La "utopia" radicale del disarmo si rivela la sola concreta speranza contro le vocazioni golpiste delle FF.AA.di Roberto Cicciomessere
SOMMARIO: Antimilitarismo oggi: la concretezza dell'"utopia" radicale - Un contributo alla ricerca di una strategia vincente dell'antimilitarismo. Le deboli risposte delle sinistre tradizionali e "rivoluzionarie" all'obiettivo di "un esercito piccolo ed efficiente" proposto dallo Stato Maggiore. La conquista delle libertà politiche, civili e sindacali è determinante soprattutto per i soldati e gli ufficiali di carriera. Tesi rinunciatarie e aberranti esposte da Pecchioli a "Panorama". Contro le tentazioni minimaliste, la LOC deve farsi fulcro della lotta antimilitarista. L'obiettivo di un programma decennale di riconversione delle strutture militari in civili.
(NOTIZIE RADICALI n. 39, 29 agosto 1975)
Il "libretto verde" dello Stato Maggiore dell'Esercito ampiamente pubblicizzato dalla stampa estiva, ci spiega come dovrà essere "ristrutturata" la nostra forza armata: "piccola ma efficiente".
Il discorso dei tecnocrati militari non fa una grinza: il nostro esercito non è più credibile come strumento di "difesa della patria". "L'utilizzazione sempre più estesa di tecnologie avanzate" ha determinato un "aumento drammatico dei costi di acquisizione e di esercizio degli armamenti e degli equipaggiamenti"; il tutto è esasperato "dal processo inflazionistico che ha investito l'economia mondiale". Il nostro esercito che spende circa il 75 per cento delle assegnazioni di bilancio per il mantenimento degli ufficiali, sottufficiali e truppa e solo il restante 25 per cento per gli armamenti è divenuto quindi progressivamente non credibile come strumento di "difesa", seppure tradizionale e non nucleare, nel confronto con gli altri eserciti dell'area mediterranea che invece possono investire percentuali incredibili del bilancio statale nell'acquisto di sempre più sofisticati armamenti e che godono delle forniture "politiche" delle due superpotenze.
A questo punti i militari ci propongono tre soluzioni ovvero ce ne impongono una sola: 1) "attualmente le assegnazioni sui bilanci militari per mantenere inalterata a dimensione dello strumento dotandolo dei mezzi di più avanzata tecnologia"; 2) "non aumentare i bilanci e lasciare invariate le strutture militari"; 3) "ridurre le strutture delle Forze Armate". Ovviamente la soluzione obbligata in base a questo ragionamento è la terza: la prima soluzione è infatti "praticamente inaccettabile per la priorità di altre e più pressanti esigenze di carattere sociale (!)"; con la seconda dovremmo accettare "l'inesorabile decadimento qualitativo dello strumento (FF.AA.)"; ed invece la terza consente di "recuperare risorse economiche da devolvere ai programmi di ammodernamento".
La puntuale analisi dell'ammiraglio Henke al Centro Alti Studi Militari del novembre del '74 in cui si prospettava e proponeva a partire da una analisi politica più globale, la necessità di portare al 50 per cento del bilancio della difesa le spese di armamento complessive, ha trovato, prima con la legge speciale di finanziamento decennale di mille miliardi per la marina, oggi con il "piano di ristrutturazione per l'esercito" che prevede un finanziamento straordinario di altri mille e cento miliardi, ed in futuro con altre leggi finanziarie speciali per l'Areonautica, una precisa applicazione.
