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Benedetti Arrigo - 6 novembre 1975
Il pungolo delle minoranze
di Arrigo Benedetti

SOMMARIO: Alla vigilia del XV Congresso del Partito radicale di Firenze, Arrigo Benedetti ricostruisce, a partire dalla sua vicenda politica nel Pr, il passaggio dai "vecchi" ai "nuovi" radicali.

(IL MONDO, 6 novembre 1975)

I radicali si riuniscono a Firenze per il loro congresso. Già nelle riunioni precongressuali hanno cercato di definirsi politicamente, di stabilire legami nuovi, per avere un posto nella sinistra italiana.

Appena si parla di radicali, mi tornano in mente vecchi tempi. Fin da quando cominciò un processo intellettuale che s'accentuò con la nostra entrata nella seconda guerra mondiale. I giovani d'allora, in quel succedersi di grandi fatti, diventavano coscienti della condizione in cui si trovavano.

Si ha spesso l'impressione che le scelte politiche siano casuali. E che dipendano dai luoghi che si frequentano, dalle amicizie, perfino da conoscenze che, a guardar bene, sono superficiali. Forse, pensano tanti della, mia età, se invece d'andare dopo pranzo da Aragno sul Corso sceglievo Ruschens in via del Babuino, oggi sarei diverso. Sono affascinanti, certe ipotesi, ed equivalgono a fantasticare come sarebbe stato Benedetto Croce, se non fosse nato ricco, o Gaetano Salvemini se fosse venuto al mondo a Milano, a Torino. Per fortuna poi ci si pente di simili fughe mentali, anche se è innegabile che si sia tutti marcati dalle parentele, dalle amicizie giovanili, dai libri letti a quei tempi, dall'avere ascoltato certi uomini anziché altri.

Quelli delle generazioni anziane furono radicali prima di saperlo, o in altri casi lo diventarono facendo tesoro di alcune esperienze. Influirono le delusioni. Alcuni avevano la capacità d'approfondire gli avvenimenti che si succedevano, i libri letti e discussi con gli amici; altri possedevano l'estro che aiuta a indovinare l'avvenire. Fra il '36 e il '40, i crociani, compresi i dilettanti di corcianesimo, folgorati da alcune pagine indimenticabili, resistite ormai ai ripensamenti, incontrarono i salveminiani, i marxisti; credettero di correre insieme verso un domani che pareva fulgido; accettarono concordi, - e fu la prima testimonianza di volontà politica, - l'ipotesi della sconfitta.

Nacquero amicizie basate su affinità estetiche. Certi idealizzarono un nuovo liberalismo, lo difesero dal contagio di opposte ideologie; altri invece volevano conciliarlo col socialismo. I marxisti che erano tra noi dapprima ascoltarono e tacquero, poi si rivelarono e discussero. Ci si divise, non ci si voltò le spalle; e anche se queto provocò equivoci permise che nei momenti difficili, - penso sempre al luglio del '60, - bastasse una telefonata per riunirci, tutti insieme di nuovo, come un tempo.

Il radicalismo caratterizzò un mondo politico che comprendeva uomini capaci d'approfondimenti, discussioni; e altri che, nelle ore precedenti l'alba, quando esaltati dalle troppe tazze di caffè, dal fumo di tabacco di cui si è avvolti, eccitati insomma fino al parossismo, si proponevano azioni liberatrici e impossibili; oppure, si dichiaravano convinti che il dopo-Mussolini sarebbe stato meraviglioso. E c'erano, sia tra i ragionevoli sia tra i fantastici, giovani sensibili al pensiero e alla musicalità racchiusi nelle parole: conferma dell'importanza che acquistano talvolta le facoltà estetiche per capire la volgarità del presente e per andare con coraggio verso il futuro, senza vedere l'insidia delle illusioni.

Il radicalismo era già in molti amici miei che senza questo virus sarebbero stati soltanto dei conservatori, dei finissimi dilettanti di letteratura e d'altre, degli esempi di moralità pubblica. Quando nel settembre del '44 tornai a Roma, trovai che molti avevano già deciso d'iscriversi al Pli; anzi l'avevano, come si dice ora, "rifondato". Non m'iscrissi e non credo sia successo per una cosciente avversione politica. Ero appena venuto da un clima diverso; e Roma mutava già, dopo la prova durissima e i tanti sacrifici dei suoi nove mesi. Eppure, nonostante la diversità di vedute e di giudizi, qualcosa ci univa; il radicalismo, o comunque l'inquieta aspirazione a un'Italia mutata, che in seguito definimmo con un termine che non aveva riferimenti che agli omonimi partiti francesi, né a quello italiano, svanito nel primo decennio del secolo, come osserva con tanta finezza A. Galante Garrone nel suo libro, intitolato appunto "I Radicali". E ci univa anche l'impazienza, il difetto che di rado diventa una virtù; e

che quando succede si muta in tempestività.

Oggi, i radicali, dopo le crisi che, or sono dieci anni, fecero ingiustamente soffrire Mario Pannunzio, esistono. Hanno l'orgoglio di considerarsi determinanti della svolta. C'erano altri problemi urgenti, ma è innegabile che il 12 maggio pose le premesse del 15 giugno. Nelle due campagne elettorali, - per il referendum e per le amministrative-regionali, - la Dc fu costretta a rivelarsi e tutti vedemmo quant'è anacronistica, quando ha il volto di Fanfani, e fino a quale punto cambia, appena ha quello di Moro. E' curioso, ma un gruppo minoritario pose negli anni scorsi un problema di libertà, e si trascinò dietro forze imponenti, ciò che molti si auguravano possa avere un'influenza rinnovatrice sulla Dc anche se oggi sembra afflitta e ostinata a seguitar a percorrere le vecchie strade.

 
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