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Signorino Mario - 30 marzo 1977
LA VIOLENZA NUCLEARE (2)
NUMERO SPECIALE SULL'INDAGINE PARLAMENTARE PER IL PROGRAMMA ENERGETICO

a cura di Mario Signorino

4. PETROLIO URANIO E AUTONOMIA ENERGETICA

SCHIAVO D'URANIO

Atomo significa autonomia: così assicura, promettendo la riduzione delle importazioni petrolifere e il raggiungimento di un grado accettabile di autosufficienza energetica. Vantaggi simili valgono bene un investimento anche grosso.

Sentiamo il presidente del Cnen, Clementel: "L'autonomia energetica che la fonte nucleare consente non è tanto ovvia conseguenza di una diversificazione delle fonti energetiche, quanto conseguenza della sostituzione di una fonte energetica, il petrolio, legata a un'area geografica limitata ed a paesi politicamente instabili, con un'altra fonte energetica, l'uranio, distribuita su una più ampia e diversa area geografica, che ospita paesi con strutture politiche e sociali più mature e stabili" (audizione del 25 novembre '76). Insomma, la qualità dell'uranio è di essere "localizzato al di fuori dei paesi produttori di petrolio". Ma, a parte la vocazione atlantica di Clementel, quali vantaggi politici ne riceveremmo?

L'indagine parlamentare chiarisce senza equivoci che: a) la dipendenza dal petrolio non diminuirà nel medio periodo; 2) saremo condizionati anche dal monopolio dell'uranio; 3) dipenderemo completamente dalla tecnologia nucleare Usa; 4) i reattori provati non risolvono neanche provvisoriamente i nostri problemi energetici.

Le premesse dei filonucleari sono in contraddizione con i loro stessi calcoli: il Pen prevede che, con la realizzazione del programma nucleare da 20.000 MW, nel 1985 petrolio e gas nucleare copriranno il 76% del consumo totale di energia. Ma bisogna anche avvertire che il 13.6% assegnato alla fonte nucleare viene unanimemente considerato di un ottimismo indecente.

In commissione industria Donat Cattin ha ripetuto che l'approvvigionamento di fonti energetiche "rimarrà a lungo fortemente sbilanciato in direzione degli idrocarburi liquidi" (audizione del 22 dicembre '76). Analogo il giudizio di politici, esperti e responsabili dei vari enti di gestione: dal sottosegretario alle partecipazioni statali Castelli al presidente del Cnen, al vicepresidente del Cnr Silvestri, e naturalmente al presidente dell'Eni. D'altra parte l'ultimo rapporto Ocse conferma che la dipendenza dal petrolio nel 1985, invece di diminuire, aumenterà.

La bozza Fortuna deve perciò prendere atto che "ancora per molti anni saranno gli idrocarburi a fornire gran parte dell'energia di cui ha bisogno il nostro sistema economico, così come il bilancio energetico nazionale manterrà per un lungo periodo la più forte dipendenza dal petrolio fra tutti i paesi della Comunità europea, e in generale, fra tutti i paesi industrializzati".

Ancora a lungo: che significa? Almeno fino al 2000, ha detto Fortuna in un'intervista a "Repubblica" (21 gennaio '77). Più di recente ha parlato, per il petrolio, di "un aumento in valore assoluto delle forniture e lievi diminuzioni, percentuali sulla copertura totale dei fabbisogni" ("Mondoperaio", gennaio 1977).

E' probabile dunque che, almeno fino al 2000, dipenderemo sempre dal petrolio. Ma dopo, la musica cambierà? che cosa dicono gli "esperti"?

CANDU? GLI USA NON VOGLIONO

Dicono che non cambia. O meglio, per cambiare bisognerà prendere un'altra strada, buttando a mare i reattori provati, quelli cioè che ci accingiamo a costruire. Infatti, passato il 2000, c'è lo spauracchio dell'esaurimento delle riserve mondiali di uranio, stando almeno alle valutazioni di massima generalmente accettate. Bisogna avvertire però, che neanche sulla consistenza delle riserve di uranio esistono dati attendibili: a seconda dell'intensità del legame con l'industria nucleare, queste riserve si ingrandiscono a vista d'occhio, e diminuiscono nel caos opposto. Se ne lamentava lo stesso sottosegretario alle partecipazioni statali nell'audizione del 19 novembre '76. Ma neanche chi all'energia nucleare tiene tanto, ad esempio il presidente del Cnen, può fare previsioni rosee. Clementel stima intorno ai 3 milioni e mezzo di tonnellate le riserve di uranio e ipotizza che si esauriranno, in base agli attuali programmi nucleari mondiali, intorno al 2020, "poco dopo quelle di petrolio" (audizione del 25 novemb

re '76).

La sostituzione del petrolio con l'uranio è dunque improbabile; e molti sostengono anzi che la realizzazione del programma aggraverà il deficit energetico.

