di M. T.SOMMARIO: Le nuove forze extraparlamentari di sinistra, nate dal compromesso storico del PCI, hanno fallito nella loro politica basata su tre fattori: la speranza di rotture rivoluzionarie, la centralità operaia e la concezione leninista del partito.
(ARGOMENTI RADICALI - BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA - anno I, n. 1, aprile-maggio 1977)
Mentre scriviamo, i giornali riportano con evidenza due notizie che vanno ben al di là del fatto contingente: l'aggressività e la vastità del nuovo movimento nato tra le masse giovanili studentesche e lo scollamento definitivo del PDUP. Sui due fatti - l'uno ormai centrale in questa stagione, con tutto quanto ha messo o rimesso in moto nel quadro politico, e l'altro marginale ma significativo - sono state condotte molte analisi. Ci interessa perciò soffermarci qui solo su un aspetto: il fallimento, ormai storico, delle proposte di nuovi partiti e nuove forze della sinistra del PCI da parte di quei gruppi in un modo o nell'altro di origine e cultura politica comunista e con caratteristiche leniniste.
Le vicende degli ultimi anni, senza riandare all'origine del periodo in cui sono nate le formazioni extraparlamentari, sono state tali che avrebbero dovuto »obiettivamente favorire le forze alla sinistra del PCI. In particolare, basta ricordare le due principali, l'una nel tessuto sociale e l'altra nel sistema politico.
Da un lato, la crescente marginalizzazione di gruppi, ceti e strati, soprattutto, ma non solo giovanili, avrebbe potuto costituire una base di massa per il dissenso sociale nei confronti dei partiti della sinistra storica, ed in particolare del PCI che verso tali esigenze non è mai riuscito ad avere alcuna attenzione ed iniziativa politica. Da ultimo si è andata determinando una situazione sociale in cui la contrapposizione principale ha finito per essere tra occupati e disoccupati, tra integrati e marginali, intesi non solo in senso economico. A suo modo l'Italia si è configurata, paradossalmente, come gli Stati Uniti in cui negli ultimi decenni sono stati essenzialmente i "lumpen" - razziali, sociali, economici ed anche culturali - a porre in questione l'assetto socioeconomico e la pace sociale.
Dall'altro lato, con il 1973 in poi - accentuando la linea storica all'integrazione - il Partito comunista è andato verso il compromesso (storico, sociale, istituzionale, politico?) con la grande forza di regime, la DC. Tale processo si accelerava con il 1974 (atteggiamento sul divorzio), con il 1975 (successi regionali e governi aperti), e infine con il 20 giugno e l'entrata nel governo delle astensioni.
Se esiste una situazione classica in cui v'è una possibilità di sviluppo per una nuova opposizione, questa certamente si verifica allorché la vecchia opposizione si integra con la maggioranza. In Germania, la Opposizione Extraparlamentare (APO) esplose con la formazione della Grande Coalizione tra socialdemocratici e democristiani del 1966 e poi tramontò con l'assunzione, nel 1969 del potere da parte di Brandt ed il rigetto all'opposizione della CDU-CSU. La »democrazia consensuale o »controllata con l'accordo del 90% delle forze politiche organizzate dovrebbe inevitabilmente favorire un'opposizione che si configura, appunto, come »esterna al regime o al sistema.
Ebbene, in Italia, stiamo assistendo proprio al fenomeno opposto con la degradazione della cosiddetta »nuova sinistra di estrazione, tradizione e pratica neomarxista. Il PDUP è a pezzi ed i suoi tronconi si avviano a consumare le proprie vite politiche, l'uno - il Manifesto - come appendice del PCI, e l'altro - l'ex-PSIUP - verso uno splendido isolamento dalla lotta politica. Avanguardia Operaia subisce la stessa sorte di frammentazione e di logoramento aggregando i diversi pezzi con l'uno o l'altro troncone del PDUP. Gli altri gruppi marxisti-- leninisti, come l'MLS, sono sostanzialmente estranei ai nuovi movimenti sociali che pure avevano rivoluzionariamente predicato. Lotta Continua, in piena crisi di identità, decideva al congresso di novembre 1976 di abbandonare la visione partitica centralizzante per tentare di immergersi nel movimento, in particolare nelle due ali che si ritrovavano in essa, quella operaia e quella femminista, e di cercare quindi la salvezza del proprio potenziale militante al di fuo
ri della logica di gruppo. Tutte le componenti, poi, del cartello che si erano ritrovate alle elezioni in Democrazia proletaria dovevano prendere atto, congiuntamente e separatamente, di quanta poca presa riuscissero ad avere nel paese, con i deludenti risultati elettorali per una così comprensiva coalizione (557.025 voti).
