Radicali.it - sito ufficiale di Radicali Italiani
Notizie Radicali, il giornale telematico di Radicali Italiani
cerca [dal 1999]


i testi dal 1955 al 1998

  RSS
ven 22 nov. 2024
[ cerca in archivio ] ARCHIVIO STORICO RADICALE
Archivio Partito radicale
Pannella Marco - 23 gennaio 1975
FRANCIA: PARLANO GLI ORFANI DEL GENERALE
Viaggio nel vuoto gollista

di Marco Pannella

SOMMARIO: "Non sono al mio posto fra i gollisti, sono radicali", dichiara a "Il Mondo" il presidente della camera Edgar Faure. "Un incontro con i socialisti non è affatto da escludere", assicura l'ex presidente del Consiglio Debré. Intanto il presidente Giscard, che doveva recarsi in Vaticano, ha annullato il viaggio per protesta contro l'intervento della Santa Sede sull'aborto. Il vero padrone del partito è il primo ministro Jacques Chirac. Che ne pensano i rappresentanti del "clan corso", il ministro Tomasini e l'ex segretario generale dell'Udr, Sanguinetti? Le ebbrezze di Michel Jobert e le dichiarazioni del presidente del gruppo parlamentare Claude Labbé.

(IL MONDO, 23 gennaio 1975)

------

PARIGI. "Mi trovo in una situazione paradossale. Non sono al mio posto", mi sta dicendo Edgar Faure, mentre s'accomoda nella poltrona del suo studio privato di presidente della Camera, a palazzo Borbone. "Sono un radicale. Ma l'unico partito radicale che esista è quello di Robert Fabre, che non è molto di più di una appendice del partito socialista di Mitterrand. L'altro, di cui mi si offrirebbe la presidenza, quello di Jean Jacques Servan Schreiber, non si sa bene che cosa sia. Il programma comune della sinistra è troppo marcato da necessità operative e elettorali: se non valesse questa spiegazione e questa giustificazione, non sarebbe che un cumulo di asinerie. Lei mi chiede quali sono le prospettive, la logica, gli interessi effettivi, le proiezioni, magari anche i miti della maggioranza gollista. Le confesso che sono io stesso ancora senza una risposta. Al suo interno, certo, non sono a mio agio, indosso panni non miei. Allora cosa vuole che faccia? Sono poi il presidente della Camera, e questo comporta

alcuni obblighi e limitazioni nell'iniziativa politica di parte. Ma mi interrogo".

Sua moglie Lucie, attiva scrittrice e donna di talento, la sua ninfa Egeria, gli ha duramente rimproverato questa eccessiva propensione ad interrogarsi, quando c'era da agire, nella primavera scorsa, alla morte di Pompidou. Faure era dato da tutti come partente sicuro della corsa alla successione e alla sua presidenza alla Camera, generalmente, veniva assegnata la funzione di trampolino per l'Eliseo. Questo personaggio che ha la voluttà dell'intelligenza, delle idee, dei dialoghi, del potere, della poltrona e dei libri e forse ormai più vanità che ambizione, evoca bene cent'anni di radicalismo borghese, tollerante e classista, che fu espressione della nascosta dittatura della composita provincia francese sulla industriale regione parigina, sulle strutture giacobine, centralizzate dello stato piuttosto che prodotto "radicale" dei ceti emergenti e di alternative sociali. Ci si ricorda che il tanto deprecato "opportunismo" fu all'origine di una definizione positiva del parlamentarismo "democratico" di Gambetta,

e l'ideologia ufficiale della terza e della quarta repubblica, e nel 1955 di cent'anni di potere. Faure fu il più giovane ministro, il più giovane presidente del Consiglio della repubblica. Si convertì subito, nel 1958, al nuovo sovrano, al generale De Gaulle. Ne divenne un "grand commis": a lui si deve il successo della politica di convergenza e alleanza diplomatica, all'inizio degli anni sessanta, fra Pechino e Parigi. Nel 1968, di nuovo ministro della Pubblica istruzione, propose una riforma radicale davvero, ma astratta e non realizzata dai suoi successori.

