati e ne impone il rispetto, ma ciò non caratterizza uno stato liberale, trattandosi di compiti cui dovrebbe, in teoria, provvedere anche un regime dispotico. Certo
anche un Constant sapeva che la società civile ha le sue vittime e i suoi privilegiati, ma tendeva a riguardare questa circostanza come un fatto di natura, non imputabile, pertanto, a nessuno. Il piano politico superiore, d'altra parte, interessava poco i liberali: che alla guida dello Stato ci fosse Luigi XVIII o Luigi Filippo, aveva poca importanza; l'essenziale era che si applicassero le leggi e si garantisse l'ordine.
Più sensibili, invece, essi erano come s'è detto al piano politico inferiore e, in particolare, ai rapporti tra classe dirigente e classe politica; assicurando alla prima una libertà (negativa) abbastanza ampia dall'interferenza della seconda, lo Stato, a loro avviso, sarebbe divenuto più ricco e più potente e gli stessi conflitti tra le classi si sarebbero attenuati.
Secondo il nostro punto di vista, invece, la libertà politica, in tutti e tre i piani, deve essere valutata in base alla presenza delle due caratteristiche fondamentali che la definiscono - e cioè come libertà "di" fare e di "non" essere costretti a fare (o a non fare", libertà "di" governo e libertà "dal" governo, libertà positiva e libertà negativa etc. E così, a livello "a"), i partiti e le forze politiche, debbono, almeno in teoria, avere "e" il diritto di costituirsi liberamente, senza render conto a nessuno, "e" la possibilità di concorrere alla formazione delle leggi e le governo; a livello "b"), i cittadini debbono, sì essere tutelati dall'arbitrio e dalle prevaricazioni di chi li governa, ma, nello stesso tempo debbono essere in grado di controllare i politici, di sporgere reclami e denunce, di imporre ai governanti riforme consone al progresso dei costumi; a livello "c"), infine, debbono essere tutelati dalla prepotenza dei detentori di risorse economiche e nello stesso tempo poter accedere liberam
ente, da soli o associati ad altri, all'acquisizione di quelle risorse.
Rispondere ora alla domanda »quando una società è libera e democratica? è divenuto relativamente più facile: una società è libera quando il piano politico superiore, il piano politico inferiore e il piano della società civile sono caratterizzati, tutti e tre indistintamente, sia dalla libertà antica, sia dalla libertà moderna, ed esistono garanzie sia "contro" chi fa troppo sia "a favore di" chi non può fare niente; una società è libera, in parole povere, quando si può rivendicare con successo e il diritto di essere lasciati in pace e quello di non essere abbandonati inermi e indifesi alla mercé altrui. E se è vero che nessuno può costringere il barbone che dorme sotto i ponti a diventare un borghese per bene, è anche vero che non si può rifiutare all'emigrato calabrese la libertà di disporre di un letto e di un lavoro.
Va anche detto, però, che non v'è paese al mondo in cui la libertà, in entrambi i suoi aspetti, sia stata realizzata integralmente in tutti e tre i piani. E' la ragione per cui non si può dire, ad esempio, se gli Stati Uniti sono un paese democratico, ma solo se sono più o meno democratici rispetto ad un altro paese. Ha ragione, pertanto, Oppenheim quando scrive che »non esiste la `libertà in generale'; esistono solo determinati tipi d azioni che un gruppo è libero o non-libero di compiere rispetto ad un altro (13).
A livello "a"), per tornare all'esempio americano, gli Stati Uniti sono meno liberi dell'Italia, nel senso della libertà negativa, perché non garantiscono alle formazioni politiche ritenute portatrici di valori opposti a quelli sanciti dal sistema, la libertà di non essere impediti nel professare le proprie idee, la libertà di non dover subire le manganellate della polizia (v. Chicago); e tuttavia sono più liberi dell'Italia, nel senso della libertà positiva, in quanto i due partiti che compongono il Congresso hanno sempre, anche all'opposizione, un'amplissima possibilità di concorrere alla formazione delle leggi e del governo - ciò che, invece, ai comunisti italiani è consentito solo entro certi limiti invalicabili. A livello politico inferiore, invece, sono più liberi nel senso della libertà negativa, in quanto il cittadino è meglio protetto dall'ingerenza del governo - il quale trova nell'individualismo della frontiera un ostacolo spesso insormontabile - e tuttavia sono meno liberi, nel senso della libert
à positiva, almeno nella misura in cui è più difficile trasformare valori non riconosciuti dalla maggioranza silenziosa in valori culturali ufficiali. Beninteso, si tratta di asserzioni "empiriche" che una ricerca seria potrebbe anche dimostrare parzialmente infondate. Ciò che interessa, comunque, non sono i contenuti dell'esempio, quanto il metodo di valutazione proposto.
In base a ciò che si è detto, il proposito (implicito o meno) di togliere ad Almirante il diritto di »sostenere le sue idee antidemocratiche, o democratiche in un modo diverso da quello di Pasolini (14) non basta a togliere la patente di democraticità.
La libertà politica di cui si fa questione, infatti, è solo la libertà, positiva e/o negativa, del piano "a") e se essa venisse sottratta al partito di Almirante, la somma di libertà riconosciute dal sistema politico italiano verrebbe senza dubbio decurtata, come si sostiene, ingenuamente o ipocritamente a seconda dei casi - sempre in nome di quella libertà `sostanziale', per cui si può costringere ad essere liberi, col risultato di diventar tali solo in una comoda bara).
