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Ventura Giovanni - 30 agosto 1976
VENTURA DICE
di Giovanni Ventura

SOMMARIO: Rispondendo dal carcere di Catanzaro all'articolo di Prova Radicale: "Compagno a Tirana, spia a Treviso", Ventura riconosce l'origine reazionaria della sua esperienza politica, conseguenza della sua estrazione sociale e della sua educazione. Tale posizione, però, è stata abbandonata, con la conseguente rottura di ogni legame con qualsiasi gruppo di destra, a seguito di un lento processo di maturazione, che lo ha portato temporaneamente ad aderire al cosiddetto fascismo di sinistra. Dal 1967 vi è stato il suo avvicinamento ad organizzazioni politiche di sinistra, in parte ostacolato dal procedimento penale avviato a suo carico. Ventura racconta poi dei suoi rapporti con Giannettini, collaboratore del SID, puntualizzando che la sua opera era diretta a favore dell'organo di sicurezza dello Stato, non ancora sospettato di deviazione.

(PROVA RADICALE, luglio/agosto 1976)

(GIOVANNI VENTURA RISPONDE DAL CARCERE DI CATANZARO ALL'ARTICOLO DI "PROVA RADICALE": "COMPAGNO A TIRANA, SPIA A TREVISO")

"Prova Radicale", sostiene che io, "in sostanza, reclamo che mi sia dato un riconoscimento di fede democratica". In realtà, sono d'accordo con Mario Signorino: le "etichette" non servono, e io non le ho cercate quando mi era facile stropicciarmele addosso e non le inseguo ora. Contano i fatti, invece; e i fatti politici che ognuno vive e condivide. Chiedo che i fatti politici che vissi siano riconosciuti per quello che furono. E basta. E allora: i fatti della mia esperienza politica giustificano l'edificazione della "sagoma nera" che si è data di me nel processo e soprattutto nella sua divulgazione giornalistica e propagandistica? Dov'è, nei fatti, il "terrorista": se, come sostiene anche "Prova Radicale", nessuna sentenza spiega se sono in galera da cinque anni per avere messo le bombe o per aver rubato galline? E l'"editore fascista"? Ho pubblicato Hitler, Rosemberg, o paccottiglia reazionaria; o piuttosto libri che anche a un uomo come Umberto Terracini parvero "intitolati ad alcuni problemi essenziali de

l tempo e della sua società, italiana e internazionale"? E il "provocatore" di dove viene, se, come dice "Prova Radicale", "non esistono elementi che provino un'opera di provocazione di Ventura ai danni di gruppi di sinistra" - ma esistono, cari compagni, prove determinate di lealtà politica e di solidarietà democratica? Insomma, quali sono le referenze fattuali che hanno permesso per anni a una moltitudine di cronisti e di inviati di ingiuriarmi e manipolarmi: cioè di reificare di me un "fantasma nero" che ignora e distorce i dati esistenti della mia esperienza politica e della mia figura personale?

Non si può neppure dire che io abbia taciuto la mia biografia politica. Appena arrestato, cinque anni fa, diffusi un comunicato, che è utile trascrivere qui.

"Sono stato informato che alcune organizzazioni reazionarie e di destra, strettamente collegate con le iniziative di provocazione nei confronti dei movimenti e delle lotte sindacali e democratiche, hanno diffuso manifesti nei quali si chiede la mia liberazione. Con la diffusione di tali manifesti continua la provocazione nei miei confronti, che ormai dura da mesi e ha portato tra l'altro al mio arresto. Da varie parti, quindi, si vuole configurarmi come un seguace della ideologia reazionaria, utilizzando a tale scopo i numeri del giornaletto ``Reazione'', da me redatti tra il 1965 e il 1966. Ho riconosciuto, alcuni anni fa, che pubblicando quel giornale espressi posizioni politiche e teoriche errate, che rappresentavano il portato della mia origine sociale e della educazione in quell'ambito della società veneta nella quale tradizione clericale e conservatrice ha una sua caratteristica consistenza. Da anni ho abbandonato l'ideologia reazionaria, rompendo ogni legame con qualsiasi gruppo della destra. Pur aven

do contatti con movimenti e gruppi della sinistra democratica e socialista, non ho mai chiesto di aderirvi. Ho rivendicato da allora e rivendico il diritto di verificare la erroneità delle posizioni da me espresse all'epoca della pubblicazione del periodico ``Reazione''.