"I temi gollisti", continua il presidente Fure, "hanno trionfato storicamente (indipendenza nazionale come presupposto necessario per superamenti e riforme, nuove istituzioni) sicché non sono più un elemento di definizione politica ma patrimonio di gran parte dello schieramento partitico. D'altra parte, non è vero che il paese è diviso, spaccato a metà. Le maggioranze vere sono quelle che chiamo maggioranza di idee, sulle quali si può ritrovare quel due-terzi di adesioni che consentono davvero governo e progresso. Altrimenti, quel che sembra esser regolato da un determinata politica, in realtà non è che regolato dall'inazione. E' la teoria matematica degli insieme...".

Il cadavere nell'armadio

Cosa vuole fare? "Giscard", prosegue, "si ritiene a sinistra, lo vedono a destra. Ma perfino molti gollisti del mio gruppo (``nuovo contratto sociale''), deputati gollisti in maggioranza, che avevano forti riserve contro di lui ritenendosi più progressisti e aperti socialmente, nelle scorse settimane esitavano a votare per la nuova regolamentazione dell'aborto. Giscard s'iscrive pienamente nella linea di De Gaulle; dovrebbe quindi essere sostenuto dall'UDR e dai suoi leader più tradizionali o prestigiosi; il che non accade, o non accade spontaneamente. Giscard dovrebbe ormai avere il suo partito personale, che d'altra parte coincide con quello che è o potrebbe essere il mio...".

Lascio Edgar Faure; non è da questo barone seduto, anche se al vertice dello stato, che trarrò qualcosa che somigli ad una apologia o a una autodifesa politica della componente gollista della maggioranza. Vado allora da Michel Debré, il fedelissimo di sempre, la vestale del pensiero, della moralità, delle "grandeur" nazionale e gollista; giacobino tradizionale, nazionalista accanito, per anni unica voce in Francia dell'opposizione gollista (mentre De Gaulle tramava attivamente nel preteso "silenzio" di Colombey per far crollare la quarta repubblica, ma faceva dichiarare che, dissentendo, taceva). I suoi interventi sul suo giornaletto personale, il "Corriere della Còlera", erano invettive cui solo l'altro giacobino di allora, François Mitterrand, nei governi repubblicani, sapeva oratoriamente corrispondere in modo appropriato. Presidente del consiglio prima di Pompidou, negli anni peggiori della guerra d'Algeria, della crisi dell'esercito, delle lotte contro tutto quel che non appariva "ortodosso", cioè di ob

bedienza quotidiana a De Gaulle, viene ancora considerato da non pochi come il "barone" combattente, capace di scatenare nuove lotte di alternativa e di successione.

Trovo un Debré prudente, forse incerto. Ma è fermo quando dichiara: "A partire da una indipendenza nazionale che fosse davvero affermata in comune, non più messa in causa o in pericolo da ritorni al passato, l'ipotesi di un incontro fra movimento gollista e partito socialista non è affatto da scartarsi. Ma, per almeno due anni, i problemi dell'inflazione e della disoccupazione detteranno le loro urgenze, e saranno avvertiti, a torto o a ragione, come i principali".

Penso che questa affermazione di Debré potrà destare qualche sorpresa e più di una interpretazione. Da quando l'ho udita, molti fatti sono accaduti che sembrano aver reso Debré più polemico, nei suoi sentimenti, più deciso a contendere all'attuale, nuova direzione, il controllo dell'UDR o la legittimità della rappresentanza "gollista". E' quindi possibile che fra le ipotesi ch'egli sta prendendo in considerazione, vi sia effettivamente quella di un rovesciamento progressivo delle alleanze. Ma chi lo seguirebbe? E chi lo segue davvero, già oggi?

"Si insiste in un vecchio disegno", prosegue Debré. "Che tuttora resta perdente: si cerca di sostituire l'UDR, facendola scoppiare, con il cosiddetto ``changement'', come ieri con l'``apertura'' della maggioranza, integrando i ``centristi'' e sollecitando i socialisti ad una convergenza, per poi andare alle elezioni anticipate, e spezzare in questa occasione l'UDR, per ridurne il condizionante e preminente peso parlamentare. Ma, malgrado le polemiche, l'alleanza social-comunista è in tal caso in grado di minacciare di vincerle. E questo è un buon deterrente contro l'operazione".