Se l'unico nazista di una società X si trova al sicuro nelle patrie galere, dovremmo dire, a rigor di termini, che quella società non è democratica al cento per cento, perché tutti i cittadini sono politicamente liberi, "tranne uno". Certo, il senso comune si ribella contro un criterio siffatto di valutazione - e non ha tutti i torti. La società X, esso obietta, non è libera, ma liberissima: e quale altra ha avuto nel passato, ed ha al presente, un solo oppositore totalitario al sistema democratico dominante? E nondimeno il senso comune ha torto nella misura in cui, definendo liberissima la società X, non specifica che essa lo è solo "rispetto" alle altre - si tratti pure di tutte le altre.
Tenendo conto dei tre momenti del rapporto politico esaminati, la soppressione del MSI costituirebbe una perdita "secca" di libertà solo se si potesse dimostrare che questa perdita avrebbe ripercussioni negative, oltre che sul piano "a"), anche su quello "b") e "c"). Ove ciò non si verificasse, alla domanda »è democratica una società che non concede al MSI diritto di cittadinanza politica? si potrebbe tranquillamente rispondere con l'affermativa, anche se con grave scandalo della ragione sofistica, salva restando, naturalmente, l'avvertenza che, così agendo, il sistema politico avrebbe pur sempre un organo "in meno" - organo, tuttavia, così patologicamente attivo da minacciare l'intero corpo. (L'ideale, però, riprendendo la metafora di Tocqueville, resta un organismo le cui membra siano tutte in buona salute e cooperino tutte all'armonico realizzarsi dell'insieme).
A questo punto si potrebbe obiettare: »chi, e in base a quali infallibili criteri, decide se un partito costituisce un elemento cancerogeno dell'organismo politico? . La risposta purtroppo, non può avere la precisione di un teorema geometrico. La responsabilità finale della decisione ricade sul piano "a") e quivi non si danno legittimità i cui titoli siano antichi e ineccepibili. Epperò un conto è chiedersi se coloro che hanno adottato un certo provvedimento discriminante avessero tutte le carte in regola per prenderlo, un conto è la verifica a posteriori degli esiti che ne sono derivati. Questa verifica non è affatto difficile: si tratta di vedere, in ultima istanza, se sui piani "b") e "c") la somma di libertà è aumentata, diminuita o rimasta stazionaria in seguito ad un atto illiberale riguardante il piano "a").
Scomparso il MSI, le relazioni tra i gruppi di potere della società civile - tra loro e col governo - diverranno meno tese? Gli attentati saranno meno incoraggianti? Certi strati privilegiati si rassegnano, finalmente, dinanzi alla vittoria delle istituzioni libere nate dalla Resistenza e saranno più disposti ad affidare ai partiti conservatori - ma democratici - la rappresentanza dei loro interessi? Dalla risposta a queste domande dipende la giustezza o l'opportunità dello scioglimento delle organizzazioni neofasciste.
Il richiamo alla Costituzione che vieta la rinascita del partito fascista, invece, non mi sembra risolutivo. In tal modo, infatti, ci si limita semplicemente a spostare il problema: se un partito dichiara di non aver nulla in comune col passato regime totalitario in base a quale criterio si potrà decidere "infallibilmente" se esso mente o meno? Diciamo la verità: sciogliere il MSI comporta un atto di forza - e, astrattamente, di arbitrio - la cui legittimità può giustificarsi solo a posteriori, e la cui pericolosità, proprio perché in questo caso "voluntas fertur in incognitum" (per la difficoltà di prevedere ciò che riserva il futuro e la serie di reazioni derivanti sul piano politico inferiore e sul piano della società civile da una limitazione della libertà sul piano politico superiore) non va sottovalutata (15).
La libertà politica, purtroppo, è un fatto "empirico": essa dipende non dal bilancino del filosofo teoretico che decide a tavolino in base a quali criteri si possa valutare l'inclinazione totalitaria di un partito, ma dai calcoli di laboratorio del politologo che indica all'uomo di Stato i "pro" e i "contra" di ogni decisione.
L'esempio di paesi democratici che hanno vietato la costituzione dei partiti totalitari (di destra e di sinistra), lungi dall'infirmarla, prova la validità di questa tesi. Quel divieto, infatti, non minaccia la libertà sul piano politico inferiore, e sul piano della società civile, in quanto le istanze conservatrici e le istanze progressiste trovano sempre, in quegli Stati, uomini e correnti di partito disposti ad assumerne la rappresentanza. Ove questo non dovesse più verificarsi, il mancato riconoscimento della libertà sul piano "a"), potrebbe minacciare il costume democratico e le istituzioni liberali nel loro complesso.
Note
(1) G. Spadolini, "La battaglia dei radicali", "Corriere della Sera" del 25 luglio 1974.
(2) P. P. Pasolini, "Apriamo un dibattito sul caso Pannella", id. 16 luglio 1974.
(3) M. Ferrara, "I comunisti rispondono a Pasolini su Pannella", id. 18 luglio 1974.
(4) A. Benedetti, "Una voce contro l'ipocrisia", id. 26 giugno 1974.
(5) A. Grosser, "In nome di che?", F. Angeli, Milano, 1970; pag. 163. Sul tema della violenza ci sembrano validissime le osservazioni di N. Bobbio - v. Tavola rotonda sulla violenza pubblicata da "Civiltà delle macchine", anno XIX, nn. 3-4, maggio-agosto 1971 - e di M. Stoppino, "Gli usi politici della violenza" - ne "Il Politico", anno XXXVIII, n. 3, settembre 1973 - pagg. 445-67.