di Stefano RodotàSOMMARIO: Negli anni tra il '48 ed il '60 si è avuta una clericalizzazione dello stato con una sempre maggiore ingerenza della chiesa. L'articolo 7 della Costituzione non è stato un ostacolo per la chiesa e la clericalizzazione si è attuata attraverso le violazioni del Concordato. Sono caduti i limiti all'azione della chiesa nello stato (dovrebbero cadere anche quelli dello stato verso la chiesa). L'influenza si è sentita più alla periferia che al centro. Totale inapplicazione dell'articolo 8 della Costituzione.
(ARGOMENTI RADICALI - BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA - anno I, n. 1, aprile-maggio 1977)
Come si possono misurare gli effetti di un testo della complessità del Concordato lateranense nella società italiana?
In astratto, molti sono gli indicatori che possono essere utilizzati a questo fine. Si potrebbero seguire le variazioni giurisprudenziali relative alle interpretazioni delle varie norme concordatarie; si potrebbero analizzare prassi concrete, come quella, impressionante, sulla discriminazione a danno degli altri culti; si potrebbero tentare stime dell'insieme di benefici fiscali a favore degli enti ecclesiastici, delle istituzioni religiose; si potrebbero analizzare gli effetti complessivi sulla famiglia italiana della creazione di quel sistema matrimoniale chiuso che è seguito alla disciplina concordataria; si potrebbe stimare l'incidenza sul sistema assistenziale delle norme concordatarie; si potrebbero valutare nell'insieme gli oneri di bilancio che tutto questo ha comportato allo Stato; si potrebbero considerare alcune prassi assai disinvolte nella gestione del patrimonio artistico; e via dicendo.
Tuttavia, anche se tutti questi indicatori fossero utilizzabili, il loro impiego darebbe, probabilmente, solo in parte il quadro complessivo degli effetti del Concordato.
E, comunque, quel metodo si esporrebbe a critiche, perché, ad esempio, si potrebbe osservare che, quando si adoperano indicatori che permettono una quantificazione di oneri finanziari (o di benefici economicamente valutabili), bisogna calcolare anche se, in cambio di quei benefici, la parte ecclesiastica ha erogato servizi che hanno sgravato di costi l'organizzazione statale, come ad esempio servizi assistenziali o servizi scolastici. Si potrebbe, poi, obiettare che, nella valutazione di un fenomeno così complesso com'è la valenza complessiva del Concordato nella società italiana, bisogna tener conto di dati non quantificabili, come quello riguardante la pace religiosa.
C'è tuttavia un'obiezione più generale, e che riguarda il fatto stesso della possibilità di far risalire al Concordato taluni fenomeni verificatisi nella società italiana, dal momento che talune prassi interpretative, interventi di favore, benefici accordati alla struttura ecclesiastica non derivano né direttamente, né indirettamente dal quadro concordatario.
Tutte queste sono certamente obiezioni che prese ciascuna per suo conto, hanno una loro fondatezza.
Certo, nessuno degli indicatori prima ricordati è per sé solo significativo; ed una serie di fatti, che attengono all'atteggiarsi complessivo dei rapporti tra Chiesa e Stato, non è immediatamente riferibile al testo concordatario. Tuttavia, né quegli indicatori, né i fatti ulteriori possono essere trascurati, proprio perché, per comprendere gli effetti complessivi del Concordato nella società italiana, il quadro formalmente delimitato delle norme concordatarie ci rinvia poi al modo in cui quelle norme sono state adoperate, come schema di riferimento esplicito o indiretto, dal sistema politico-amministrativo.
Come per il periodo anteriore al 1943 sarebbe non solo scorretto, ma addirittura ridicolo, un discorso che pretendesse di analizzare i rapporti tra disciplina concordataria e società italiana prescindendo dalla esistenza del regime fascista, così sarebbe assurdo esaminare quei rapporti dal dopoguerra ad oggi ignorando che questi sono stati trent'anni di governo democristiano.
D'altra parte questa consapevolezza non è solo di oggi. Quando nel '57 Togliatti commentava il convegno degli 'Amici del Mondo' dedicato al problema dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, constatava, come dato di novità rispetto al tempo della Costituente, l'avvenuto spostamento del centro di attenzione della Chiesa, dal quadro formale concordatario al dato schiettamente politico del partito unico dei cattolici. Questo slittamento dell'attenzione di uno dei protagonisti della vicenda, la Chiesa, basta a giustificare la saldatura fra la storia interna dell'attuazione del Concordato e la storia più generale dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, quale si è venuta svolgendo dal 1945 in poi. Né credo che sia arbitrario scegliere quegli anni come punto d'avvio di una ricostruzione, per ragioni immediatamente percepibili: la rottura politica verificatisi nel '43 con la caduta del fascismo; la rottura istituzionale determinata dalla entrata in vigore della Costituzione; il processo di rilegittimazione che, attraver
so l'art. 7, ha investito la disciplina concordataria.