Conviene a tutti specie all'industria
E questo piano fa contenti tutti: gli industriali della guerra a cui è riconosciuta la piena capacità di "soddisfare le esigenze dell'Esercito" e che troveranno nell'aumentate commesse militari, sicure e remunerative, una soluzione alla crisi del settore metalmeccanico; vasti strati sociali che troveranno più ampi spazi di esonero in seguito alla riduzione del contingente di leva dalle 270.000 unità del '75 alle 167 mila del prossimo anno (anche se i maggiori beneficiari saranno sempre i furbi e raccomandati che in genere appartengono ad alti classi sociali). I partiti della sinistra, che con l'emarginazione e "dequalificazione" militare e strategica progressiva dei militari di leva a cui vengono affidati non ben definiti compiti territoriali ed esclusi dall'uso dei nuovi armamenti sofisticati necessari alle "esigenze di un esercito moderno, i cui mezzi più complessi non possono essere affidati al personale di leva e ancor meno potranno esserlo in futuro, quando la ferma sarà ridotta a dodici mesi", potranno
quindi far affermare la loro linea e politica corporativa e riformistica, cioè "migliorare le condizioni del militare", senza intaccare i "principi" della vita del soldato, semplicemente perché allo Stato Maggiore non importerà più niente dell'esercito di leva ridotto ad una funzione di "rappresentanza" e di copertura.
E sia ben chiaro che nessun antimilitarista radicale, non violento ritiene cinicamente che l'ipotesi del deperimento totale dell'esercito non possa e debba passare attraverso l'acquisizione di maggiori libertà democratiche e civili ed economiche dei militari. Riteniamo soltanto che innanzitutto le rivendicazioni economiche non possono essere svincolate, anche per aver successo, da quelle democratiche, e tutte non possono trovare esito positivo, se portate avanti in modo conseguente, senza la programmazione di una conversione progressiva delle strutture militari in strutture civili e di pace.
E ripeto il discorso "militare" dello S.M.E. non fa una grinza così come, invece, fa molte grinze il discorso "militare", politico e strategico delle forze di sinistra, in primo luogo del Pci, che mostra di occuparsi, diversamente dal Psi, "seriamente" del problema.
Il "libretto verde" ci mostra infatti come verranno convertite le spese "parassitarie" (di mantenimento degli organici) in spese "produttive" (di armamento). Ci mostra del resto molto chiaramente la necessità di affidare a forze specializzate e quindi a "lunga ferma" la gestione di questi mezzi moderni.
E il Pci che ne pensa di un piano che prevede l'ampliamento del fatturato dell'industria militare e quindi l'aumento di legami economici e politici fra un settore vitale dell'industria e la macchina bellica? E le esportazioni di materiale militare che saranno sempre più necessarie con l'aumentata capacità produttiva degli impianti? Varranno le esigenze "nazionali", cioè quelle del mantenimento del posto di lavoro e delle competitività dell'azienda o quelle dei popoli del terzo mondo che saranno uccisi sempre più da armi italiane?
Che ne pensano poi del tipo di armamenti che vengono privilegiati nel piano? Non è infatti la stessa cosa acquistare cannoni semoventi o autoblindo "da combattimento che consentiranno alla fanteria di impiegare le proprie armi anche da bordo". E' un fatto apparentemente marginale ma sintomatico: sempre più la scelta degli stati maggiori e delle industrie belliche si rivolge verso mezzi blindati leggeri, capaci di trasportare su strade (senza cingoli) velocemente molti soldati. Sono questi mezzi chiaramente inutilizzabili sia in una guerra di frontiera in un'Italia montagnosa che in un confronto con i carri armati "nemici".
Si deve ritenere quindi che gli strateghi prevedano o una guerra di pianura cioè nei centri abitati della valle Padana o una guerra civile, dove le modeste autoblindo avrebbero facile ragione degli insorti.
Ma la prima ipotesi è proponibile in una situazione occidentale dove non è prevedibile un conflitto limitato che non sia necessariamente un conflitto atomico fra le grandi potenze e quindi nel quale ogni possibilità di difesa convenzionale è esclusa? Non rimane che la seconda ipotesi.
E mi pare giusto che i militari prefigurino come unica possibilità di utilizzazione della macchina bellica quella "interna". Non mi sembra invece affatto coerente che questa ipotesi venga assunta dai partiti di classe.
