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Strik Lievers Lorenzo - 20 marzo 1977
Referendum: contro la crisi uno strumento di unità e alternativa
di Lorenzo Strik Lievers

SOMMARIO: Negli anni settanta la proposta politica del PR di uso del referendum per imporre, sul terreno dei diritti civili, l'alternativa al regime democristiano era convincente, anche se non ha avuto del tutto successo. E' riproponibile anche oggi la stessa strategia con gli "otto referendum contro il regime"? La crisi economica e l'accentuarsi del corporativismo accentuano la degradazione del patrimonio culturale del paese; l'aumento degli emarginati, alla ricerca di nuovi modelli politici, che possono trovare dignità attraverso la lotta per i diritti politici. Saprà la sinistra cogliere l'occasione di alternativa fornita dai referendum radicali?

(ARGOMENTI RADICALI - BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA - anno I, n. 1, aprile-maggio 1977)

Che senso ha, oggi, la proposta radicale degli otto referendum per i diritti civili? E' adeguata alla realtà del paese? Domande più che legittime e plausibili: se non altro perché il primo progetto di un pacchetto di referendum il PR l'ha formulato cinque anni fa, nel congresso di Torino del 1972, partendo da una ben determinata analisi della situazione. Ma quell'analisi fin dove è valida tuttora? Non pesano forse i pur macroscopici mutamenti intervenuti nel frattempo?

Spesso si ha l'impressione invece - e l'ha data anche l'ultimo dibattito congressuale - che da molte parti nel PR il problema venga sottovalutato; ciò che potrebbe portare a errori anche gravi d'impostazione, a rendere sloganistica, dogmatica, »ideologica un'iniziativa che vuole avere caratteri opposti, e deve mantenerli per non perdere di forza, credibilità e capacità d'incidere. Occorre rivedere, discutere.

La valutazione da cui ci s'era mossi, a Torino, era che il regime DC fosse ormai sempre più stabilmente insediato nel paese, e andasse »chiudendosi con un processo che - in mancanza di strategie alternative a sinistra - si profilava storicamente definitivo; espressione e frutto di questa situazione la maggioranza potenziale DC-MSI esistente allora in parlamento. Si diceva poi che il carattere clericale, corporativo, corruttore e corrotto non per accidente ma per intima natura del regime lo portava a negare diritto di cittadinanza politica ai temi stessi dei diritti civili: sicché se ne concludeva che solo imponendo, con lo strumento dei referendum, la battaglia sul terreno dei diritti civili, di per sé alternativo al regime, si poteva spezzare la morsa che si chiudeva, portare la maggioranza moderna e civile del paese a riconoscere se stessa, creare le condizioni di una lotta politica vitale e le premesse per l'alternativa.

Oggi, certo, molte cose sono cambiate. Dopo i tre scossoni successivi del 12 maggio 1974, del 15 giugno 1975 e del 20 giugno 1976 il predominio democristiano vacilla paurosamente. All'indomani del 20 giugno il regime sembrava in pezzi. Si può discutere quanto la politica delle astensioni ne abbia consentito la ricostituzione, o abbia posto le premesse del suo ristabilirsi; ma in ogni modo di un monopolio democristiano del potere nell'Italia d'oggi sarebbe forzato e schematico parlare - benché poi i fattori degenerativi sempre più accentuati che operano nel paese non consentano affatto di vedere perciò solo più vicina l'alternativa democratica di sinistra.

Il regime degli anni '70

Sia ben chiaro: ciò prova unicamente la validità dell'analisi radicale del 1972. Se è vero che l'obiettivo degli otto referendum fu mancato allora, è vero anche che la funzione dirompente che ad esso assegnavamo la esercitò invece il referendum sul divorzio e fummo soli, a sinistra, a volere che si tenesse. Se il successo dell'operazione Carettoni avrebbe significato la squalificazione e l'abdicazione delle sinistre e sancito la definitiva saldatura del regime clerico-corporativo, quell'unico referendum su una legge di libertà dimostrò appunto che su quei temi e con quegli strumenti il paese si svegliava, e la sinistra esprimeva tutta la sua potenzialità di forza e di maggioranza leale, spezzava naturalmente le catene del regime. In gran parte a questo risveglio, a questa presa di coscienza si devono - come dubitarne? - le vittorie elettorali degli anni successivi.