E' ovvio che tutto questo non significa ignoranza o irrilevanza di quello che era avvenuto prima del '43 o nel '47: come si vedrà più avanti, una serie di processi hanno avuto non solo le loro radici, ma talvolta il loro consolidamento nel periodo fascista. Dovendo poi definire quali siano gli anni che, assunto quel punto di partenza, sono meritevoli di attenzione particolare, direi che sono quelli che vanno dal '48 all'inizio degli anni '60, quando si consolida il nuovo sistema complessivo di rapporti grazie al quale cresce l'effettiva incidenza del Concordato nella società italiana. Nella fase successiva la dinamica della società italiana comincia a mutare, nel sistema politico si registrano cambiamenti non trascurabili, la Chiesa è attraversata da un processo di rinnovamento. Il modello dei rapporti tra Stato e Chiesa, consolidatosi nel periodo precedente, non viene assolutamente scalfito, ma certe sue capacità espansive si arrestano, in alcune sue zone, se pure marginali, si manifestano fratture. Ma seco
ndo quali linee si era venuto organizzando quel modello?
A metà degli anni '50, uno storico come Luigi Salvatorelli concludendo un suo libro sui rapporti tra Stato e Chiesa, così descriveva il significato assunto dal persistente richiamo, ribadito dall'art. 7, all'art. 1 dello Statuto, dove si definiva quella cattolica come la religione di Stato: »tale disposizione, divenuta nel regime liberale un atto di rispetto innocuo, viene ora fatta valere dall'attivismo cattolico italiano come norma suprema della vita della nazione, al che non fanno apertamente contrasto gli organi di azione statale, quando addirittura non favoriscano. Torna così a verificarsi quell'intreccio tra storia d'Italia e storia del pontificato, per cui il secondo considera la nazione italiana come sua riserva di difesa e di espansione . Questo può sembrare un giudizio inficiato da spirito polemico laicista, e lo sarebbero ancor più quelli di chi in quegli anni era ancor più pessimista e sfiduciato, come Gaetano Salvemini. Ma se noi leggiamo quanto scriveva un osservatore collocato certamente in un
a sfera ideologicamente assai lontana, come Aldo Natoli su "Rinascita" del '59, troviamo esplicitamente detto che il precedente equilibrio tra Chiesa e Stato, se pure equilibrio può dirsi quello instaurato dopo l'undici febbraio del '29, era stato rotto, e sempre più a favore della prima, attraverso una progressiva invadenza che largamente travalicava i limiti previsti dal Trattato e dal Concordato. Aggiungeva Natoli: si è avuto un progressivo processo di clericalizzazione, che ha investito le strutture dello Stato italiano.
Qui è possibile già ritrovare alcuni dei modi tipici in cui negli anni '50 veniva percepito e valutato l'insediamento concordatario nella società italiana. Da una parte gli effetti di clericalizzazione venivano colti soprattutto in una serie di prassi e di privilegi specifici nei settori dell'assistenza, della scuola, degli enti, della libertà di culto e di espressione. E il punto polemicamente più sottolineato era forse quello dell'evidente associazione delle istituzioni religiose alla speculazione immobiliare, un fatto sul quale richiamava l'attenzione con forza proprio Aldo Natoli, allora capogruppo comunista al Comune di Roma, proponendo anche interventi legislativi per metter fine ad uno stato di cose a dir poco scandaloso.
C'era invece chi individuava la clericalizzazione più che in un dato che potremmo definire fattuale, in uno dichiaratamente politico, come faceva appunto Togliatti, indicando l'emergere di un nodo teocratico nella vita politica italiana.