Guardo l'armadio e mi chiedo se Debré non vi abbia per caso nascosto il cadavere del suo movimento, per non vederlo. "Un altro obiettivo, meno tattico, ancor più qualificante, ma connesso comunque all'operazione contro l'UDR, è quello di un atlantismo e di una Europa al di sopra dell'indipendenza, con una nuova politica mediterranea; con l'abbandono dell'unica difesa nazionale possibile e, perfino sul piano delle istituzioni, con riforme elettorali che ristabiliscano la proporzionale. Nulla di definitivo, per ora, è acquisito in questa direzione. Il bilancio militare è vittima dell'inflazione, non si fa nulla per difenderlo. Se ciò è dovuto solo alla congiuntura, per un anno, passi... Altrimenti... Dicono che non ci sarà politica di integrazione sovranazionale. Lo dicono. Staremo a vedere. C'è il cosiddetto ``liberalismo'' che è invece piuttosto un lasciar fare. Non v'è uno sforzo chiaro di guida economica, che non è d'altra parte nella vera prospettiva di questo potere. Come per Pompidou, con Giscard sembra

che si navighi a vista. Anche il vocabolario e lo stile sono sostanza politica, pesano, sono funzione necessaria e qualificante degli obiettivi. E' necessario più volontarismo e sono i socialisti ad averlo o mostrarlo. Era lo stesso con Messmer...".

"Signor presidente", gli ricordo, "lei ha polemizzato duramente contro la proposta di liberalizzazione dell'aborto, e con altri leader gollisti ha votato contro. Eppure era il governo Messmer lo scorso anno ad averlo presentato. E non teme che questa identificazione con la minoranza clericale e autoritaria le nuoccia?".

"Non mi sono confuso con la campagna di pressione a volte terroristica sui temi di ``lasciateli vivere''. Anche se tutto quanto tocca la vita deve esser maneggiato con prudenza dalle leggi dello stato: si sa dove si comincia, non dove si va. L'ho detto e ne sono convinto. Ma penso di aver interpretato anzitutto un vecchio sentimento nazionale francese, non di oggi, di sempre: l'assillo della denatalità. Una politica demografica...".

Signor presidente, conosco l'argomento: il numero è potenza. L'ho appreso a scuola, nell'Italia degli anni trenta.

Ma decisamente quest'aborto m'insegna anche a Parigi. Infatti: "Se vede Amanrich a Roma, me lo saluti. Ma se vuole un consiglio non gli parli d'aborto: rischierebbe un travaso di bile", mi confida un ministro, lo stesso che per illustrarmi i rapporti fra il principe Poniatowskj, ministro dell'Interno, e il presidente Valery Giscard d'Estaing, li aveva paragonati a Emil Jennings e Marlène Dietrich nell'"Angelo azzurro".

"Roma non vale questa messa"

Non capisco. Siamo qui, oggi, per parlare dei gollisti, dell'UDR; seconda tappa sulla maggioranza parlamentare in questo giro d'orizzonte fra le forze politiche francesi. Ricordo appena che Amanrich è il nuovo ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, e penso che il ministro sappia che è piuttosto improbabile ch'io lo incontri. Ma mi trovo anzitutto dinanzi ad un abile e convincente apologeta del presidente francese nell'esercizio discreto delle sue funzioni; il seguito di quel che racconta lo conferma. "Giscard era d'accordo per una visita in Vaticano nel primo trimestre dell'anno. Dell'Anno santo, quindi", prosegue. "Amanrich avrebbe iniziato la sua missione con un evento di prestigio, un successo innegabile. I contatti con la segreteria di stato erano positivamente avviati, il Quai d'Orsay preparava dossier e modalità della visita. Ma quando il Vaticano è intervenuto, proprio alla vigilia del voto del nostro parlamento per la riforma che è poi passata, con il suo documento contro ogni riforma liberale

sull'aborto, Giscard ha subito reagito con durezza. Quando poi ha visto le lacrime agli occhi del povero Lacanuet, il democristiano che è ministro della Giustizia e che doveva difendere con Simone Veil direttamente il progetto, è sbottato: ``Roma non vale per ora questa messa; annullate il mio viaggio. Amanrich era desolato. Ora sembra che si torni a parlare di questa possibilità. Ma intanto un pellegrino di taglia è mancato all'appello del Papa. In Vaticano ci teneva perché Giscard, un presidente laico, fosse andato in questo periodo, poteva accelerare l'arrivo d'altri illustri personaggi tuttora indecisi. E anche Domiette Hercolani, in quanto nobildonna dell'aristocrazia nera, non vedrà così presto Giscard nell'esercizio ufficiale delle sue funzioni, almeno a Roma".