Come che sia, in ogni modo, oggi il problema non è più tanto quello di minare un edificio massiccio, una morsa stritolatrice di ogni dissenso, ma semmai quello di non rimanere soffocati - il paese e le sue speranze di libertà e civiltà - sotto le rovine del regime: ché le macerie, le frane possono schiacciare e opprimere quanto i macigni.

Bisogna poi tener conto di un altro elemento rilevante di differenza rispetto al discorso del 1972. Si diceva allora, nel lanciare l'iniziativa dei referendum, che essa avrebbe determinato nel paese una suddivisione netta, benché non necessariamente lacerante: da una parte una minoranza conservatrice, clericale, di destra, sotto la guida della DC, e dall'altra una maggioranza di forze laiche, progressiste, socialiste, nel segno dell'unità delle sinistre. Insomma, anche per questa via, si sarebbe prefigurata e promossa l'alternativa.

Anche qui le cose non si presentano più così semplici: perché - occorre esserne consapevoli - il »pacchetto di referendum che il PR quest'anno propone e i caratteri del confronto politico in Italia sono tali da non rendere più così ovvio e in qualche modo scontato che, una volta indetti i referendum, si determinerebbero proprio quegli schieramenti. Su alcuni dei temi sollevati in realtà non c'è concordia a sinistra: quanto meno sul finanziamento pubblico dei partiti la sinistra probabilmente non andrebbe unita, e non paiono illegittimi neppure i timori sull'atteggiamento che componenti di decisiva importanza della sinistra potrebbero assumere su temi come quello del concordato. D'altro canto la DC - soprattutto dopo la lezione del 1974 - difficilmente vorrebbe farsi carico della difesa di tutte le norme sottoposte a referendum; in più d'un caso anzi potrebbe addirittura giungere a un'indicazione favorevole all'abrogazione delle norme contestate. Se anche la sostanza e il significato profondo del progetto de

i referendum non sono mutati, insomma, l'effetto di un'indicazione esplicitamente antidemocristiana e per l'alternativa di sinistra potrebbe, in una campagna elettorale per i referendum nel 1978, uscire assai meno netta, o addirittura sfuggire del tutto a settori consistenti dell'opinione pubblica.

Ma allora hanno perso gran parte del loro valore politico i referendum? Rischiano di ridursi soltanto a una somma di battaglie settoriali, per singole riforme, magari importanti in sé ma ormai poco incisive nel contesto politico mutato? Ché poi, se questo fosse vero, anche l'obiezione bolsa - tanto è attesa, scontata - che in tempi di crisi economica le questioni su cui si chiede il referendum non interessano i lavoratori, la classe operaia, le masse - potrebbe apparire non priva di qualche fondamento.

In realtà basta riflettere anche per poco alle condizioni del paese per rendersi conto che il progetto degli otto referendum è semmai oggi più valido e urgente che nel 1972 - per quanto, magari, in senso diverso. Diversità d'altronde poi solo parziale: a rileggere la mozione congressuale del '72 si constata che se sono fortemente cambiati da allora i rapporti di forza e gli equilibri politico-parlamentari, le ragioni di fondo che allora inducevano a promuovere i referendum - attinenti alle grandi tendenze e alla dinamica delle relazioni fra vita politica, istituzioni e società civile - non solo in larga misura sussistono, ma si sono tragicamente aggravate.

»"L'atomizzazione corporativa, la frantumazione sociale, l'alienazione di massa, l'incentivazione dei settori e delle strutture di rapina consumistica, il massacro del territorio e del »tempo libero , della salute pubblica e dell'onestà e della lealtà di ogni istituzione, struttura e servizio statale, non meno che del metodo democratico laico e nonviolento di confronto politico, la corruzione dilagante che è connaturata alla DC come la polizia al fascismo, il caos e le »crisi , utili perché il ricco e il potente diventino sempre più ricchi e più potenti, il povero e lo sfruttato più poveri e sfruttati, non sono le conseguenze di una pretesa inadeguatezza storica della classe dirigente ma l'espressione necessaria e rigorosa degli interessi e dell'attività delle forze clerico-democratiche e clerico-fasciste di regime" .