Dal 1967 ho esercitato tale diritto, che è di ogni uomo, senza ambiguità e mistificazioni. Ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato nell'esame e nella critica di miei errori e nel mio lavoro editoriale. Dal carcere di Santa Bona, Treviso, Giugno 1971".

Dunque: non ho mai celato ad alcuno neppure l'origine reazionaria della mia esperienza politica, per la quale non conservo disappunto moralistico. Si diviene da quel che si nasce. Le convinzioni sono in rapporto con la verità sociale di ognuno: rappresentano un atteggiamento funzionale condiviso nell'ambito di classe; cioè, nel mio caso, nello spazio di un sistema di valori chiuso. Le mie convinzioni politiche reazionarie di dieci anni fa erano l'affermazione delle norme di comportamento sociale e culturale di quel sistema di valori chiuso: e ne ero inevitabilmente plasmato, perché le convinzioni con cui mi uniformavo - anche in modo non passivo, credo - alle norme, al codice, del sistema di valori del mio ambito sociale originario, esprimevano anche il mio tipo mentale.

Da quella origine, ogni trasformazione fu possibile soltanto modificando le caratteristiche mentali: sostituendo le convinzioni di un sistema chiuso con quelle di un sistema aperto (e gradualmente più aperto); e disponendo cautele intellettuali adatte a impedire ricadute culturali e perdite di fattori razionali.

Non credo possibili trasformazioni positive della personalità politica se non attraverso fasi di amalgama, in cui elementi di persuasione contraddittori sono in competizione, e il nuovo si sforza di dimostrare la sua superiorità sul vecchio, fino a consolidarsi e ad acquisire un sentimento di sicurezza per ogni distacco da elementi chiusi residuali. In queste fasi di transizione, le convinzioni nuove s'introducono parzialmente e gradualmente nelle vecchie e, per razionalizzarsi e rendersi comprensibli, possono anche essere costrette a parlare il linguaggio delle vecchie. Così, a me parve uno svolgimento compiuto, dapprima, il passaggio da posizioni reazionarie radicali e quelle meno rigide proprie al fascismo di sinistra. Ma si trattava solo di un avvio: sotto le apparenze di un linguaggio politico immodificato, lo sviluppo ulteriore sarebbe stato nella edificazione dell'ambiguità interclassista e nello smascheramento del suo equivoco politico. Emergeva, cioè, il principio di evoluzione, che ha importanza de

cisiva - discriminante rispetto a ogni posizione teorica reazionaria - per tutte le forme di una politica democratica: esso si basa sulla persuasione e sulla educazione razionale.

Insomma, nella trasformazione positiva di una personalità politica esistono fasi di transizione che coprono rispettive sezioni nel campo teorico e pratico della politica.

Per rimanere nella brevità che mi è chiesta, non rifarò la storia delle sezioni teoriche della mia formazione politica democratica: ho già scritto, cinque anni fa, la mia biografica politica e culturale, che costituisce certamente il fascicolo più intenzionalmente ignorato e sconosciuto del processo.

I fatti politici, invece, la pratica, la milizia politica di cui chiedeva Signorino ("di che sinistra parla Ventura?").

Anche i fatti della mia esperienza politica li ho già raccontati, in decine di memorie processuali, di interviste, di note giornalistiche - come sanno i compagni che mi sono stati attenti anche dopo il mio arresto. Qui ne ho una rappresentazione schematica e inevitabilmente carente.