Spesso, nelle camere del potere, sto incontrando a Parigi una strana atmosfera. Con Giscard, una generazione che conosce e sa usare le bianche stanze dei bottoni elettronici di governo, giovane, sicuramente moderna, porta con sé anche odori desueti: quelli, monarchici o di terza repubblica, dei salotti e delle "confidences sur l'oreiller", di segreti politici di piccoli clan, quando non d'alcova. Spesso ascoltarli, decifrarli, potrebbe non essere gratuita curiosità ma doverosa attenzione alla singolare sociologia del potere che va delineando. Che il presidente, Jean-Jacques Servan-Schreiber, Simon Nora e Jacques Duhamel avessero, ventenni, in quattro, un loro comune pied-à-terre, appartiene certo alla loro storia e vita privata e sarebbe sconveniente soffermarcisi. Ma quando si sono udite le invettive comuniste, sempre più irose e convinte, sull'"oligarchia" che più che mai oggi, con Giscard, dominerebbe la Francia, quel piccolo fatto lontano non manca di qualche suggestione. Si può forse concedere, se lo si

vuole, che ci si trova piuttosto dinanzi ad una "nuova aristocrazia", borghese, liberale, contraddittoria, ma non meschina e vile, come la destra è abituata a offrirci. Il ministro, cui vado facendo queste riflessioni, non le rifiuta. "Non dimenticavo", riprende, "l'oggetto della nostra conversazione. Ma Giscard che rinvia o annulla, silenziosamente quanto decisamente, il viaggio in Vaticano, mostra un senso dello stato, della sua autonomia e dignità, che De Gaulle affermava con stile certo diverso, con magniloquenza, o disdegno. Nella sostanza, sia i gollisti che lo detestavano sia i comunisti sembrano cominciare a chiedersi se davvero si trovano dinanzi al ``presidente americano'' che temevano... Comunque, in pochi mesi la situazione si va rovesciando. E' come se l'intera classe dirigente francese si stia nascostamente saldando, ma questa volta non più contro Giscard: contro Mitterrand. Gli sconvolgimenti maggiori degli equilibri tradizionali vengono da quella parte, se continua a crescere. E' per questo

che il movimento gollista vedrà scomparire o dislocarsi altrove molti dei suoi capi tradizionali, i suoi ``baroni'' mentre nella sua maggioranza di parlamentari, di notabili, di elettori confluirà nel ``partito del presidente'' che costituiremo prima delle elezioni anticipate, nel 1976, probabilmente in autunno, dove finiranno per dissolversi gli stessi ``repubblicani indipendenti'', i centristi delle varie famiglie; con una piccola appendice radical-riformatrice e socialdemocratica, a sinistra".

Altre profezie? Siamo all'inizio dell'anno nuovo.

"Giscard riuscirà, alla fine, a ottenere quel che vuole: governare anche con i socialisti. I comunisti non credono più nella vittoria della sinistra unita per i prossimi anni: non la desiderano nemmeno. Cambieremo le leggi elettorali: molti sindaci e molti parlamentari socialisti non saranno così eletti necessariamente in alleanza con i comunisti. Ma abbiamo bisogno, per questo, di tre o quattro anni, non di uno". E i gollisti?

"Sono i giscardiani, ormai. Chirac non ha altra prospettiva che quella di stare a Giscard più lungamente, più autorevolmente, di come Debré e poi Pompidou sono stati a De Gaulle. Con maggior forza di contrattazione e garanzia di continuità. E Chirac è ormai il ``patron'' dell'UDR. Oggi il numero di due del potere è lui, non Poniatowskj. Un anno fa era poco meno di sconosciuto".