Così la mozione di Torino. Come negare che una simile sintetica diagnosi cogliesse con lucidità e acume le premesse della situazione che stiamo vivendo? E' persino inutile, a questa stregua, ribadire qui l'ammonimento centrale che i radicali vanno in questi mesi rivolgendo a tutti i democratici, che senza spazzar via la classe dirigente e la logica di questo regime non ci si può illudere di far uscire il paese dalla crisi economica e dalla dissoluzione morale e civile, e che in Italia le radici e le aggravanti della crisi economica sono in primo luogo politiche, affondano nella disintegrazione, nel saccheggio corporativo e lottizzatore dei poteri pubblici, inservibili in queste condizioni per interventi di risanamento.

Può esser forse più direttamente pertinente invece osservare come proprio le forme e i modi della crisi di questo regime siano in realtà omogenei alla sua natura, ne rispecchino le distorsioni, ne costituiscano una manifestazione e quasi una vittoria ulteriori: a dimostrare, se ce ne fosse bisogno, quanto in un trentennio esso si sia »solidamente insediato... nel paese .

Crisi economica e corporativismo

In effetti, la crisi economica e l'incertezza del quadro politico non fanno che moltiplicare un po' dovunque la ricerca frenetica della salvezza individuale o di gruppo, di categoria o di centro di potere mediante l'esasperazione dei meccanismi corporativi del privilegio per alcuni a danno della collettività e della disinvolta utilizzazione parassitaria e privatistica delle risorse collettive: sicché mentre tensioni estremamente preoccupanti percorrono il mondo del lavoro, i conati caotici di razionalizzazione e riconversione si risolvono in nuovi sperperi, in lottizzazioni e assalti più sfacciati che mai delle tante »razze padrone alla cosa pubblica.

Di più, il costume cinicamente demagogico, paternalisticamente corporativo e corruttore del sistema democristiano è penetrato così a fondo nelle fibre della società italiana, che perfino la rivolta e la disperazione che il regime induce in larga misura non sanno incanalarsi se non sui binari senza sbocco da esso stesso in qualche modo predisposti. Come altrimenti interpretare il dato evidente a tutti che la protesta di milioni di persone oppresse, emarginate, disoccupate o male occupate, frustrate, deluse e disilluse nelle loro aspirazioni all'emancipazione e al benessere sembra in gran parte trovare due soli sbocchi naturali: o il tentativo di strappare qualche brandello di concessione assistenziale-corporativa; o - magari frammisto al primo - la ribellione indiscriminata, priva di obiettivi e di contenuti politici reali, violenta e suicida, atta soltanto a ribadire l'impotenza e l'emarginazione? Nel quale fenomeno, prima forse che in ogni altro, sta la tragedia da cui il paese non riesce ad uscire.

Emblematico - un esempio basti per tutti - quel che sta avvenendo nell'università, dove i due aspetti si presentano insieme e si intersecano in un paradosso grottesco: perché alla "jacquerie" urbana oscillante fra millenarismo impotente, povera sottocultura, corporativismo squallido e violenza teppistica scatenata da una generazione studentesca di esclusi e di spostati (a una caratteristica rivolta contro l'emarginazione, dunque) sembra ci si avvii a rispondere distribuendo »benefici corporativi avvilenti, discriminatori e jugulatori ad altri, a coloro che in un modo o nell'altro nell'università sono professionalmente inseriti; e magari accelerando, così, se possibile, la degradazione della cultura universitaria e perciò del patrimonio culturale del paese nel suo insieme.

Emarginazione e sottocultura

I guasti si aggiungono ai guasti. Gli emarginati che si rivoltano contro il sistema corporativo che li esclude si scontrano con una »società politica in cui - per dirla ancora con la mozione di Torino - »caste di burocrati e caste sacerdotali tutelano con le 'verità ideologiche' e i 'dogmi di fede', di cui si proclamano custodi e servitori, l'accumulazione e la gestione di potere, al quale solo credono, senza riserve e condizioni, contro ogni verità dialogica, democratica e laica . Culturalmente disarmati, come spesso necessariamente sono, quanti si ribellano non si imbattono molte volte in altri modelli di cultura politica che in quelli delle liturgie pseudo-ideologiche, arnesi ipocriti di potere, estranei alla dimensione dell'effettiva indagine critica. In mancanza di meglio cercano in questo ciarpame gli strumenti attraverso cui esprimersi; e gli ideologismi allora, perso il carattere della mistificazione sapiente e abile, diventano formule rigide, povere di significato; e le formule, "slogans"... Non c'