- Il mio avvicinamento a organizzazioni politiche della sinistra iniziò nella primavera del 1967: partecipando a convegni di partigiani veneti e trentini aderenti all'ANPI. Queste riunioni, organizzate dal comandante Carlo Marconcini e da Piero Loredan, continuarono fino all'estate del 1968. Vi parteciparono, tra gli altri, la giornalista de "l'Unità" clandestina Tina Merlin, e l'onorevole Vianello di Venezia.

- Nel 1967 cominciò anche la mia attività editoriale: limitata, in quell'anno, alla pubblicazione di volumi di storia veneta, riuniti prima nella sigla "Rotaprint" e poi in quella "Il Tridente". Durante il 1968, con la consulenza di Andrea Zanzotto (e di Giovanni Raboni, Giorgio Cesarano e Mafra Gagliardi), esaminai la possibilità di un intervento editoriale nel settore della produzione saggistica e politica. Questo proposito fu surrogato dalla iniziativa del catalogo "Ennesse" (1969), e quindi ricompreso nel catalogo "Galileo" (1969-1971). Per l'attività del catalogo "Ennesse" ebbi la collaborazione di Nino Massari, Roberto di Marco e altri; per quella del catalogo "Galileo", di Mario Quaranta, Elio Franzin e altri.

- Nell'autunno-inverno 1968-69 assieme ai compagni della Lega dei comunisti marxisti-leninisti di Italia, di Padova e di Treviso, organizzai una serie di riunioni politiche (sui temi della Guerra di Liberazione e della morfologia del neocapitalismo), avvenute nella sede della "Galleria del Libraio" e del "Servizio Bibliografico Librario" di Treviso.

- Nel 1969, con il concorso di Piero Loredan e Giorgio Guarnieri, costituii un'azienda grafica a Roma: assumendone la proprietà e la gestione in società ("Litopress") con Piero Gamacchio e Rinaldo Tomba. Gli utili di gestione (per la parte che corrispondeva alla mia quota di maggioranza nella società "Litopress") dovevano garantire economicamente - in base a un accordo politico con Piero Loredan e Giorgio Guarnieri - un'attività editoriale autonoma che proponesse materiali politici e contributi culturali democratici e socialisti. In tale prospettiva, dalla fine del 1969, le iniziative editoriali, suddivise nei cataloghi che ho ricordato, furono riunite nella sigla "Galileo Editori".

- Alla iniziativa ora ricordata ("Litopress-Galileo Editori") fu associato politicamente Alberto Sartori, dirigente del PCd'I-ml (Linea Rossa). In aprile 1969, egli accordò, con me e con Piero Loredan, una collaborazione professionale nella azienda "Litopress", che gli permettesse di risolvere sue difficoltà economiche (contratte per organizzare il congresso straordinario del Partito del 1968, di costituzone della Linea Rossa) e di aiutare finanziariamente il Partito. Inoltre, la stampa del settimanale del PCd'I-ml, "Il Partito", sarebbe stata curata e sostenuta dalla "Litopress". In autunno 1969, questo accordo fu riprecisato e definito con Angiolo Gracci, dell'Ufficio Politico della Linea Rossa.

- Lo sviluppo delle iniziative che ho succintamente ricordato fu contrastato dalle conseguenze del procedimento penale avviato a mio carico nel gennaio 1970, la cui notizia provocò la revoca di tutti gli affidamenti bancari che sostenevano economicamente le aziende "Litopress" e "Galileo". Il mio arresto, quindi, ne avviò la liquidazione: lasciando, in ultimo, soltanto a me e alla mia famiglia l'onere pesantissimo di corrispondere a obbligazioni finanziarie contratte per attività economiche la cui finalità reale era di natura politica.

