di Marco PannellaSOMMARIO: Nel corso del Congresso di Genova del Pri esplode lo scandalo sollevato da Pasquale Curatola, già membro del collegio dei probiviri e candidato repubblicano al CSM, che aveva rivolto dure accuse alla gestione del partito da parte di Ugo La Malfa. Pannella sostiene l'iniziativa di Curatola e denuncia il fatto che nessuna comunicazione era stata data né ai Consiglieri Nazionali, né alla stampa della lettera con cui Curatola chiedeva che La Malfa si autodeferisse al collegio dei probiviri e, per suo conto, si dichiarava disposto ad accettare il giudizio di un giurì d'onore. Se La Malfa non avesse accettato nessuna delle due soluzioni, Curatola informava che non avrebbe avuto altra possibilità che rivolgersi alla Magistratura per tutelare la propria onorabilità dopo le gravi dichiarazioni rilasciate sul suo conto dal leader repubblicano. La Malfa attacca per questo Marco Pannella sostenendo che avrebbe agito su commissione della massoneria italiana e avrebbe creato tutto quello scompiglio per accumular
e meriti antirepubblicani, per guadagnare così un qualche possibile compenso politico o parlamentare da parte dei socialisti. Marco Pannella replica al segretario repubblicano: »Ugo La Malfa ha fatto strage di legalità, di legalità repubblicana ; »Ugo La Malfa è vittima del suo realismo di stampo siciliano, crispino; vecchio errore di quanto, nella sinistra storica, non fu garibaldino o mazziniano. Egli ama le grandi idealità rivoluzionarie della borghesia progressista europea ma vive e pratica l'illusione del potere come perimetro esclusivo di creatività politica .
(PANNELLA SU PANNELLA, editrice Magma, 1977)
»Maledetti coloro per i quali lo scandalo avviene... . Ugo La Malfa mi ha maledetto. Sconvolto, in preda allo sdegno ed all'ira, mi ha scagliato contro l'antico anatema. Ancora più cocente la sua ira, poiché mi aveva accolto da amico, quasi con affetto. Ancora una volta, si è sentito tradito. Amico suo, lo sono. Ma più ancora della verità per la quale fummo e saremo compagni, lui al suo livello, io al mio; lui uomo di cattedra e di governo, io di piazza e da marciapiede, lui fra gli eletti, statua del commentatore che scende di rado dal suo piedistallo, io fra gli elettori, peripatetico perché di scuola e di umiltà diversa. E se siamo diversi, glielo devo. Troppo di simile, nella mia natura e nella mia storia, mi tenterebbe; lo evito grazie a quel che comprendo di me essendo attento a lui. Da anni lontani, serbo per questo uomo una stima accorata: come a Giuseppe Saragat, come a Giovanni Malagodi gli manca l'umiltà per esser grande. Ma diversamente da loro, il suo disprezzo per la gente, per ogni diverso, la
diffidenza e l'intolleranza verso gli uguali, non è segno autentico o fedele, ma un polo di contraddizione e di sofferenza.
La Malfa deve aver deciso in fasce che da grande sarebbe stato un grande della politica e della Città. Di cattolico egli ha almeno il sentimento della vocazione. Questa innocente passione, dopo venticinque anni di errori, di colpe, di fallimenti, di solo apparenti profezie e di reali, totali incomprensioni (sue proprie) e inadeguatezze, ora lo acceca. Gli apostoli che lo circondano, non sono spesso che consiglio di amministrazione, costituitosi in spessore fra le tradizioni e le forze popolari repubblicane da una parte, e La Malfa stesso dall'altra. Per ora, con Biasini, il passato e il futuro sembrano preservati da altri disastri. Ma fino a quando? Quel che è accaduto a Genova è di una rovinosa eloquenza. Come un entusiasta, un invasato dello »Ione , abitato e devastato da non si sa quale demone o dio, Ugo La Malfa ha fatto strage di legalità, di legalità repubblicana.
Ugo La Malfa è vittima del suo realismo di stampo siciliano, crispino, vecchio errore di quanto, nella sinistra storica, non fu garibaldino o mazziniano. Egli ama le grandi idealità rivoluzionarie della borghesia progressista europea ma vive e pratica l'illusione del potere come perimetro esclusivo di creatività politica. Il suo dramma è di fare il profeta nella reggia, credendo d'esser predicante, come un esule in un deserto animato da poche turbe di fedeli e di credenti. Così questo suo dramma personale diventa quello dell'intero partito repubblicano, nelle sue basi vitali, ancora espressione di realtà e di speranze laiche, libertarie, demo-popolari. Da questa situazione è sorta come una necessità, e non come degenerazione evitabile, la pratica clientelare, la violenza contro ogni dissenso ideale e contro ogni opposizione potenzialmente consistente, la torbida corresponsabilità di gran parte del vertice repubblicano in alcuni dei peggiori aspetti del regime, il cinico e crudele uso del potere all'interno c
ome all'esterno del partito. Per questo, naturalmente, era omogenea e necessaria una classe dirigente di formazione più borghese-italiana, liberal-classista che demo-radicale e repubblicana, laico-libertaria o socialista umanitaria. Per questo Genova è stato il suo canto del cigno. Non perché egli non possa e non debba, ancor giovane nell'animo, assicurarci ancora a lungo il suo aiuto e la sua presenza. Ma perché l'Italia del 13 maggio (quella innanzitutto repubblicana e antifanfaniana, anticlericale e antifascista davvero, quella che soffre, senz'esser stata vinta, della menzogna, della corruzione, della violenza del regime e di questa classe dirigente, e che ne è oggettivamente e storicamente l'alternativa cui e ormai urgente assicurare sbocco politico) sta alla realtà centrista, che e quella nella quale si è voluto da 25 anni collocare il Pri, come l'Italia della Resistenza stava a quella monarchica.
Marzo 1975