Un altro motivo che percorre il dibattito lungamente è quello del fallimento dello strumento concordatario come diga nei confronti dell'invadenza della Chiesa. E' il motivo di Natoli, che alle altre denunce aggiunge quella della violazione continua dell'art. 43 (tesi che a molti giuristi può sembrare discutibile: ma il richiamo continuo all'art. 43, inteso come norma di salvaguardia dello Stato, è costante). Anche Togliatti metteva l'accento sulle continue violazioni; e lo faceva Alicata, nel '65, quando, commentando il divieto di rappresentare "Il Vicario" a Roma o le polemiche intorno alla cedolare vaticana, non li vedeva come fatti da cui prendere spunto per una revisione del Concordato, ma come violazioni degli impegni assunti dalla Chiesa, la quale doveva essere richiamata al rigoroso rispetto delle norme concordatarie. Non è utile qui discutere la correttezza di questa interpretazione, secondo cui c'era già nel Concordato quanto bastava ad impedire la clericalizzazione dello Stato. Essa, però, mette ch
iaramente in luce l'inadempienza di uno dei due contraenti: un atteggiamento che non ha mai cessato di preoccupare il PCI, tanto è vero che, nel corso dell'ultimo dibattito parlamentare, l'on. Natta ha sottolineato come lacuna della bozza Gonella-Casaroli la mancanza di un impegno della Chiesa a non interferire nella »dialettica democratica della Repubblica.
Questo è il filo che lega le diverse posizioni assunte da esponenti del PCI, che percepiscono il Concordato come uno strumento incapace di arrestare la clericalizzazione della vita italiana, piuttosto che come uno strumento attraverso il quale passa illegittimamente la clericalizzazione.
Questo atteggiamento si spiega, certamente, con la volontà di mettere l'accento più sulle ragioni politiche che sui motivi formali (se può essere considerato un fatto formale la rilegittimazione del Concordato attraverso l'art. 7) della clericalizzazione; ma nasce pure dall'intenzione di contestare che una serie di conseguenze discendano dal mantenimento dei Patti Lateranensi come schema regolatore dei rapporti tra Stato e Chiesa. Un accenno all'art. 7 è quindi necessario.
Vale la pena di ricordare come l'approvazione di quell'articolo non sia maturata in un clima di conflitti religiosi. Sono state ricordate infinite volte le dichiarazioni di chi, come Nenni, riteneva la questione concordataria secondaria rispetto ai gravi problemi economici. Né c'era un clima di guerra religiosa, nessun atto laicista aveva turbato la pace religiosa di quegli anni: anzi, ai politici laici si imputa un eccesso di compiacenza, manifestatosi ad esempio nel rifiuto a reintegrare nell'insegnamento universitario Ernesto Bonaiuti, in un periodo in cui il ministero della Pubblica Istruzione era tenuto esclusivamente da ministri laici.
Malgrado ciò, la richiesta dell'inserimento dei Patti nella Costituzione fu pressante da parte cattolica: valutarne attentamente le ragioni, allora, è importante, perché qui è una delle chiavi per comprendere poi i diversi effetti prodotti dall'approvazione dell'art. 7.
Si è detto, da parte di autorevoli studiosi cattolici, che l'inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione era un prezzo da pagare per guadagnare l'adesione della Chiesa al nuovo Stato, e per evitare così alla nascente Repubblica Italiana i conflitti laceranti della III Repubblica francese. Se questa è una tesi corretta, l'effetto dei Patti Lateranensi nella società italiana, a seguito della rinnovata loro legittimazione operata a mezzo dell'art. 7, è stato quello di accrescere le condizioni di stabilità politica, convertendo così il valore »pace religiosa in quello della »pace politica .
Molti dati confermano questa conclusione, e non è certo il caso di ricordarli qui, uno per uno. Ai tanti già noti, però, vale la pena, forse, di aggiungerne un altro, che riguarda un dettaglio istituzionale abbastanza indicativo.
Se non sbaglio, quello della discussione sull'art. 7 fu l'unico caso alla Costituente in cui De Gasperi intervenne a fianco di Dossetti. Ora, per chi considera una tesi che si è venuta consolidando in questi anni nella nostra storiografia costituzionale, quella cioè della separazione di compiti tra Governo e Costituente a cui corrispondevano due diverse politiche e due diversi leaders, De Gasperi e Dossetti appunto, il congiunto intervento dei responsabili dei due settori appare una chiara conferma della consapevolezza della importanza del voto sull'art. 7 sull'equilibrio politico complessivo.
Altrettanto nota è la preoccupazione comunista di evitare conflitti intorno a questioni legate ai rapporti con la Chiesa, anche se si riteneva che questo nodo potesse essere sciolto senza inserire nella Costituzione i Patti Lateranensi. Questo atteggiamento, ad ogni modo, deve essere valutato tenendo nel giusto conto un'altra preoccupazione, di Togliatti in primo luogo, quella di utilizzare le diverse occasioni per una progressiva legittimazione del Partito Comunista nel sistema politico, e più ancora nella società italiana.