- La mia conoscenza di Guido Giannettini risale al 1967. Ho ricostruito ampiamente il mio rapporto con il giornalista romano, e la sua natura informativa, in una memoria processuale. Qui è sufficiente ripetere che rivelai il mio contatto con il collaboratore del SID: a Piero Loredan, già durante il 1968; ad Alberto Sartori, nella primavera del 1969; a Mario Quaranta (e, parzialmente, a Elio Franzin) nell'inverno 1969-1970. Costoro esaminarono tutti i materiali informativi che ricevetti da Giannettini e avallarono politicamente il mio contatto con il collaboratore del SID. Inoltre, essi appresero (Quaranta con intensità forse minore rispetto a Loredan e Sartori) tutti i dati sulla operatività eversiva del 1969 che io potevo sapere da Franco Freda e comunicai al SID, attraverso Giannettini.

I fatti che ho schematizzato finora sono diffusamente trattati e documentati in una raccolta di materiali politico-processuali che va ora alla stampa. Chi vuole saperne di più potrà leggersi il libretto, e far "quadrare" i conti senza "studiarsi per mesi le carte processuali". E saperne di più, caro Signorino, è necessario, per non pretendere di analizzare e giudicare i miei comportamenti "ex post", dimenticando o deformando la loro progressione e sequenza fattuale "ex ante".

Così, per venire alle repliche puntuali delle "contestazioni" rivoltemi da "Prova Radicale": certo che le mie "idee democratiche di oggi" sono "diverse", ma continue e coerenti, rispetto alle idee democratiche che nel 1968 mi portarono a votare PSIUP. (Ricordo questa circostanza soltanto perché ho "studiato per mesi le carte processuali" e Guido Lorenzon la riferisce in un suo verbale del gennaio 1970, sostenendo che nel 1968 lo invitai a votare con me socialista). E "diverse" rispetto alle idee democratiche che, nel 1968 e nel 1969, mi portarono a svolgere tutte le mie attività politico-editoriali con compagni. La "diversità" delle mie "idee democratiche di oggi", rispetto a quelle di ieri, è anche l'esito di cinque anni di prigionia infame, di ingiurie e aggressioni, di squadrismo di sinistra nei miei confronti: magari dalla pagine del "Quotidiano dei Lavoratori", e per la penna vile di un compagno che nel 1968-1969 lavorò con me, lasciando buoni segni almeno in una introduzione a Max Stirner.

"Prova Radicale" parla di una mia "sovrapposizione di due momenti diversi, utilizzando la mia posizione attuale nel processo e il mio modo di pensare di oggi per avallare un'interpretazione in chiave democratica di quel che ho fatto nel 1969".

L'ho detto quel che ho fatto nel 1969 e prima: ho lavorato con compagni, quando ho iniziato a fare libri mi sono rivolto, nel 1968, alla collaborazione di uno che era in Commissione Cultura del PSI, quando ho fatto una società l'ho realizzata con un altro socialista che oggi è direttore dell'ERI, quando investii (consumandovelo) il mio patrimonio lo feci in iniziative politiche democratiche e in finanziamenti politici a gruppi di sinistra. Questi furono i miei "comportamenti" "concreti": e mi si spieghi "concretamente", non con illazioni evanescenti, dov'è l'appropriazione indebita di democraticità nel giudizio di lealtà democratica di oggi su quel che "ho fatto nel 1969".

"Prova Radicale" mi rimprovera di "non avere mai fatto circolare all'estero le informazioni" sulla operatività eversiva e terroristica che appresi nel 1969; e di avere aspettato "finché non venni arrestato e incastrato dal giudice istruttore"; e, comunque, di avere passato le informazioni a Tirana, a Pecchino, "restando un informatore che faceva capo al SID".

Il mio rapporto informativo con Guido Giannettini, collaboratore del SID, si consolidò per effetto della credibilità che, nel 1968-69, potevano indurmi i suoi legami con il settore militare raccolto attorno ad Aloja: cioè con il quadro dello Stato Maggiore che aveva liquidato i conati golpistici del settore antagonista di De Lorenzo. Al medesimo quadro militare si doveva, proprio in quegli anni (1968) l'allontanamento dalla direzione del SID dell'ultimo epigono di De Lorenzo, generale Allavena. Henke, che andò a sostituirlo, fu portato al vertice del Servizio come uomo di Aloja e con l'approvazione dei socialisti.