è solo questo, certo: ma come stupirsi, in ogni modo, se proprio le forze rivoluzionarie che non vogliono lasciarsi inquadrare nel gioco deprimente delle lottizzazioni e degli intrallazzi di potere si riducono poi troppo spesso a pensare, a operare soltanto attraverso il ritmo ossessivo e ottenebrante degli "slogans"? E certo una lotta politica che proceda per "slogans" esclude l'attitudine al dialogo, al confronto rigoroso, tollerante e laico fra idee così forti da poter essere messe davvero in discussione e rimeditate; comporta invece la sopraffazione, l'ostracismo al diverso, la violenza...

Su questa via si potrebbe procedere a lungo nell'analisi. Ma il senso del discorso dovrebbe esser chiaro, in ogni modo: in una società corrosa e sconvolta da simili processi degenerativi urge introdurre delle controspinte vigorose, occorre ristabilire fiducia e speranza nella democrazia, nella repubblica; è indispensabile restituire dignità, verità e concretezza alle scelte politiche sottraendole all'alternativa fra la partecipazione complice al marciume parassitario-corporativo-assistenziale e il nullismo vanamente palingenetico-rivoluzionario.

Cos'altro significa questo, se non che si devono riportare, e subito, al centro della lotta politica i grandi temi delle libertà e dei diritti civili? Più valida semmai oggi di allora la diagnosi del 1972, la proposta allora elaborata, quella dei referendum, si impone con moltiplicata evidenza.

Un carattere, almeno, distingue le battaglie per i diritti civili: che di sicuro non sono riconducibili a disegni e dinamiche di saccheggio corporativo o di spartizione di potere. Quali interessi di persone o di gruppi, di cosche, di mafie o di apparati si possono celare dietro le lotte per stabilire leggi che vietino di vietare? Lo sentivano e lo sapevano quei milioni di italiani che si sono impegnati, tre anni fa, nella battaglia per il divorzio con un entusiasmo e un fervore quali non si vedevano da decenni nelle consultazioni elettorali ordinarie; nelle quali al contrario è spesso legittimo, troppo spesso fondato, il timore »qualunquista nei cittadini di venir ingannati e strumentalizzati a bassi interessi. Se ne rendevano conto le centinaia di migliaia di elettori che nel 1975 sono accorsi a firmare per il referendum sull'aborto. E sarebbe difficile negare che queste due esperienze abbiano rappresentato i contributi forse più cospicui alla lotta difficile per rendere credibilità e vitalità alle istituz

ioni della democrazia. Soprattutto, a voler servirsi di una terminologia poco usuale fra i radicali, va detto che in un paese come l'Italia le battaglie per i diritti civili sono quelle veramente »non assorbibili dal sistema - dal »sistema , appunto, del caos corporativo; e che proprio perciò, come accade, sono le sole sulle quali si realizzano e prendono coscienza di sé grandi maggioranze alternative.

Ma è poi anche lo strumento in sé dei referendum ad assumere oggi un valore singolare e irrinunciabile: perché richiama ognuno, ogni singolo cittadino, alla responsabilità delle decisioni non su "slogans", su simboli, su miti, ma su cose da fare o da non fare, su grandi scelte di civiltà da operare però non intorno a vaghe formule ideologiche, ma intorno a problemi concreti di legislazione. Né pare necessario insistere sull'importanza di rafforzare per questa via - che non è la sola, ma certo una delle più immediate e pregnanti - l'abito critico, il gusto delle scelte e della concretezza, il senso della responsabilità personale di ciascuno verso la cosa pubblica: potrebbe semmai essere un tema di meditazione da suggerire a chi peregrinamente accusa proprio i radicali di voler alimentare le tendenze irrazionaliste, pericolose e oscure, che percorrono la società italiana.