Pochi mesi prima del voto sull'art. 7 c'era stata la scissione socialista. Spettando la presidenza del Consiglio al maggiore partito, la Democrazia Cristiana, la presidenza della Costituente era stata attribuita al secondo partito, all'epoca il Partito Socialista, e Saragat aveva presieduto la prima fase dei lavori della Costituente. Per effetto della scissione, il Partito Socialista perdeva quella posizione e avrebbe dovuto perdere, come perdette, la presidenza dell'Assemblea.
Mi raccontava Basso, divenuto dopo la scissione segretario del PSIUP, di essere andato da Togliatti chiedendo che fosse mantenuta al suo partito la presidenza dell'Assemblea Costituente, dal momento che ciò avrebbe significato di fronte alla generalità dei cittadini (e soprattutto nei confronti degli aderenti e degli elettori del Partito Socialista) che quello rimaneva il vero erede della tradizione socialista italiana. Togliatti, pur dicendo di rendersi conto delle esigenze rappresentategli da Basso, rispose che il Partito Comunista non poteva non cogliere un'occasione così importante, che gli avrebbe dato la possibilità di presentarsi alla collettività come un partito al quale non poteva essere precluso, e non era di fatto precluso, l'accesso a nessuna delle massime cariche della Repubblica.
E'un esempio che non tocca la questione del Concordato, ma serve a ricostruire un clima, quello dei mezzi della progressiva legittimazione del Partito Comunista, che ha avuto tante tappe, di cui certo l'art. 7 è una delle più significative. Nel momento in cui cadevano le possibilità di presentare il Partito Comunista come nemico della pace religiosa, l'effetto dell'inserzione dei Patti Lateranensi nella Costituzione era quello di accreditare ulteriormente il PCI nel sistema politico italiano.
Vero è che a questo proposito esistono altre interpretazioni. Ne riferisco una soltanto, secondo cui il modo e i motivi del voto sull'art. 7 aprì la via ad una sorta di gollismo ante-litteram: attraverso un duplice procedimento di legittimazione - quello del Partito Comunista come massima forza di opposizione e quello della Democrazia Cristiana a un tempo come forza di governo e come tramite necessario delle richieste del mondo cattolico - si attribuiva ad una parte il monopolio del governo e all'altra il monopolio dell'opposizione.
Quali che possano essere le valutazioni di queste diverse tesi, è certo che tutte forniscono spunti per comprendere la vicenda successiva, e cioè la innegabile clericalizzazione della società italiana, negli anni 50 soprattutto. Dal Partito Comunista questa clericalizzazione veniva vista come un effetto di successive e crescenti violazioni del Concordato, e quindi non come un effetto del sistema concordatario, ma piuttosto, come scrive sempre nel '57 Togliatti, come effetto della debolezza degli alleati laici della Democrazia Cristiana. Togliatti si domandava come mai le stesse persone che avevano seduto per tanti anni a fianco della DC nei governi della Repubblica si scoprissero poi, a metà degli anni '50, scandalizzati da quegli effetti di clericalizzazione della struttura statale e della società italiana che spesso erano stati determinati proprio da atti di governi a cui essi avevano partecipato. Questo rimprovero viene anche da parte cattolica, ricordando proprio il caso di Bonaiuti e osservando come que
sto fosse già un prezzo pagato per debolezza dagli alleati laici al più forte partner di governo.
Su queste argomentazioni si possono fare vari rilievi. Se, però, esse dessero una interpretazione corretta dei fatti, ed elementi di verità certamente ce ne sono molti, allora si può concludere che un altro degli effetti del Concordato nel sistema politico italiano è stato quello di creare un quadro di riferimento, grazie al quale il partito di governo più forte ha potuto chiedere il pagamento di pesanti prezzi agli altri componenti della coalizione, accentuandone la subordinazione. Ma neppure questo è l'effetto più significativo: partendo dalla posizione della DC, il più importante è quello che riguarda il Concordato come quadro legale che consente una remunerazione della struttura ecclesiastica per il suo appoggio politico al partito unico dei cattolici.
Questo non è un accidente. E qui è necessario fare un passo indietro per comprendere questo fenomeno e le modalità della remunerazione accordata alla struttura ecclesiastica. In questo senso, non ci sono novità, dal punto di vista formale, rispetto alle prassi che si erano venute costituendo durante il regime fascista.
