di Piero BizzarriSOMMARIO: Con la legge sulla riconversione industriale il PCI ha maggiormente manifestato il suo accordo con la DC. Il PSI ha seguito le orme del PCI.
(ARGOMENTI RADICALI - BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA - anno I, n. 1, aprile-maggio 1977)
Chi è attento alle cause strutturali dei fenomeni sociali ha capito che, prima dell'assoluzione di Rumor, prima del discorso di Moro, il miserevole esito della legge sulla riconversione industriale ha segnato il massimo di contraddizione sia del disegno berlingueriano di compromesso storico, sia della trasformistica accezione con cui una parte della nuova dirigenza socialista ha recepito il disegno di alternativa alla DC.
Nel mezzo di una crisi economica di dimensioni mondiali, appesantito da un sistema finanziario completamente centrato su una organizzazione bancaria divenuta una mostruosa costruzione clientelare e impedito da strutture pubbliche inefficienti e corrotte, l'apparato produttivo italiano ha mostrato falle gigantesche che nessuna operazione di trucco o di semplice ripristino poteva più nascondere all'occhio del paese, e soprattutto, al vaglio spietato della concorrenza internazionale.
Questo il quadro della situazione economica e sociale che si è trovata di fronte la sinistra uscita complessivamente rafforzata dalle elezioni del 20 giugno, dopo una campagna elettorale condotta appunto all'insegna del compromesso storico da parte del PCI e dell'alternativa di sinistra da parte del PSI.
Alla riconversione industriale il PCI aveva pensato molto negli ultimi anni, anzi si può dire che sotto questa espressione aveva racchiuso quasi tutta la sua filosofia neorevisionista in politica economica: la sostanza del cosiddetto »nuovo modello di sviluppo . In concreto: favorire lo sviluppo di settori a tecnologie avanzate di prodotti ad elevato valore aggiunto e possibilmente sostitutivi di importazioni. Uno schema di obiettivi limitati, molto seri e responsabili affidati peraltro ad un armamentario piuttosto debole ed incerto (in un paese come l'Italia) e cioè l'organizzazione della domanda pubblica e comunque da realizzare nell'ambito dell'operazione di compromesso con la DC.
Non c'è da meravigliarsi pertanto che nei sotterranei o scoperti patteggiamenti dai quali è uscito l'accordo sull'astensione verso il governo Andreotti, il PCI abbia messo il problema della riconversione industriale al primo posto nell'ordine dei provvedimenti da approvare per risollevare la situazione economica italiana. Con la disinvoltura che gli è propria, Andreotti ha fatto sua la formula della riconversione e ha mantenuto l'impegno di presentare al Parlamento un organico progetto che, tenuto conto anche della situazione congiunturale, si proponesse di ristrutturare e rinnovare l'apparato industriale.
Ovviamente la disinvoltura di Andreotti non è stata sufficiente a trasformare l'ignobile pateracchio che è arrivato in Senato in qualcosa che potesse lontanamente avvicinarsi alle aspettative dei comunisti. In esso è contenuto di tutto: una spartizione dei fondi tra Donat-Cattin e De Mita (ad uno la ristrutturazione all'altro la riconversione), un finanziamento per la Montedison (passando anche attraverso un contentino a La Malfa via Cuccia), soldi all'artigianato (vediamo se questo basta alle regioni rosse) e infine, ovviamente, il rifinanziamento al buio delle Partecipazioni Statali, chiave di volta del sistema di potere della DC.
Vittime della loro storica, tragica coerenza i parlamentari del PCI sono addirittura riusciti a fare approvare dal Senato il progetto governativo prima che iniziassero i primi dubbi, i primi ripensamenti e soprattutto le dure contraddizioni con il movimento sindacale. La direzione del partito ha finalmente imposto l'alt iniziando una ricontrattazione affannosa e comunque ormai destinata solo a salvare il salvabile avendo perso ogni ragionevole speranza di ritrovare in qualche modo, nei gangli del tipico scenario delle correnti DC in lotta, il filo di una proposta onestamente (e ingenuamente) riformista come quella di partenza. E'stata questa la prima, sostanziale, bruciante verifica dell'utopia berlingueriana del compromesso con i cattolici sub specie DC, verifica avvenuta su un tipico nodo strutturale quale quello del rinnovamento del sistema produttivo.
Altrettanto magro e deludente il bilancio del PSI dopo questa importante verifica. In effetti, caratteristica operazione di palazzo, il cambio della guardia al vertice del partito socialista sembrava potesse aprire una fase di rifondazione ideale e politica oltre che organizzativa del partito, se non altro per superare una gravissima crisi di consenso e di legittimazione. L'improvvisa e appassionata scoperta delle tesi che Norberto Bobbio sostiene da almeno un ventennio ha invece rapidamente acquisito un sapore di estemporanea strumentalizzazione, di trucchetto inventato per superare un »impasse culturale quando si è constatato che il vero nucleo portante dell'ideologia del centro-sinistra, il riformismo dei programmatori (quelli della stanza dei bottoni) non veniva rimesso in discussione. Questo dato culturale di rivelava anzi come la sigla sotto la quale passava un nuovo opportunismo: avvicinarsi al PCI alla ricerca dell'accordo con la DC (è il diverso peso elettorale e la diversa »serietà dei comunisti
che renderanno possibile »trattare più favorevolmente con la DC) e mantenere l'esperienza del centro-sinistra nell'ambito delle scelte positive fatte dal partito in modo da non lacerare troppo il rapporto all'interno della nuova direzione, visto che la maggioranza che la sorregge si porta appresso manciniani e personaggi simbolici come l'on. Lauricella.
Nel caso della legge di riconversione industriale, la scelta fatta di pedinare il PCI ha portato invece i socialisti a riscoprire paradossalmente le stesse contraddizioni del riformismo velleitario e parolaio di una DC ormai indissolubilmente coinvolta con tutte le aree del clientelismo e del parassitismo e alla base degli insuccessi storici del centro-sinistra. E' vero che si è trattato di un'operazione compiuta rimanendo alle spalle del PCI e cercando soltanto di distinguersi (molto tardivamente e timidamente) con qualche posizione critica più accentuata e, naturalmente, con una più ampia disponibilità e fare marcia indietro. Ma si è dimostrato, perdendo questa occasione, che non è soltanto discutendo di socialismo e di democrazia, o di mercato e pluralismo, che si dà un contributo all'avanzamento della sinistra in Italia e soprattutto all'ampliamento dell'area socialista, quanto rifiutandosi alle tentazioni di potere, allargando il dibattito alla base (fuori dalle sezioni di lavoro di Via del Corso) denun
ziando i metodi clientelari e assistenziali, il falso dirigismo che costituiscono il nucleo di potere democristiano e l'origine prima dei mali che colpiscono l'economia italiana. I dibattiti teorici cioè, per quanto stimolanti, non possono che divenire un alibi quando non permeano la conduzione del partito, non si calano nella realtà del paese saldandosi con la prassi politica quotidiana, divenendo proposta operativa per tutta l'area della sinistra. E Dio solo sa se il problema della riconversione industriale non rappresentasse un banco di prova, un'occasione per porre al centro del dibattito sulla crisi una seria proposta di gestione di un complesso (e disastrato) sistema di economia mista quale quello italiano: una proposta che attendono masse di lavoratori e di cittadini i quali ancora si riconoscono nell'area laica e socialista.