Non vi è certo da rallegrarsi di questo fallimento ormai comprovato, ma è opportuno domandarsene le ragioni dal momento che, nella sua generalità, esso riguarda un enorme potenziale militante e di trasformazione della società italiana che è stato in termini di agitazione sociale tra i protagonisti dell'ultimo decennio.
A noi pare che il giudizio negativo che è stato sancito dalle cose, suscettibile però di un bilancio non temporaneo, riguarda tre fattori: la speranza di rotture rivoluzionarie, la centralità operaia, e, soprattutto, la concezione del partito.
Tutte le forze neomarxiste e, implicitamente o esplicitamente, leniniste, hanno operato in vista di crisi sociali ritenute decisive per lo sprigionamento di situazioni rivoluzionarie. Attendendo tali crisi (basti ricordare quanti »autunni caldi il PDUP ha intravisto all'orizzonte) i gruppi hanno finito per non utilizzare le pur rilevanti forze politiche che riuscivano di tempo in tempo ad attirare ed inquadrare e per non innescare concrete azioni di rottura, centrando battaglie magari specifiche ma suscettibili di sbocco politico per il movimento o per alcune sue parti. Il PCI ha finito così per divenire, e per essere accettato come l'istituzionalizzatore del movimento.
La centralità poi della visione operaia, anzi operaistica, degli extraparlamentari marxisti non risultava altro che una sovrapposizione ideologica ad una realtà sociale del movimento che affondava invece le sue radici di massa altrove, con la possibilità di valorizzare politicamente altre contraddizioni sociali emergenti. Chiediamoci, a titolo di verifica, quanti voti ha avuto DP nei quartieri operai. Non è certo questo l'unico metro di valutazione ma solo un necessario riscontro simbolico anche per minoranze che si dicono »rivoluzionarie e che certamente sono »dinamiche .
Infine - ed è la questione centrale - tutti i partitini che sono stati realizzati, nella pratica della loro attuazione, hanno costituito, in un modo o nell'altro, la riproposizione delle concezioni terzointernazionaliste: forte momento centralizzante, direzione politica del comitato centrale, spinta avanguardistica, forte sottolineatura ideologica. E' in questo vizio che ripercorre le vecchie strade della dissidenza e dell'eresia comunista che, in pratica, sono cadute tutte, o quasi, le »nuove sinistre marxiste. Ad una società ormai attraversata da conflitti (e come strutturali!) d'ogni genere, si è risposto con l'aggiornamento (quando c'è stato) di vecchie tavole della tradizione teorica del marxismo ottocentesco o degli anni venti.
Non solo le organizzazioni politiche alla sinistra del PCI riproponevano moduli vecchi, ma era la stessa cultura politica da esse impersonata e dilagante in questi anni, che assumeva più l'aspetto di una vulgata di massa che non di una sperimentazione adatta ai nuovi tempi. Non possiamo perciò che dar ragione a quello che Rossana Rossanda scriveva facendo una lucida autocritica (anche se metteva, allora - sei mesi - fa l'osservazione in forma ipotetica): »La svolta, insomma, o la fine... Perché nessuno di coloro che gli hanno dato vita [al PDUP] è disposto a tollerarne la lenta marcescenza, la riduzione a partitino della peggiore tradizione secondinternazionalista, manovriero e rissoso , e, più avanti riferendosi al PDUP e ad AO: »quella oscillazione fra empiria, massimalismo e frontismo che ha portato, dopo il 1968, alla sconfitta la sinistra alla sinistra del PCI (R.R., "A ciascuno la sua responsabilità. Questa è la mia", »Il Manifesto , 4-12-1976).