Una prima costante dell'esperienza di quell'epoca, infatti, è data dalle prassi di favore per la struttura ecclesiastica in taluni campi (anche se poi l'ampiezza del favore crescerà in modo tale da differenziare profondamente il regime fascista dal periodo successivo). Tali prassi sono facilmente verificabili nella azione amministrativa e in quella giurisprudenziale e non poche volte è stato messo in evidenza come ciò fosse assai più importante di comportamenti di favore espressi da atti legislativi.
Per comodità mi rifaccio ad una serie di esempi ben noti, sinteticamente raccolti da Jemolo. Esaminando la materia matrimoniale, egli riassume le prassi applicative con la formula »ciò che fa la Chiesa è ben fatto; i vincoli che essa riconosce valgono per lo Stato, quelli che essa dichiara venuti meno vengono meno per lo Stato . Vi è l'accettazione piena, ribadita sovente con circolari dallo stesso Ministero di Grazia e Giustizia, della linea interpretativa ecclesiastica. Jemolo ricorda poi che si rafforza e diventa poi assolutamente unanime la linea giurisprudenziale di favore relativa al reclamo delle decime; che viene riconosciuto come ente ecclesiastico ogni ente o fondazione che lo chiede, anche quando ci sono dietro fini laicali; che viene repressa la propaganda protestante (qui evidentemente la linea si intreccia con motivazioni diverse, legate alla politica complessiva del regime); che nascono nel Ministero della Pubblica Istruzione le prassi di favore relative alle composizioni delle commissioni d'e
same presso le scuole private cattoliche.
Queste sono cose ben note nel momento in cui la Costituente comincia i suoi lavori: ma sono tutti temi che vengono poi elusi, mentre continuano, o si consolidano, le vecchie prassi amministrative, che confermano aggressivamente la continuità con il regime fascista nelle strutture pubbliche. Se si esamina, ad esempio, il dibattito sulla scuola, ci accorgiamo di un atteggiamento di cautela da parte cattolica, che ben si spiega con la volontà di non turbare un equilibrio che avrebbe potuto avere come riflesso la messa in discussione di alcune delle prassi che si erano venute solidificando nel periodo fascista, al quale atteggiamento non corrisponde però alcuna sostanziale opposizione o tentativo di porre l'intera questione in termini capaci di fornire una risposta a quel che si era delineato nel periodo precedente.
Qual è l'elemento di novità della nuova fase? La caduta dei limiti, dei vincoli all'azione della Chiesa derivanti dall'esistenza di un regime autoritario. Caduti quei vincoli, la linea concordataria si radica nella società italiana ancor più chiaramente come linea di privilegio. Quali potevano essere gli ostacoli a questa linea? Non di tipo autoritario, s'intende, perché, ieri come oggi, ritengo che non sia criterio né giuridicamente, né politicamente corretto, quello di interpretare il Concordato adottando, da parte laica, logiche contraddittorie o di comodo. Non è possibile di fronte alle molte norme repressive dei diritti di libertà contenute nei Patti Lateranensi, invocare o no i principi costituzionali a seconda della convenienza. Non si può, in concreto, pretendere di cancellare dai Patti norme contrastanti con la Costituzione quando tali norme limitano i diritti dello Stato e dei cittadini italiani, e non usare poi lo stesso metro per le norme limitative dei diritti della Chiesa.
Io comprendo bene, per ragioni che sono inerenti al modo in cui le gerarchie ecclesiastiche pesano nella società italiana, la reazione agli interventi pesantissimi, al di là del buon gusto, dei vescovi in materia di aborto. Non mi sento, però, di dichiarare del tutto illegittimo il loro intervento, rinunciando ad interpretare anche l'art. 43 dei Patti anch'esso alla luce della Costituzione.
Non credo cioè che si debba o si possa invocare la logica autoritaria, come limite al regime di privilegio della Chiesa. Ma c'è un'altra logica, che poteva essere invocata e non lo fu, appunto quella costituzionale. Questo non avvenne, sia perché, nel momento in cui l'art. 7 veniva approvato, ad esempio, Dossetti negò che vi fosse un contrasto tra i Patti Lateranensi e i principi costituzionali; sia perché successivamente mancò, almeno fino all'entrata in funzione della Corte Costituzionale, lo strumento tecnico per la riduzione delle possibilità operative di alcune norme concordatarie.
Gli effetti diretti e indiretti di questa situazione sono fin troppo noti, le esemplificazioni ricchissime. Chiunque abbia la pazienza di scorrere anche una annata di giornali tra il '49 e il '59 trova quanti casi vuole; l'annullamento da parte dei prefetti delle elezioni a consiglieri comunali di ex-preti; le sentenze in materia di vilipendio della religione usate per reprimere la libertà di espressione; i richiami alle circolari fasciste per perseguitare le confessioni religiose diverse dalla cattolica. Con amarezza, anzi, Jemolo ha rilevato, prendendo spunto dalle norme sugli acattolici, che tutta l'opera di Alfredo Rocco in materia ecclesiastica ha superato indenne lo scoglio dell'Assemblea Costituente.