Aggiunge un gran bene sul primo ministro: quarantenne, poderoso divoratore di dossier, fra i più capaci tecnocrati di stato, politico ambizioso, duro, prudente, tenace e capace d'esser politicamente molto legato a Pompidou è un "gollista" troppo giovane per aver legato alla "figura del padre", De Gaulle, ogni suo disegno politico generale. "Ma durerà fin quando Giscard", conclude, "non riterrà che diventa troppo forte e necessario". Ma hanno proprio torto, allora, i comunisti francesi?

Avevo incontrato alcuni leader gollisti proprio alla vigilia del comitato centrale di dicembre, di quella "notte dei lunghi coltelli" che ha traumaticamente trasformato il loro movimento, l'UDR, in "cosa nostra" di Jacques Chirac, primo ministro del presidente Giscard d'Estaing, e del suo "clan corso", guidato dal ministro René Tomasini, dall'ex-segretario generale Alexandre Sanguinetti, e dal deputato Charles Pasqua.

I giochi non erano ancora fatti. Tomasini pensava che il confronto definitivo fra l'ala giscardiana guidata da Chirac e il resto del movimento si sarebbe avuto solo a febbraio.

La sortita di Chirac

"Certo", mi confermava, "quelli che vengono chiamati ``baroni del gollismo'', fra i quali gli ex-presidenti del consiglio Debré, Messmre, Chaban-Delmas, Couve de Mourville, o altri come Oliver Guichard, non amano il corso che le cose stanno prendendo. Il loro prestigio resta grande fra un certo tipo di militanti e per molti è impensabile uno sviluppo dell'UDR che non sia quello da loro indicato, quando l'indicano. Ma la forza politica, ormai, è dalla nostra parte. Intanto sono divisi, più di quanto non appaia. Chaban, dopo il disastro di maggio, in cui coinvolse il movimento gollista, non ha più possibilità di rappresentare una linea politica maggioritaria. Couve, Messmer... vedremo, non sono problemi difficili. Restano Debré e Oliver Guichard. Lo so, pensano a quest'ultimo come al prossimo segretario generale al posto di Sanguinetti. Oliver è certo un uomo politico di taglia. Ama, conosce e sa usare il potere. Sa che, alcune posizioni essenziali del gollismo rispettate (l'attuale Costituzione, l'autonomia i

n politica internazionale e della difesa nazionale), il nostro è un movimento che non può essere oggi mutato in un tradizionale partito di opposizione o comunque di quarta repubblica. Giscard e Chirac non potevano che esserne e stanno divenendo sempre di più i suoi principali punti di riferimento. Comunque, se tentano con Guichard, noi opporremo Chirac".

René Tomasini tace un istante per studiare la mia reazione. Il primo ministro che si espone ad esser, se non battuto, almeno combattuto durissimamente per divenire il successore di Alexandre Sanguinetti? Il primo ministro, capo di un partito? "Ma le chiedo di non scriverlo, assolutamente; di non parlarne. Cosa vuole che facciano? Glielo dico io. Grideranno per un po'. Chi comunque si prepara a far bagagli e ad andarsene, se ne andrà. Ma sono forze, e forse anche personaggi, marginali. Mi creda, siamo sicuri, e tranquilli".

La stampa e i commentatori politici francesi sono unanimi nell'affermare che la clamorosa sortita di Chirac sarebbe stata decisa in poche ore, dopo una cena con i baroni, la notte precedente il comitato centrale dell'UDR. Prima che l'operazione si concludesse riferii, tacendone la fonte, ad alcuni colleghi francesi il proposito del ministro. Mi risposero, unanimi, che si trattava di una azione impensabile. Si realizzò dopo una settimana!

Più di due ore con un uomo di governo come René Tomasini mi ricollocano in una dimensione politica che conosco perfettamente. Quel che gli interessa, conosce, lo appassiona, è solo l'uso del potere per mantenerlo, se possibile accrescerlo. Non altro. Sarebbe, da noi, un perfetto fanfaniano; un Gioia, per esempio. Ma perché, mi chiedo, non un perfetto doroteo, o un perfetto moroteo, o un basista? E' una guida preziosa, un conoscitore profondo del bosco e del sottobosco parlamentare e di quello politico.