Ma questo esercito a cosa serve?
E qui veniamo al primo e fondamentale nodo: se si accetta la logica militare cioè la assioma della necessità dell'esistenza dell'esercito, oggi, si deve accettare anche la conseguenza ed i piani di chi si sforza, nelle "ristrettezze di bilancio" di definire un ruolo delle FF.AA. che ormai solo i partiti di sinistra ritengono debba essere quello della difesa dei confini.
Ma il Pci si dice a questo punto che a prescindere dai piani che potrebbero essere reazionari dei militari esiste il "popolo in armi" che si rifiuterebbe di realizzare simili proposte antipopolari.
E' vero? Ma si possono trovare le stesse garanzie democratiche nel "popolo" di leva ed in quello "a lunga ferma" o nei "permanenti" che vivono condizioni sociologiche, ambientali, condizionamenti economici, certamente diversi? E il piano dello Stato Maggiore parla chiaro: i militari di leva saranno sempre meno adatti per maneggiare le nuove armi, dovranno quindi aumentare i volontari, saranno ridotti quindi per motivi economici i soldati di leva e gli ufficiali e sottufficiali di complemento ("un sostanziale ridimensionamento sarà operato nel settore delle Scuole d'Arma e delle Scuole Allievi Ufficiali ed Allievi Sottufficiali". Lo impongono, oltre che i criteri di economia e di razionalizzazione, altri fattori, quali la diminuita richiesta di Quadri di completamento...) o comunque emarginati a funzioni territoriali cioè marginali, di rappresentanza. Rappresenteranno cioè l'alibi delle FF.AA. verso la sinistra e viceversa che non potranno rinfacciarsi la trasformazione in esercito di mestiere.
PCI: no al sindacato
Esercito di mestiere invece sarà, come del resto differentemente non è possibile "seriamente" essere per nessun esercito tradizionale dell'area occidentale che voglia conservare un proprio ruolo politico e militare.
Non è serio e responsabile nascondersi dietro una apparenza "popolare" da parte di chi rivendica serietà e competenza soprattutto perché vengono immediatamente a mancare, in prospettiva, le garanzie che sono alla base della politica militare della sinistra.
Si ribadisce quindi ancora la impossibilità di garantire l'esistenza di un esercito efficiente e sullo stesso momento democratico: domani questa contraddizione non potrà essere più coperta neanche dal mito "popolare".
Ma veniamo all'analisi delle garanzie "serie", quelle che nascono dall'impossibilità di impedire la crescita delle richieste di democrazia effettiva, che investono tutti gli strati della popolazione, e quindi anche tutti i gradi delle FF.AA., al di là dei piani di emarginazione e corporativizzazione degli Stati Maggiori, quelle che aprono, se correttamente sostenute, enormi contraddizioni in tutte le istituzioni totali e autoritarie.
Una crescita rigorosamente democratica, anche se non immediatamente con finalità antimilitariste, è l'unica che può far avanzare una strategia politica che si opponga a quella militare e sulla quale una forza di sinistra può costruire credibilità e autonomia politica.
Continuare infatti a privilegiare nella contrattazione con gli ambienti militari le rivendicazioni economiche e quelle democratiche marginali significa solo rientrare ancora una volta nella logica del "piano di ristrutturazione" scritto dai militari. Le rivendicazioni economiche o fanno parte del naturale processo di ammodernamento della struttura, o nella loro modestia rappresentano solo una giustificazione per richiedere nuovi stanziamenti (e per stimolare processi aggregativi di tipo corporativo) o, se portati alle loro legittime conseguenze non possono essere realizzate senza la creazione di solide strutture sindacali che devono trovare spazio in larghe conquiste democratiche (libertà d'associazione, di riunione, di dissenso, ecc.). La terza strada, l'unica praticabile non trova corrispondenza nella pratica moderata dei partiti della sinistra ed in particolare del Pci che si trova ancorato da una visione e logica militare.