Riflettendo su questo rilievo di Jemolo, troviamo una ulteriore conferma della impossibilità di isolare l'analisi degli effetti del Concordato dai comportamenti complessivi del sistema di governo: non solo rimase indenne l'opera di Rocco che riguardava le materie ecclesiastiche, ma è rimasta indenne l'opera di Rocco per tutto quanto riguarda la legislazione penale. Questa è una prova in più dell'impossibilità di scindere la vicenda legata allo schema concordatario del modo di governare in quegli anni l'Italia. Quello schema è un punto d'avvio per sviluppi che lo superano di molto: basta considerare il confessionalismo nella pubblica amministrazione e nella giurisprudenza; le difficoltà che hanno i professori eterodossi nelle scuole; le molte decisioni giurisprudenziali e le circolari amministrative in materia tributaria di favore per enti ecclesiastici e istituzioni religiose; gli interventi dei prefetti sempre a favore delle opere pie nel caso di contrasto coi Comuni; il consenso a vere e proprie violazioni
di piani regolatori, regolamenti edilizi, di vincoli panoramici e artistici (quando si trattava non solo di costruzioni di chiese, ma di edifici di comunità religiose). Ci sono poi gli usi delle norme concordatarie per legittimare gli interventi censori, per i quali vale davvero la pena di ricordare un'altra frase di Jemolo, che diceva che, in molti casi, grazie al richiamo al Concordato, le Alpi si alzano fino a toccare il cielo. Per chi ricorda come, invocando una pretesa tutela di valori religiosi, negli anni '50 l'Italia fu tagliata fuori dalla circolazione di una serie di opere che oggi vengono esibite nella televisione di Stato, questo dovrebbe essere un non piccolo motivo di riflessione.
Un altro dato interessante è legato, a mio giudizio, al fatto che l'influenza del sistema concordatario nella società italiana, per talune materie, fu più larga in periferia che al centro. Consideriamo il caso della intolleranza religiosa, così bene documentata da Sergio Lariccia: è facile accorgersi che questa persecuzione capillare dei culti diversi da quello cattolico fu particolarmente intensa in paesini sperduti del Mezzogiorno. Questo è un altro tema da considerare, perché in periferia sono impossibili difese e resistenze attuabili al centro; e perché la forza esemplare di certi interventi è particolarmente rilevante in comunità piccole.
D'altra parte, l'esistenza del riferimento al Concordato non ha fatto venir meno le occasioni di conflitto. Basta richiamare le ripetute denunce all'autorità giudiziaria per le interferenze degli ecclesiastici nella vita politica; interferenze che, in occasione delle elezioni politiche del '58, provocarono un passo ufficiale dei rappresentanti della coalizione radical-repubblicana presso il Presidente della Repubblica. Ricorderò pure la crisi del '64, aperta sull'aumento di 149.000.000 di lire operato dal Ministro Gui su un capitolo del bilancio della Pubblica Istruzione relativo ai finanziamenti alle scuole private; la iniziativa legislativa di un gruppo di deputati democristiani tendente a legittimare la cedolare cosiddetta vaticana; le risposte imbarazzate di Gui al Senato sulla scarsa tutela del patrimonio artistico da parte dell'autorità ecclesiastica, discendenti da un'interpretazione giurisprudenziale che restringeva le possibilità del controllo operato dall'amministrazione pubblica; i casi opposti de
l vescovo di Prato e del vescovo di Bari. In tutti questi casi, il richiamo all'assetto concordatario si fa palese veicolo di legittimazione di situazioni di privilegio.
Il problema è di evidenza massima quando consideriamo il diffondersi e il radicarsi dei casi di intolleranza religiosa, non nella società, ma nell'apparato pubblico. La repressione viene condotta con tutti gli artifici possibili, utilizzando costruzioni assolutamente sbalorditive e apparentemente sproporzionate rispetto alla modestia delle iniziative da contrastare. E qui c'è veramente da interrogarsi sulle radici di un atteggiamento del genere.