Alexandre Sanguinetti oggi tace. Avversario aggressivo e polemico di Chirac e di quanti non avevano appoggiato il candidato ufficiale del movimento gollista, Chaban Delmas, dopo la sconfitta, aveva per qualche settimana continuato a dirigere l'UDR con jattanza, e anche con un certo simpatico quanto vano ottimismo, professando volontà di ampia autonomia nei confronti della politica giscardiana. Poi, più realisticamente, aveva cercato un rilancio spostandosi dalla parte di Chirac.

Doveva sentirsi tranquillo, quando mi ha ricevuto. Sono certo che a pochi giorni dalle sue dimissioni e dal suo appoggio alla candidatura di Chirac non avrebbe mai immaginato di dover arrivare, e così fulmineamente, a cancellarsi dalla massima responsabilità politica dell'UDR, senza combattere. Sembrava che fra le principali sue occupazioni fosse quella di demolire ogni credibilità dell'ex-ministro degli Esteri Jobert, sceso in campagna con grande clamore; e quella di accumulare meriti presso la base dell'UDR, gli "chirachiani", e la stampa, per affermarsi come successore di se stesso alla direzione del movimento in opposizione ai "baroni".

"Jobert?", mi chiede quasi con stupore. "Anche per lei è un interrogativo? Se lo tenga. Non ne tirerà fuori altro: nemmeno fra sette anni. E' come un uomo che a cinquanta anni ha scoperto l'amore: è inebriato. E Jobert, dopo i suoi pochi mesi di ministero degli Esteri con Messmer e Pompidou, gli aerei e i vertici internazionali, lo è ora di fronte alla politica. Ha letto il suo libro? Quando un politico non ha nulla di meglio che proporre cronache della sua infanzia! Cercherà di mettere su un 3 per cento di suffragi. Perché crede che la stampa, "Le Monde" in particolare, gli dia tanto spazio? Perché Jobert può portare alla sinistra, su un certo piano, i voti che gli mancano. Non creda a coloro che dicono di pensare che vi sia invece l'operazione opposta. Chi vuole che l'ascolti? Intanto non sa che compitare la sua battuta preferita, che scambia per un programma o un manifesto: "Non sto né nella maggioranza né nell'opposizione, ma altrove". Ne è molto fiero.

Qual è la strategia attuale dell'UDR?, gli chiedo. "Andremo avanti per la nostra strada: non raggiungeremo né la sinistra né la destra. Cos'è la destra, dice? I cosiddetti centristi. Non le basta? Va bene: sono i ``repubblicani indipendenti'' di Giscard d'Estaing. No, non li abbiamo raggiunti, sono loro che hanno bisogno di noi. Perché mai crede che Giscard sia andato alla tomba di De Gaulle, a Colombey, per affetto? E si sia fatto fotografare sul sommergibile nucleare? E abbia liquidato il generale Stehling, l'uomo dell'industria e della politica americana? La sinistra, non la raggiungeremmo nemmeno in questo modo. Da 30 anni abbiamo contro un uomo e un partito: Mitterrand e il partito comunista. E Mitterrand su tutta la linea. Anche ora non penso che i socialisti siano veramente, come proclamano, contro le posizioni ``europee'' e ``atlantiche'', almeno non tutti. E sbagliano anche quando pensano che una maggioranza della borghesia nazionale e delle forze capitaliste francesi è acquisita alla causa delle mu

ltinazionali. L'indipendenza economica e quindi politica non passa affatto attraverso il loro collettivismo. Se non sono marxista è anche perché credo che la politica sia innanzitutto un fatto di passioni e di sentimenti: la massa è conservatrice. Sono conservatori i contadini delle più povere regioni di Francia, che votano socialista, sempre. A che gli serve? Ciascuno è conservatore di se stesso. Certo ora la Francia è sempre spaccata a metà fra maggioranza e minoranza, ma le prospettive non sono in questa partizione. La crisi è meno grave che in Italia; gli squilibri sono meno gravi, ci siamo sbarazzati da tempo delle forze clericali, abbiamo minor violenza nei conflitti sociali e politici, siamo sorpresi quando vediamo come si muove la polizia italiana. Inimmaginabile, qui, che si spari".

