A colloquio con Lino Jannuzzidi M. G.
SOMMARIO: A partire dal suo impegno come giornalistico, Lino Jannuzzi analizza il rapporto non sempre sereno fra il Pr e un settimanale "radicale" come L'Espresso.
(IL MONDO, 6 novembre 1975)
D. Corrono i vent'anni del partito radicale. Come faresti un rapido bilancio della tua esperienza di militante?
R. Rifiuterei intanto questa periodizzazione in ventennali. Per quanto mi riguarda la data del 1955 non mi dice granché: la fondazione del partito radicale in quanto tale, in coincidenza con al scissione della sinistra liberale, fu soltanto un'occasione, poco più di un incidente. Se la mia esperienza può definirsi una esperienza "radicale", essa comincia almeno trent'anni fa, nel 1945-46, con l'ingresso nell'università e la nascita dell'Unione goliardica italiana. La scoperta della politica e della sua nobiltà, l'autonomia della cultura, i diritti civili, l'aspirazione all'unità della sinistra, dai ridicali ai comunisti (possibilmente senza egemonie staliniste), sono tutte cose che erano lì, nell'Ugi. Dopo ce le siamo portate dentro e dietro. Sono soltanto maturate e si sono chiarite. Del resto fu allora che incontrai Pannella: trent'anni fa.
D. Ma come militante del partito radicale in quanto tale, come dici tu, cosa ti sembra sia stato più significativo e importante in questi vent'anni?
R. Non sono mai stato un buon militante, uno sul quale il partito poteva veramente contare, ogni giorno. E credo che Pannella ce l'abbia ancora con me per le posizioni che assunsi allora nella dialettica e negli schieramenti interni del partito. In realtà fui sempre con Mario Pannunzio contro coloro che volevano la liquidazione del partito. Passai poi con Pannella, quando anche Pannunzio si stancò e gettò la spugna. Credo di aver fatto soltanto questo, in tutto quel periodo: ho difeso l'esistenza del partito. Contro gli scettici, i "realisti", non ho mai smesso di credere alla necessità, al destino radicale.
D. E dopo?
R. Dopo ho fatto il giornalista. Radicale? Sì, certo, radicale. Ma sono sempre stato più un giornalista radicale che un radicale giornalista. E quando sono stato veramente bravo come giornalista, sono stato il radicale più bravo di tutti.
D. Quali sono le inchieste e le battaglie giornalistiche che a tuo giudizio sono sempre state più vicine al programma e alla filosofia radicale?
R. "L'Espresso" è stato sempre definito un settimanale "radicale". E non sempre a ragione. Spesso Pannella protestava per quella che considerava come una appropriazione indebita, quasi un millantato credito. In effetti sono state tante le inchieste e le battaglie dell'"Espresso" di stile e di marca radicale. Lo scandalo della cedolare vaticana, lo scandalo dell'Onmi e di Petrucci, l'occupazione clericale dell'assistenza pubblica, Valpreda e Pinelli, il Sifar e il Sid, da De Lorenzo a Miceli, il divorzio e l'aborto. Erano sempre fatti, notizie, rivelazioni: ma è difficile negarne il carattere libertario, antiautoritario, anticlericale, antimilitarista. E comunque furono inchieste e battaglie proiettare nel giornalismo proprio da quel partito radicale che da tutte le parti si tendeva a censurare e a negare.
D. E' tutta roba nelle quali mettevi le mani tu...
R. Prevalentemente sì. Ma è impossibile non ricordare, e senza far torto a nessuno, Camilla Cederna e Carlo Gregoretti, che era poi quello che faceva realmente il giornale; e fra i più giovani, Giuseppe Catalano e Mario Scialoja. E Scalfari naturalmente: era lui, il direttore, che ci ha consentito di fare quello che abbiamo fatto.
D. Sono tutti nomi che ora, per una ragione o per l'altra, sono fuori o ai margini del giornale. Credi che questo fatto possa influire sull'orientamento e sull'impegno radicale dell'"Espresso"?
R. Naturalmente queste cose sono molto legate al temperamento personale di chi le fa, alle biografie, all'impegno, allo stile, e anche alle capacità professionali. Se si dovesse protrarre troppo nel tempo l'attuale situazione al giornale, ho paura che sarebbe difficile evitare un appannamento e una distorsione dell'immagine editoriale, politica e morale dell'"Espresso". Ma non è ancora detto. Credo che comunque ci sia un ostacolo non facilmente sormontabile sulla strada di chi puntasse a "correggere". "L'Espresso": l'editore del giornale. Forse non è stato mai considerato a sufficienza che senza Caracciolo, questa singolare e discreta figura di editore, un fenomeno come "L'Espresso" nell'Italia di questi anni non sarebbe stato possibile. Finché Caracciolo resterà il padrone dell'"Espresso", non sarà facile a nessuno strappare il giornale al suo terreno culturale e politico. In ogni caso sarebbe un'operazione antistorica. I tempi, mi pare, vanno più che mai verso i radicali: se non ci fosse Pannella, oggi sar
ebbe persino difficile fare la copertina di un settimanale, in Italia.