Le radici della discriminazione, se non dell'intolleranza sono già rinvenibili nelle discussioni alla Costituente. E' Dosetti, da gran tecnico, che spiega perché solo la Chiesa cattolica possa qualificarsi 'ordinamento giuridico primario', e dunque ad essa spetti uno status differenziato: in questo c'è la consegna alla discriminazione degli altri culti. De Gasperi, poi, invoca l'argomento statistico a favore della disciplina privilegiata, legittimando con la forza dei numeri la discriminazione. Anzi, l'atteggiamento di De Gasperi fu impietoso e implacabile, perché, se è vero che disse cose toccanti sulla convivenza nella clandestinità tra appartenenti a culti diversi, quando si trattò di trarne la conclusione politica non ebbe un momento di esitazione e, dopo aver ricordato i dati dei censimenti che manifestavano una adesione totalitaria della popolazione italiana alla religione cattolica, non risparmiò una frase di questo genere: gli Israeliti sono il mezzo per mille, o meglio erano, perché per le persecuzi
oni si sono ridotti da 54.000 a circa 30.000. Questa precisione contabile mi lascia francamente agghiacciato.
A conclusione di quel decennio chiave è costante, è corrente l'affermazione che l'art. 8 della Costituzione è rimasto totalmente inapplicato, anzi è stato costantemente violato, nei piccoli centri soprattutto. Quei piccoli centri che per riprendere un'immagine di Jemolo, erano quelli dove dominava il quadrilatero pretore, farmacista, maresciallo dei carabinieri, parroco. Considerando questa situazione, comprendiamo meglio le ragioni dell'insediamento cattolico attraverso le pratiche di privilegio. Nella società che Jemolo ha sotto gli occhi, la società del 1861 o del 1911, gli appartenenti a quel quadrilatero avevano punti di riferimento e dipendenze giuridiche diverse. In una società a governo liberale, pretore o maresciallo erano certo destinatari di direttive politiche diverse da quelle che potevano venire dalla autorità ecclesiastica al parroco. Negli anni '50 quel quadrilatero diventa un dato non di pluralismo (diremmo oggi), ma il veicolo di una omogeneità forzata. E lascio voi giudici dell'effetto nei
piccoli universi contadini italiani di prassi di questo genere.
Si dice, però, che in altri settori le strutture ecclesiastiche o religiose costituivano un punto di riferimento, e magari di privilegio non tanto perché questo volesse la logica concordataria, ma piuttosto perché ciò era determinato dalla carenza delle strutture pubbliche, come è accaduto nei settori della scuola e della assistenza.
Siamo ancora una volta al tema della supplenza, un tema troppe volte discusso, troppe volte invocato per giustificare finanziamenti. Sul tema delle supplenze, ormai cresciute a dismisura nella società italiana, ne sappiamo ormai abbastanza, per poter dire che possono esserci supplenze incentivate, pilotate, supplenze che sono alibi del potere pubblico. E' vero, ad esempio, che nel settore della scuola materna c'è una carenza di strutture pubbliche, ma è altrettanto vero che se noi guardiamo la crescita proporzionale delle scuole nei diversi settori, la staticità nel settore della scuola materna è troppo evidente per non riuscire sospetta; e lo stesso può dirsi per una serie di strutture assistenziali.
Su questi e su altri punti, la massa di conoscenze è tale che si può procedere sinteticamente. Nel caso della scuola, ad esempio, insieme al tema dei finanziamenti alla scuola cattolica (non necessariamente legato allo schema concordatario) emerge quello della confessionalizzazione dell'istruzione religiosa, che innesta un dato anticulturale e discriminatorio nella struttura scolastica. Nel caso dell'assistenza, poi, il privilegio delle strutture ecclesiastiche, presentato come un fatto di pluralismo, si palesa in realtà come pretesa di monopolio di determinati settori.
Considerata da questo punto di vista, l'opposizione, negli anni della intolleranza religiosa, non solo alle manifestazioni di culto da parte di ministri di religioni diverse dalla cattolica, ma anche di attività in largo senso assistenziali, o pedagogiche, rivela che il vero obiettivo di quella intolleranza era proprio quello di conservare il monopolio dell'assistenza o dell'educazione, fuori dalle strutture statali, a uno soltanto dei culti presenti nel nostro Stato. Qui sta, poi, la radice di resistenze sperimentate di questi tempi, riguardanti il modo in cui si cerca di istituire il rapporto tra forma dell'assistenza e pluralismo degli enti assistenziali, o le leggi regionali in materia scolastica.
Abbiamo poi il problema del matrimonio, per cui posso fare un diretto riferimento alle documentate indagini di Francesco Finocchiaro, ricordando soltanto quali sono stati gli effetti della elaborazione per via amministrativa, per via interpretativa e per via legislativa di un sistema matrimoniale chiuso non influenzabile da altre fonti dell'ordinamento.