Ma la risposta del Pci a queste domande è oggi chiara: "Noi siamo contrari a entrambe queste soluzioni (sindacato dei militari e commissario parlamentare delle forze armate). Al sindacato per ora: temiamo che si crei una serie di associazioni di categoria, una per grado, di tipo corporativo. Al commissario sempre: esistono le commissioni parlamentari Difesa. Spetta a loro il "controllo" afferma Ugo Pecchioli in una intervista a "Panorama".
Emerge sempre chiara la sfiducia del Pci verso la "gente", verso la capacità dei "cittadini in divisa" o dei "sottufficiali democratici" di darsi strutture associative e sindacali non corporative, di poter rappresentare e coagulare su posizioni democratiche e con l'appoggio dei sindacati e partiti di classe il disagio crescente e spontaneo emergente fra i militari di ogni grado. L'esempio delle forze di polizia dove esiste solo l'organizzazione sindacale democratica facente capo a "Ordine pubblico" e non i sindacatini autonomi e fascisti paventati dovrebbe aver insegnato qualcosa. Questo atteggiamento che non riconosce una realtà o meglio una potenzialità organizzativa democratica fra i soldati ed in particolar modo fra i sottufficiali determina invece le conseguenze corporative che si vorrebbero evitare: in mancanza di sostanziali appoggi il movimento democratico tende a rinchiudersi in ghetti ideologici e settari lasciando sempre maggiore spazio alle protettissime associazioni corporative di militari dei v
ari generali Graziani e dei socialdemocratici.
Il soldato deve rimanere "obbediente"
Il rifiuto poi di portare a fondo la lotta contro le leggi e istituzioni speciali dell'esercito (codice penale e tribunale militare) con la giustificazione aberrante e militarista che il soldato è un cittadino diverso dagli altri (Pecchioli: "Anche per noi il militare non è un cittadino come gli altri. Per una semplice ragione: ha le armi. E chi ha in mano oggetti tanto pericolosi deve sottostare a particolari regole, ad alcune limitazioni della sua libertà personale") priva il soldato e ancor più il militare in servizio permanente della capacità di un controllo politico e costituzionale dell'istituzione militare, di una capacità di contrattazione economica e normativa, impedisce l'apertura nelle forze armate di un libero dibattito e confronto sui problemi dello specifico e della società senza il quale nessuna crescita democratica potrà mai esserci. Ed è importante sottolineare l'errore dell'affermazione di Pecchioli perché introduce un problema credo determinante nell'analisi della pericolosità delle FF.AA.
Mi sembra infatti giusto sostenere che chi ha le armi deve sottostare a particolari regole; ma chi gestisce effettivamente il potere micidiale di questi "oggetti tanto pericolosi" e dell'organizzazione preposta al loro uso? Sono i soldati, i graduati o solo una ristretta cerchia di generali e di uomini politici? L'aumento di democrazia nell'esercito farebbe crescere le possibilità di controllo e di dibattito sui modi storicamente antipopolari con i quali sono state gestite in ogni paese le armi e le organizzazioni militari. Ma forse il Pci teme che in un prossimo futuro i militari democraticamente organizzati possano rifiutarsi di obbedire ad ordini liberticidi di un nostrano generale Vasco Goncalves?
Compromesso con i golpisti?