Destabilizzazione e riforma

In questo senso, anzi, si potrebbe trovare un elemento ulteriormente positivo nel dato ricordato in precedenza, che cioè di fronte agli otto referendum che quest'anno il partito radicale propone non si realizzerebbe probabilmente un'unità »automatica di tutte le sinistre. In fondo proprio costringere ogni militante, ogni elettore di sinistra a farsi da sé delle scelte non scontate, non ovvie, non predeterminate da motivazioni di bandiera e di schieramento, può costituire un apporto significativo alla forza e all'unità creativa, non frontista delle sinistre; giacché per le sinistre è una necessità primaria quella di ricostituire perennemente un rapporto reale con il paese senza farsi imprigionare negli schematismi, evitando che la grande forza delle proprie tradizioni, sottratta a un costante ripensamento critico, scada nell'arteriosclerosi della ritualità.

Senza soffermarsi, così, sul valore - una per una - delle singole battaglie proposte, si può comunque fermarsi alla constatazione generale che il progetto degli otto referendum è pressoché il solo nel panorama politico italiano a prospettare l'introduzione di un »controvapore , di un processo tale da contrastare con efficacia le più clamorose tendenze degenerative della società. Se è vero che non si tratta più tanto di rompere, con una scossa destabilizzatrice, la morsa di un regime già marcio e fatiscente, che rappresenta di per sé il massimo fattore di destabilizzazione, è vero invece che con i referendum si avvia l'alternativa non solo e non tanto al regime come »sovrastruttura politica, quanto al tipo di società e di costume che questo regime in un trentennio si è plasmato. Al caos reazionario delle sopraffazioni e della violenza si contrappone, con questi referendum, un principio di ordine libertario e laico, intimamente liberale, omogeneo alle grandi speranze socialiste in una civiltà a misura d'uomo.

Un'ulteriore riflessione si impone, a questo punto. Non c'è dubbio che l'avvento al potere delle sinistre rappresenti la condizione necessaria, benché forse non sufficiente, per far uscire il paese dalla sua crisi; e non c'è dubbio che mai come ora la sinistra è stata vicina a prenderlo, il potere, o a precipitare indietro almeno per una generazione. Con tutta evidenza, il pericolo più immediato che incalza oggi la sinistra è quello di vedersi sfuggire i consensi per un riflesso di delusione di fronte alla modestia dei risultati che, con l'immensa forza conquistata il 20 giugno, essa riesce ad ottenere. Ma d'altronde è ben chiaro che davanti al rischio di un crollo sudamericano dell'economia italiana la sinistra non è in grado oggi di conquistare vittorie significative sul terreno specificamente economico-sociale, o su quello delle riforme che richiedono investimenti massicci.

Tutto e subito?

Come contestare, allora, l'urgenza drammatica di un impegno sui referendum e sui diritti civili? Sarebbe »responsabile o non piuttosto suicida una sinistra che lasciasse cadere la proposta di utilizzare la propria forza lì dove soltanto essa può passare subito all'offensiva e vincere - dimostrandosi non imbelle o al più meramente difensiva - sul piano delle riforme senza spesa, delle conquiste di libertà?

E poi, ancora: una sinistra che - quale sia per essere la sua »via al potere , quella del compromesso storico o quella dell'alternativa - è comunque soggetta a forti intenzioni e pericoli d'involuzione burocratica, giacobina e autoritaria, non sarà forse in ogni caso meglio agguerrita contro questi rischi mortali, che minacciano le sue stesse ragioni d'essere, se al potere arriverà sull'onda di una grande battaglia per i diritti civili? Se ognuno dei suoi militanti o dei suoi dirigenti avrà sentito - nel concreto della lotta, e non nel mero teorizzare - essenziali per sé e per la propria parte politica i valori di tolleranza, libertà e giustizia che quella battaglia implica e presuppone?

Sono riflessioni che i radicali (davvero, dunque, massimalisti? davvero pescatori nel torbido, amanti del »gesto dannunziano? davvero fautori di un irresponsabile »tutto e subito? o non invece continuatori, per quanto loro compete, del rigoroso, concreto gradualismo umanitario e nonviolento della più alta tradizione riformista?) devono pur proporre a quanti nutrono, per l'Italia, speranze nel futuro di un socialismo dal volto umano.

 
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