Giannettini fu una creatura informativa di Aloja, al quale era legato da rapporti personali (che mi documentò con lettere e fotografie). Giannettini riferiva allo Stato Maggiore e alla "linea" del SID che lo esprimeva (da tutti, non solo da me, ritenuta "lealista" nel 1968-1969, dopo la cessazione del vecchio Servizio Informazioni Forze Armate) le informazioni politiche sulla operatività eversiva in atto nel 1969 in Italia, che io gli comunicavo.

Oggi sappiamo con certezza che il lealismo istituzionale del SID non è mai esistito: ma mi si vuole forse rimproverare di non averlo previsto, di non aver saputo o intuito che la Commissione d'inchiesta parlamentare sul SIFAR e la liquidazione del vecchio apparato di sicurezza altro non furono che burle, e di essere stato miope nel credere alla lealtà di un organismo che nel 1969 era diretto da un uomo che aveva avuto il "nulla osta" del PSU?

I miei interessi informativi convergevano direttamente con il mio impegno editoriale: e non mi occupai che di raccogliere informazioni politiche, in modo non molto diverso da come fa oggi una organizzazione quale "Stampa alternativa". (Signorino vuol forse dire che questa agenzia ha "poco di democratico o di sinistra", dato che si avvale di "informatori" e di "spie"?). Libri come "Strage di Stato", o "Gli attentati e lo scioglimento del Parlamento", furono possibili soltanto perché nel 1969 esisteva una controinformazione democratica. Asfittica, isolata e marginale fin che si vuole; ma essa fu la sola ad avviare il ribaltamento dei meccanismi violenti dell'alterazione della prestidigitazione informativa di potere.

A "Prova Radicale" non piacciono le spie, l'informazione poliziesca: per le quali io non ho né ammirazione né condanna. Conta sapere in quale direzione e in favore di chi si raccolgono notizie e dati informativi: e quale uso se ne fa. Il fatto è che quel che l'opinione democratica conosce, oggi, sul complotto del 1969, non è molto di più di quanto potei apprendere e raccontare io. I dati che raccoglievo erano trasmessi all'organismo di sicurezza della Repubblica: sulla cui lealtà istituzionale nessuno avanzava riserve nel 1969. E' chiaro che un simile collegamento poteva esistere solo rispettando cautela e riserbo. Il mio ruolo non poteva essere quello di "impedire attentati" direttamente: questo era il compito del SID, che, pur disponendo degli elementi informativi limitati e incompleti che gli venivano da me attraverso Giannettini, non fece nulla per integrarli, renderli conclusivi, e tradurli efficacemente in un intervento preventivo.

I limiti delle mie cognizioni sulla operatività eversiva erano tali, nel 1969, da non poter "impedire" in nessun modo la sua articolazione terroristica con una denuncia o con qualsiasi altro intervento personale. Certo: potevo denunciare pubblicamente il poco che sapevo, impedirmi a quel modo di saperne di più, venirmene in carcere per aver accusato senza prove definite uno o due mandatari fascisti, e sfasciare il lavoro politico e professionale che svolgevo. Invece, mi limitai a comunicare ai compagni che ho indicato i dati che trasmettevo a Giannettini e al SID, i materiali e le informazioni che ricevevo da Giannettini (rapporti informativi, ecc.): e a divulgarne l'interpretazione politica che si poteva elaborarne allora.

Così, quando gli anarchici andarono in carcere per le bombe del 25 aprile 1969 a Milano (sulle quali non appresi mai nulla), dov'ero?, mi chiede "Prova Radicale". Ero interdetto, purtroppo, a leggere le invocazioni sanguinarie di Pietro Valpreda a Ravachol: e le apologie entusiastiche degli attentati ai treni che le accompagnavano. Perché, è bene che sia detto dov'era ogni altro nel 1969... nel punto in cui si fa il contropelo politico a me.