Orléanisti o Terzo stato?

Ricordo Alexandre Sanguinetti, nel 1961, direttore del gabinetto del ministro Frey, agli Interni, quando poliziotti dell'Oas massacrarono dei pacifici manifestanti per la pace in Algeria, lanciando contro la folla ammassata all'entrata sotterranea del metro Charonne i tavolini di marmo dei caffè vicini. Lo interrompo con una sola parola: "Charonne". Sanguinetti esita un istante, interdetto: "Cosa c'entra? Non creda a quel che raccontano. Io ero in posizione di responsabilità, in quel momento. Cosa c'entra la polizia. Gli otto morti furono vittime della folla, che li ha schiacciati. No, i vostri ``celerini'' qui sarebbero inimmaginabili. Non abbiamo bisogno della violenza, siamo una realtà incomprimibile della società nazionale. Guardi questa sede di dieci stanze, la sede centrale del movimento che da solo quasi la metà dei parlamentari francesi. Forse ha qualcosa in comune con un palazzo all'Eur della democrazia cristiana? Forse che ne abbia il danaro?".

Sanguinetti qui è sincero. Probabilmente, se avesse avuto modo di pagare un centinaio di milioni di debiti dell'UDR e investire i cinquanta milioni necessari per un congresso straordinario del movimento, egli sarebbe ancora Segretario generale. I danari, in genere, sono amministrati dai baroni o dai ministri. Tranne alcuni. Vi sono processi clamorosi in preparazione, in Francia. Alla base, in non poche regioni, strani ceffi marsigliesi e corsi, più o meno inseritisi nella Resistenza francese come la mafia siciliana al tempo dello sbarco americano, erano i massimi responsabili dei Sac, le squadre d'azione e di difesa golliste. Arrestati, s'ostinano ora a dichiarare che i miliardi frutto delle loro rapine, della droga, dei casinò dei quali sono divenuti proprietari, dei grandi circuiti della prostituzione, erano destinati al finanziamento d'un grande e povero movimento. Mentono, certo. Ma le protezioni politiche delle quali spesso hanno goduto fanno parte dei dossier ghiottamente accumulati dal ministro degli

Interni Poniatowskj...

"I rapporti con il governo sono complessi; dobbiamo avere la nostra autonomia. Essere vigilanti, o critici, o attenti. Sul piano economico, raffazzona. Prestiti per l'automobile, non un soldo per l'informatica...".

"Certo, il primo ministro è dell'UDR e la rappresenta, anche, in un certo senso. Ma io non sono un profeta, non so come finirà...". Aveva ragione, Alexandre Sanguinetti. Chirac e Tomasini non glielo avevano ancora detto.

Otto giorni dopo esplose la bomba: Sanguinetti si dimette improvvisamente, proponendo al suo posto Chirac. Scomparendo, per il momento, dalla vita politica ufficiale, con un vago posto di consulenza politica in un ministero, ma avendo ben meritato, con il suo sacrificio, dal potere.

Il presidente del gruppo parlamentare UDR, rieletto all'unanimità in questi giorni, Claude Labbé, porta bene il suo nome: d'un abate ha la dignitosa, curiale compostezza, un argentea e consapevole mediocrità. E' entrato negli ordini e ha preso l'abito gollista molto giovane. "Io non ho mai fatto politica se non con De Gaulle, giovanissimo ufficiale prima, poi militante e esponente del RPF, UNR, UDR... Sono totalmente gollista come un altro può essere socialista", ripete e prosegue: "Cosa ci unisce oggi? Un fatto storico, di generazione politica e anche anagrafica, che ci ha marcato per quanto diversi, e ci caratterizza spesso, noi malgrado o inconsapevoli. C'è poi il fatto che il nostro gruppo parlamentare è la parte essenziale, quantitativamente e qualitativamente, della maggioranza parlamentare e anche presidenziale". Il presidente Labbé mi perdonerà se non lo cito ampiamente, come vorrei per corrispondere alla sua pazienza e cortesia. Ma l'essenziale, è lui che l'ha detto. Il movimento gollista è irriduci

bilmente un fatto di generazione, formatasi e organizzatasi in circostanze storiche singolari e irripetibili. Non può quindi, essere assassinato, scomparire, ma solo estinguersi. E si sta estinguendo fra i sussulti.