A livello tecnico nascono problemi di rilevanza della nozione di ordine pubblico. Ma assai più grave è l'effetto a livello della società, perché nasce una struttura di controllo e di isolamento della famiglia rispetto alla quale le regole della religiosità o della morale cattolica diventano criteri generali di giudizio.
E' chiaro che molte cose sono cambiate negli anni più recenti, e si riscoprono problematiche e valori che sembravano essere stati messi tra parentesi nel periodo precedente. Molti punti oscuri, però permangono, come nella materia degli enti, complessivamente poco approfondita dalla nostra cultura giuridica, forse perché la linea scelta fu dichiaratamente quella legata alla interpretazione ecclesiastica. L'indagine è rimasta bloccata, così che oggi soffriamo di grandissime lacune di informazione per quanto riguarda la portata complessiva del fenomeno e la sua misurazione quantitativa. Queste lacune portano a polemiche violente, come quelle scoppiate ancora in questo periodo sulla consistenza di certi patrimoni immobiliari di enti e istituzioni religiose.
E' certo, tuttavia, che negli anni '50 prese corpo una linea che passava attraverso la larghezza nei riconoscimenti degli enti religiosi e di culto, il regime fiscale di favore incentivato (anche al di là di quelle che erano le indicazioni legislative) dalle circolari e da interpretazioni giurisprudenziali. Tutto ciò rese particolarmente propense le strutture ecclesiastiche all'inserimento nel circuito speculativo legato all'edilizia residenziale.
In conclusione, dall'insieme di questi dati risulta anzitutto il fallimento della ipotesi del Concordato come diga. Insieme ad essa è fallito il disegno dossettiano, manifestato esplicitamente in occasione della discussione sull'art. 7, di rilegittimare il Concordato come un mezzo per legare allo Stato l'istituzione ecclesiastica e farne così un fattore essenziale di rinnovamento della nuova società.
Quello a cui abbiamo assistito, invece, è il sostegno offerto alla logica del privilegio, alla nascita di un coacervo di interessi, di solidarietà che si organizza negli anni '50. Si costituisce così un grosso polo corporativo intorno al dato confessionale che, avendo alle spalle la forza della struttura ecclesiastica, diventa anche una forza aggregante rispetto ad altri interessi corporativi. Questo è un disegno perfettamente solidale a ciò che avviene complessivamente in Italia, cioè il privilegio agli interessi corporativi. La ripresa del dibattito sui principi - divorzio, aborto, revisione del Concordato - non è, allora, un ritorno a temi vecchi, ma lo strumento per rimettere in discussione questo tipo di logica. Lo intuirono già all'interno del mondo cattolico coloro i quali cominciavano a dissentire, coloro i quali per primi diedero forza e dignità culturale a questo disegno che nasceva, all'anticlericalismo cattolico secondo la definizione di Scoppola.
Se teniamo conto di tutto questo, dell'insediamento complessivo della Chiesa nella società italiana, ci spieghiamo, ad esempio, le ripulse di questi giorni a un atteggiamento che, in linea di principio, dovrebbe essere considerato legittimo, quello dei vescovi sull'aborto. Esso, però, non è più percepito né dalle forze politiche, né da larghe parti della società italiana come la manifestazione di un potere puramente spirituale, è concepito come la manifestazione di un potere che essendo sempre profondamente insediato in termini temporali nel corpo della società vuole violentemente imporre una opinione rifiutando ancora una volta qualsiasi legittimità all'opinione pubblica.
La ripresa della discussione di principio è dunque un fatto di enorme importanza liberatrice rispetto alla logica del privilegio.
Mi domando, allora, se il tipo di proposta che ci viene dalla bozza presentata alla Camera dal Presidente del Consiglio, sia davvero coerente a questo modo diverso di discutere i problemi dei rapporti tra Stato e Chiesa: o se, invece, altro non essendo che la ricomposizione di un insieme di privilegi (questa volta davvero senza possibilità né di contropartita, né di far valere contro di esso gli argini costituzionali sapientemente elusi in molte norme), essa non sia veramente un mezzo per farci tornare agli anni '5 0, ad un modello che, dagli anni '50 in poi, i mutamenti del sistema politico, taluni comportamenti dei giudici, la maturazione del mondo cattolico mostrano di avere largamente superato. Quella bozza dunque è nient'altro che la proiezione di quegli anni. E io mi domando: davvero noi dobbiamo oggi rimanere prigionieri di quel passato?