Radicali.it - sito ufficiale di Radicali Italiani
Notizie Radicali, il giornale telematico di Radicali Italiani
cerca [dal 1999]


i testi dal 1955 al 1998

  RSS
ven 22 nov. 2024
[ cerca in archivio ] ARCHIVIO STORICO RADICALE
Archivio Partito radicale
Prova Radicale - 30 dicembre 1976
La libertà ha cento lingue
IL RISVEGLIO DELLE MINORANZE LINGUISTICHE METTE IN CRISI LO STATO NAZIONALE ACCENTRATO

SOMMARIO: La caduta della ideologia della difesa libera da obblighi e da fedeltà imposte facendo riaffiorare altre fedeltà, ad altre patrie, ad altre lingue. Salvare le lingue delle minoranze e i dialetti significa incidere sulla caratteristica accentratrice dello Stato nazionale,

(PROVA RADICALE, dicembre 1976)

Genocidio? In molti sensi sì: genocidio di classe, borghese; certo, risvolto negativo, e comunque obbligato, della rivoluzione francese, della dittatura giacobina e della sua prediletta creatura: la Nazione "una e indivisibile". Nel suo nascere storico, nel suo rafforzarsi sulle esigenze razionalizzatrici dell'organizzazione produttiva, burocratica e militare, la Nazione non poteva non spazzare via, non strangolare le mille "piccole patrie", le mille lingue e i mille dialetti, i gruppi linguistici "nazionali" rimasti accerchiati e rinserrati all'interno dei grandi complessi statuali unitari; fossero i baschi o i catalani, i gallesi o i friulani, i ladini o gli slavi di Gorizia e dell'Istria, giù fino alle minuscole isole greche e albanesi dell'Italia bizantina. Lungo un paio di secoli, la lotta è stata durissima, condotta con ogni artificio. La repressione fascista nei confronti degli alloglotti ne è stata solo l'espressione più rozza e brutale, non una eccezione. L'intolleranza è stata sofferta e pagata da

tutti i gruppi nazionali, linguistici e dialettali minoritari d'Europa.

La crisi del modello di Stato monolinguistico, il conseguente riffiorire di dialetti e lingue minoritarie è praticamente cosa di questo dopoguerra. La rivolta contro lo Stato unitario si fa anzi di anno in anno più profonda e allarmante. E i problemi italiani sono assai meno gravi di quanto avviene in Spagna, in Francia, nella stessa Inghilterra (per non parlare dell'annosa "quérelle" che divide fiamminghi e valloni, ma anche protestanti e cattolici, nel Belgio "bilingue"). I movimenti nazionalisti, di rivendicazione è di esaltazione delle piccole "patrie" in opposizione alla "grande" si estremizzano, divengono violenti, si fanno ormai parte integrante di una rivendicazione più ampiamente centrifuga. Il problema si fa politico e storico, in tutta Europa, o quasi. Per comprensibili motivi, alla rivendicazione linguistico-culturale si associano richieste di sviluppo economico, di sostanziale autodeterminazione del meccanismo di sviluppo: cosa comprensibile, perché per piegare resistenze antiche e orgogli secol

ari le grandi nazioni hanno adottato, in tutte queste regioni, la tecnica dell'abbandono, della terra bruciata: la Bretagna è l'arsenale militare di Francia, in Corsica si fanno rimpatriare i "pieds noirs" reduci d'Algeria e con loro si acquartierano i relitti della Legione francese; la Sardegna è il grande poligono balistico della NATO, dove si celano inafferrabili sommergibili atomici carichi di testate nucleari. Il sottosviluppo è, per queste regioni, la regola. In Scozia, si parla della spedizione inglese conclusasi con il massacro di Culloden (1713) come della prima sperimentazione dell'incipiente colonialismo ed imperialismo britannico e le attuali rivendicazioni di indipendenza poggiano sulla richiesta di autodeterminazione anche nello sfruttamento delle risorse naturali, primo il petrolio del Mare del Nord.

Il problema non è solo europeo-occidentale. Nell'Europa orientale, la questione nazionale ha causato anche peggiori travagli. Ha spaccato l'Impero austroungarico; mette in difficoltà la Jugoslavia socialista e le sue prospettive di sopravvivenza; non è estranea alle più sotterranee lotte di potere nell'Unione Sovietica dove è il perno della drammatica "questione ebraica". Stalin vi dedicò importanti interventi politici e culturali, con polemiche contro Bauer, la socialdemocrazia austriaca e la loro pretesa "borghese" di salvaguardare le autonomie "nazionali" (per lui, il problema, anche per la Russia, era di restituire alle nazionalità dell'Unione l'"autonomia regionale").

Ma qui le recenti tensioni che travagliano l'Europa occidentale non si manifestano con la stessa intensità, seppur forse permangono allo stato endemico. La rivolta antistatuale delle nazionalità ha, nell'Europa occidentale, una ben precisa motivazione, assai "moderna". Certo, si possono contare in questa area anche casi che stanno a sé, come la questione basca e quella catalana, che affondano in una storia più lunga e complessa. Ma, in generale, possiamo affermare che questa rivolta è conseguenza dell'affievolirsi della capacità dello Stato di assicurare alcune sue funzioni, storicamente ben determinate: la "razionalizzazione" delle strutture organizzative e di produzione, la "difesa" contro il nemico, lo straniero. La razionalizzazione produttiva non richiede più la compressione, la liquidazione degli elementi di disturbo, i cosiddetti "diversivi" (gli alloglotti come i pazzi e gli handicappati, esclusi tutti dalla logica del profitto), incapaci di assoggettarsi allo sforzo coordinato delle grandi masse; e,

contemporaneamente, è venuta a cadere l'"ideologia" della difesa necessaria di fronte allo "straniero", il nemico (sempre "tradizionale" e alloglotto: il tedesco per il francese, l'austriaco per l'italiano). La caduta delle due ideologie libera così da obblighi e da fedeltà imposte, e possono riaffiorare fedeltà "altre"; ad esempio quella, appunto, alle "piccole patrie".

E' una vera e propria rivoluzione culturale quella che investe, su questo terreno, l'Europa. Ne vengono intaccati problemi annosi, e soluzioni che erano apparse collaudate. Entra in crisi la scuola ed il suo secolare (e, magari, "benemerito") sforzo di unificazione linguistica. Studiosi profondamente convinti della necessità storica di questo processo (come Tullio De Mauro) ed ostili - in nome di uno storicismo che su questo terreno è formidabilmente attrezzato alla polemica - ad ogni nostalgia e rivendicazionismo, nella stratificazione "sincronica", delle diversità locali e regionali, come al risorgente polilinguismo letterario. Gadda, Pasolini, Pizzuto infrangono le uniformità della struttura.

Anche in questo settore - diciamo, "dal basso" - va in crisi, è in difficoltà lo Stato nazionale accentrato "storico". Curiosamente, ma non troppo per chi sappia porvi un po' di attenzione, per gli stessi motivi per i quali ne denunciano la crisi sia i federalisti europei (quelli seri naturalmente) sia quanti pensano che le nuove fedeltà, quelle che potranno in caso di conflitto spaccare e contrapporre masse e coscienze, si distinguono lungo fratture di classe, non nazionali (toh!, la tesi di Stalin). Come dice Mauro Mellini, il problema, oggi, non è tanto "salvare" i dialetti, quanto incidere anche per questa via, per metterlo in mora, sullo Stato nazionale: insomma, anche qui per "far deperire il potere".

 
Argomenti correlati:
minoranze linguistiche
genocidio
stampa questo documento invia questa pagina per mail