La nostra diversa posizione sulle richieste di libertà e democrazia nelle FF.AA. con il Pci dipende quindi in gran parte da motivi di natura propriamente teorica o ideologica. Ma non solo. Limitandoci ad analizzare esigenze tattiche che potrebbero essere giustificate nella particolare situazione politica italiana dobbiamo chiederci se una politica di "adulazione" e di "comprensione" nei confronti delle alte gerarchie militari può ottenere alla sinistra quella "neutralità" delle FF.AA. auspicabile nella prospettiva di un allargamento o rivolgimento degli equilibri di potere e di governo in Italia? Il problema dei possibili interventi delle FF.AA. o meglio degli USA attraverso i corpi militari integrati nella Nato per impedire l'ascesa al governo della sinistra è stato seriamente posto da Berlinguer alle forze politiche che prospettavano una decisa lotta per la costruzione di una alternativa alla DC. Una delle giustificazioni del "compromesso storico" è anche quella di non creare irreparabili fratture con il m
ondo occidentale e quindi situazioni "cilene". Ed è un problema a cui la sinistra alternativa deve dare una risposta. Sul piano strettamente militare, è necessario però definire quali poterebbero essere le forze impiegabili in una operazione di tipo golpista. Non certo l'esercito di leva per la sua composizione sociale e i suoi legami con le organizzazioni di classe. Astrattamente potremmo invece dire che i corpi utilizzabili in questo senso sono i Carabinieri, la Polizia, i reparti speciali ed operativi integrati nella Nato o comunque a composizione prevalentemente volontaria e permanente; sostegno di questa operazione sarebbero i vari Sid, Uffici affari riservati etc. con il loro armamentario di spie, fascisti e provocatori. E nei confronti di costoro, dei vari generali De Lorenzo, Miceli, Maletti, Fanali, Birindelli, dei colonnelli della Rosa dei venti serve "l'adulazione" e la "comprensione" per ottenere "neutralità"? E invece gli stessi magistrati democratici si trovano impotenti ad inchiodare ai loro c
rimini chi da sempre gode di impunità, alleanze, e sospette comprensioni. Non ci sono alternative realistiche diverse da quelle che passano da una vigorosa denuncia del ruolo golpista dei vertici dell'Esercito, delle centinaia di morti che sono stati fatti, dalla Banca dell'Agricoltura a piazza della Loggia, da militari tradizionalmente impegnati nella guerra contro il "nemico interno", che diversamente da Bava Beccaris uccidono i proletari non facendo sparare i soldati ma finanziando, organizzando, proteggendo, armando i killer fascisti. L'altra garanzia rispetto a questi corpi "potenzialmente golpisti" è quella di colmare il vuoto e isolamento creato da secoli fra questi proletari e sfruttati in divisa e la società civile.
Brecht diceva che i soldati hanno un difetto: pensano. Ma finché sarà impedito ai carabinieri, alla polizia, anche ai sottufficiali e ufficiali di pensare, di confrontarsi con il dibattito crescente al di fuori dei ghetti e delle "istituzioni totali" su cui si fonda l'organizzazione alienante della caserma l'osservazione di Brecht non produrrà le garanzie democratiche e di controllo che pur possono nascere nelle FF.AA. ed in particolare fra i permanenti. E non a caso il partito radicale "antimilitarista" trova, apparentemente in modo contraddittorio, maggiori ragioni di intervento fra i militari permanenti che fra i soldati. La lotta antimilitarista fra i soldati di leva, se non vuole trasformarsi in lotta per l'organizzazione militare e rivoluzionaria degli stessi, può al massimo essere utilizzata come lotta di agitazione politica, di coscientizzazione che però troverà sempre meno agganci in contraddizioni vitali delle FF.AA. (ad esclusione dei codici e regolamenti militari) in seguito all'emarginazione ope
rativa degli "obbligati", (esclusi quindi da ogni piano di utilizzazione interna e anti-popolare), alla riduzione della ferma (che diminuisce il periodo di tempo nel quale è possibile riconoscersi ed organizzare il disagio), ai miglioramenti economici prevedibili (con altrettanto prevedibile diminuzione dei disagi specifici della condizione del soldato in Italia). I militari permanenti invece esprimono tutte quelle condizioni necessarie per un progetto organizzativo rivoluzionario: considerati elemento di punta di ogni operazione "interna" o "esterna"; con "tempi di convivenza" utili per la creazione di organismi sindacali stabili; in condizioni precise che prevedono l'aumento del disagio "materiale" e "morale" in conseguenza dell'incompatibilità di leggi militari con la crescita democratica del paese e degli stipendi con l'inflazione e la crescita della domanda salariale dei dipendenti dell'amministrazione pubblica.