E quando, dopo la strage di Milano, "poliziotti e magistrati inventano la pista rossa e buttano Pinelli dalla finestra": ero a pubblicare due libri nei quali - utilizzando anche i dati informativi che avevo raccolto - si sosteneva l'estraneità degli anarchici alla strage (E. Franzin - M. Quaranta: "Gli attentati e lo scioglimento del Parlamento", Padova, 1970) e l'omicidio di Pinelli (Comitato di contro-informazione: "Pinelli, un omicidio politico"; Padova, 1970).

Chi pretende che questi libri e altri siano il risultato di un ingegnoso "camouflage" ne ignora i contenuti e le premesse politico-editoriali. In chi mi ingiuria e mi diffama, con sospetti di entrismo (pur "non esistendo elementi che provino un'opera di provocazione ai danni della sinistra" da parte mia) manca semplicemente la pulizia mentale: per capire e riconoscere che tutti i miei comportamenti attestano un'interrotta lealtà politica e una solidarietà democratica "concreta".

Si è sempre stabilito un nesso di complementarità tra attività di intossicazione politica e operatività eversiva e terroristica. E ora, mentre franano le artefazioni processuali dell'accusa che è stata portata contro di me, è difficile che l'opportunismo di chi mi colpevolizzò grossolanamente per anni ammetta la reciprocità inversa: che non essendo mai stato un provocatore, non ha alcun senso logico e politico attribuirmi responsabilità eversive e terroristiche.

Quel che "non quadra" nella valutazione conformistica (e squadristica) della mia posizione politica e processuale, caro Signorino, è la renitenza generale a prendere atto e a "verificare" i fatti politici che ho raccontato qui brevemente.

La sinistra ha il dovere di "verificare". Non averlo fatto per anni ha comportato, tra l'altro la liquidazione dell'inchiesta giudiziaria sulla strage di Milano: con l'opposizione del segreto politico militare. Senza che nessuno si chieda se ciò non configuri gli estremi della omissione di atti d'ufficio o del favoreggiamento o di peggio. La preclusione del segreto politico-militare è stata opposta tre volte, nella istruttoria per la strage di Milano: e, da ultimo, anche in relazione all'espatrio procurato dal SID a Maurizio Giorgi, luogotenente di Stefano Delle Chiaie.

Credo sia tempo di domandarsi se la prevaricazione politica di inventare o di opporre pretestuosamente il segreto alle istanze giudiziarie non alteri la regolarità dell'accertamento giurisdizionale, frantumando, insieme al diritto alla difesa dell'accusato, il diritto collettivo alla verità processuale e politica.

C'è anche da spiegare se si tratti di adozioni che investono la responsabilità individuale del Presidente del Consiglio o piuttosto collegialmente quella del Consiglio dei ministri.

In ogni caso, il segreto serve soprattutto a tenere in carcere senza prove di responsabilità penale personale nei fatti ascritti e senza legittimazione di dibattimento, da cinque anni, cioè per un periodo di carcerazione preventiva che non ha precedenti neppure in giurisdizioni sudamericane, colpevoli di comodo, preventivi e obbligatori, come me: perché prigionie inique e infami, come quella inflitta a me, compensino tutte le domande di verità precluse dai segreti del loro dio doroteo.

La sinistra ha suonato il piffero per anni, attorno a questi esoterismi di Stato; c'è da sperare che, alla fine, metta in musica l'art. 96 della Costituzione.

Dunque, caro Signorino, i conti dei miei ritardi e delle mie lentezze me li sono pagati con cinque anni di galera, che costituiscono una lesione civile di cui ogni cittadino democratico può ben vergognarsi. Ma gli altri faranno i conti loro?

E' difficile, dopo cinque anni di colpevolizzazione obbligatoria e di Stato, che ha realizzato un arco di colpevolisti veramente "unitario", da Emilio Taviani ad Adriano Sofri, riconosce che, in fondo, potrei non avere neppure "rubato le galline"; e che, se ho commesso errori, questi non hanno alcuna relazione con le imputazioni del processo, ma piuttosto con la mia povertà tattica.

Bari, 15 giugno 1976

 
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