Il suo punto di forze, oggi, è nel numero dei deputati che l'intervento abile e anche arbitrario del presidente Pompidou, nella campagna elettorale del 1973, seppero conquistargli. Questa forza, che è la forza del "marais", della palude parlamentare, dovrebbe costituzionalmente durare fino alle elezioni politiche del 1977. Fino ad allora il suo potere di contrattazione, se fosse unito, come non è, sarebbe assicurato. Ma la nuova Francia politica, attraverso i suoi due leader di oggi, Giscard e Mitterrand, non intende attendere fino ad allora per avere rappresentanza e potere adeguati e omogenei nelle istituzioni parlamentari. A meno di imprevisti drammatici, nuove elezioni saranno indette al massimo entro due anni. Allora torneranno, certo, in parlamento molti degli attuali deputati rappresentati dal presidente Labbé. La maggior parte saranno coloro cui Giscard ordinerà o consentirà a Chirac di dare l'investitura, dopo l'atto formale di sottomissione al nuovo sovrano. Pochi altri, gli Hamon e i Pisani, i Cha

rbonnel e i Peyret, con qualche giovane dell'Unione des Jeunes pour le Progrés, torneranno eletti dalla sinistra, divisa o unita, di Mitterrand, Marchais e Fabre. Il gollismo non sarà più allora che un deserto dove, come ombre d'Edipo, disperati e clamanti, Michel Debré e qualche altro suo amico parleranno del padre e del maestro, credendosi evangelisti e profeti. Ma De Gaulle, furono loro ad ucciderlo. Quando in luogo delle idee e delle leggi, dei programmi e della cultura, si pone con la violenza sull'altare un uomo, e si fa d'un paese e del proprio cuore un luogo di adorazione e di obbedienza, l'unica speranza lecita è che non si trascini nella fatale tragedia finale, con se stessi, il resto della società. In questo, almeno, i gollisti avranno avuto fortuna, rispetto agli idolatri di altri paesi europei. Con Chirac, gli Albin Chalandon, e i nuovi "padroni" dell'UDR, De Gaulle non è già più che un bene immobile che assicura una elevata rendita di posizione a un po' di suoi ex-sacerdoti e clienti. Ma fra le

riforme urgenti annunciate da Giscard c'è anche quella di una ridistribuzione dei redditi. E, alla fine, sarà senza dubbio il presidente della Repubblica, il nuovo, giovane capo di oggi, che finirà per riscuoterne l'essenziale reinvestirlo.

I bonapartisti ancora una volta hanno perso, senza provocare troppi disastri e senza tracce delle grandi riforme di ieri. La vittoria degli orleanisti, con il loro nuovo Philippe-Egalité, sarà questa volta solida o storica? O, piuttosto, è il Terzo Stato che s'accinge a compiere una seconda, ancor più radicale e profonda rivoluzione di libertà? Il paese è certo sconcertato, nervoso, attraversato da movimenti profondi di alternativa.

"Guàrdali" mi dice Xavier Marchetti, il leale e buon consigliere di Pompidou, oggi redattore-capo del rinnovato "Le Figaro", con il suo inconsapevole accento lucchese di Bastia. "Prendi Giscard, Mitterrand e tutti quanti gli ``ufficiali'' di oggi, méttigli il collarino e addòbbali con costume d'epoca. Hanno tutti le facce degli aristocratici che erano a Koblenz, con ``gli altri''. Solo Pompidou aveva il volto, l'umanità d'uno di quelli che stava a Valmy". E Marchais, no? gli chiedo. Marchetti resta, colpito, un lungo momento. "Anche Marchais" ammette, a malincuore. Non ci aveva pensato.

 
Argomenti correlati:
francia
de gaulle charles
giscard d'estaing valery
udr
labbe' claude
debre' michel
servan schreiber jean-jacques
sanguinetti alexandre
oas
stampa questo documento invia questa pagina per mail