Quale antimilitarismo nonviolento?
E al di là del significato delle richieste economiche, normative, delle chiare denunce dei tribunali militari, a tutti dovrebbe essere palese il valore della pratica democratica a cui per la prima volta poliziotti e sottufficiali si accingono e che rappresenta il maggiore elemento di contraddizione con una struttura che li voleva ubbidienti, qualunquisti, isolati, "dignitosi".
Per ultimo dobbiamo chiederci quali nuovi compiti e nuove strategie competono al movimento antimilitarista nonviolento degli obiettori in questo processo di ristrutturazione delle FF.AA. che sicuramente modifica i contenuti di analisi antimilitarista che ci hanno animato negli anni passati.
Questo lavoro di revisione teorica e pratica dell'antimilitarismo nonviolento diventa sempre più urgente proprio perché si notano nel movimento alcuni attaccamenti "nostalgici" a parole d'ordine ormai superate ed una diminuita capacità di affermazione della proposta dell'obiezione di coscienza. I contrasti nella ultima marcia antimilitarista con gli anarchici che rivendicavano una purità antimilitarista nel rifiutare ogni sostegno ai movimenti dei militari nei confronti dei "riformisti radicali" che invece appoggiano le lotte democratiche dei sottufficiali, soldati e poliziotti; la crisi d'altra parte della testimonianza dell'obiezione di coscienza, che in carenza di una risposta repressiva della controparte militare, ha portato un progressivo distaccamento della Loc dai compiti di iniziativa politica antimilitarista per trasformarsi in agenzia di collocamento per obiettori o struttura di sostegno di pregevoli esperienze nel sociale e nel mondo della assistenza degli obiettori di coscienza in servizio civile
sempre più dimentichi che lo specifico che ci caratterizza è quello della lotta contro l'autoritarismo militare e non contro ogni forma di oppressione, rende indilazionabile un profondo dibattito e chiarimento che troverà la sua sede migliore nel prossimo congresso antimilitarista.
Conversione delle strutture militari
Una sola notazione: con l'aumento del dibattito sui problemi dell'esercito, dell'organizzazione democratica dei militari di ogni grado e quindi delle contraddizioni insanabili fra democrazia e socialismo, e organizzazione e finalità militari si proporrà alle forze politiche, alla società civile, ai sinceri militari democratici la domanda sul ruolo delle FF.AA. La sinistra tradizionale rivoluzionaria potrà al massimo proporre il modello portoghese o quello svedese. Ancora più chiaramente perciò la proposta di conversione delle strutture militari in strutture civili, il progetto tradizionale radicalmente antimilitarista che condiziona l'edificazione di società socialista al deperimento, in ogni stato, delle strutture militari, potrà trovare spazio ed essere in ultima analisi il meno "utopico". Ma la possibilità di candidare il movimento antimilitarista alla gestione di questa speranza libertaria nel paese dipende dalla forza con la quale sapremo nei prossimi giorni tener fermi, di fronte alle tentazioni milita
riste pur presenti nel nostro movimento, queste posizioni politiche e dalla capacità di ancorare la proposta di conversione a precisi progetti di risoluzione di problemi economici e sociali. L'impegno che con la mozione del congresso nazionale della Loc ci siamo assunti di organizzare un convegno di economisti socialisti per studiare e prefigurare un piano scientifico di conversione delle strutture militari in strutture civili di progresso non rappresenta nell'attuale condizione di assenza di dibattito politico nel movimento e di emarginazione della proposta nonviolenta dal dibattito politico generale, una scadenza burocratica ma un obiettivo di lotta da conquistare.