"Si è costituito un vero e proprio cartello dell'uranio, ben più forte del cartello Opec, perché è un cartello di grandi società dei paesi industrializzati" (on. Cacciari, Pci, audizione del 1 dicembre 1976). Secondo "Le Monde" (1 settembre '76), Canada Sudafrica, Francia, Australia, Gran Bretagna e altri paesi hanno creato nel '72 un cartello internazionale per dividersi il mercato mondiale dell'uranio e fissarne i prezzi. Il cartello copre il 70% della produzione mondiale, esclusi Usa e Urss. Probabilmente è stato sostituito nel giugno '75 dall'Istituto dell'uranio creato a Londra più o meno dagli stessi paesi. Che gli Usa ne siano ufficialmente fuori ha scarso significato, dato il loro peso preponderante nel settore.

Ciò significa che "anche i problemi generali delle forniture di uranio non sono e non saranno certamente scevri dalle incertezze e dagli inconvenienti di varia natura che caratterizzano qualunque fornitura di materie prime fondamentali" (Cesoni, Fiat, tavola rotonda Ceep, Torino, 1976). Ma significa anche che l'uranio non sfuggirà alla tendenza delle multinazionali dell'energia ad allineare, al livello più alto, i costi di ogni fonte energetica soprattutto quando le economie dei vari paesi di troveranno squilibrate verso la produzione nucleare.

Del resto i prezzi dell'uranio sono aumentati notevolmente negli ultimi anni; e molti economisti affermano - Francesco Forte, ad esempio, che pure è favorevole all'energia nucleare - che la convenienza dell'energia nucleare rispetto a quella convenzionale "tende a erodersi, arrivando ai margini minimi" (convegno del Ceep, Torino, 1976). Aumentano anche i costi del lavoro di arricchimento dell'uranio, controllato dagli Usa, come conferma l'ultimo rapporto della Cee sullo stato dei consumi energetici: il 30% in più in un anno.

Gli Usa possono mettere in crisi la produzione nucleare degli altri paesi sospendendo l'invio di uranio arricchito. Dal gennaio '77 hanno sospeso i rifornimenti all'Europa, per cercare di bloccare le esportazioni di sistemi nucleari della Germania e della Francia; sempre motivandolo con la necessità di arginare la proliferazione nucleare, gli Usa hanno sospeso dal '76 i programmi per la commercializzazione della fase di ritrattamento del combustibile irraggiato; e condizionano ormai i rifornimenti all'osservanza da parte dei paesi dipendenti di precise clausole di sicurezza. Nella sua dichiarazione del 28 ottobre '76 sulla politica nucleare, l'ex presidente Ford ha avanzato minacce precise: "Annuncio ufficialmente che gli Stati Uniti risponderanno, "come minimo", alla violazione da parte di qualsiasi nazione di qualsiasi accordo per la sicurezza nei quali siamo contraenti con l'immediata interruzione della nostra fornitura di combustibile nucleare e "della nostra collaborazione con quella nazione". La minacc

ia di Ford ci fa capire la gravità reale della nostra dipendenza tecnologica, che va molto al di là degli esborsi di valuta per minerale, componenti dei reattori, royalties sulle licenze.

Qualcuno, il sindacato ad esempio, sostiene che l'adozione della filiera ad acqua pesante Candu di tecnologia canadese ci permetterebbe di limitare la dipendenza dagli Stati Uniti. Altri osservano che non cambierebbe nulla: non disponendo degli impianti per la produzione di acqua pesante, ci limiteremmo a cadere dal monopolio dell'uranio arricchito a quello dell'acqua pesante (Vaudo, esperto della Confindustria, audizione del 1 dicembre '76).

Ma c'è un aneddoto risolutivo: "In sede di ministero dell'industria" - ha raccontato nell'audizione del 23 novembre '76 Sergio Garavini, segretario confederale della Cgil - "ci è stato obiettato che la scelta del Candu non è possibile in quanto gli Stati Uniti non la permettono!". Né Garavini trova da ridire: "Si tratta di un discorso amaro, ma noi lo possiamo accettare. Vuol dire che ci impegneremo maggiormente nella scelta di una tecnologia che viene dagli Stati Uniti, se questo è il campo d'azione in cui dobbiamo muoverci nel contesto delle relazioni internazionali".

SIAMO CERCANDO UN BUON CIMITERO

Vediamo qual è lo stato di avanzamento dell'industria italiana riguardo alle varie fasi del ciclo nucleare. Quanto all'uranio l'Eni, che ha la funzione di combustibilista nazionale, può coprire il fabbisogno previsto fino al 1983 (Castelli, sottosegretario alla PP.SS, audizione del 19 novembre '76): a quella data saranno in funzione solo le tre trappole di Latina, Trino Vercellese e del Garigliano, più la IV centrale nucleare Enel Di Caorso. Si prevede che il fabbisogno di Caorso potrà essere giacimento di uranio di Novazzo, l'unico in Italia, in cui l'Eni ha investito fino al '75 oltre 70 miliardi di lire (audizione di Sette, 18 novembre '76). Per il resto, l'Eni effettua ricerche minerarie in Bolivia, Colombia, Usa, Canada, Australia, Niger e altri paesi. In pratica siamo a zero.

Per il lavoro di arricchimento, l'Eni e il Cnen partecipano, ognuno per il 12.5 per cento, all'impianto Eurodif di Tricastin in Francia; e si sta discutendo in sede europea la costruzione di un secondo impianto di grande capacità: Coredif.

In base a questi programmi Ernesto Nathan, del ministero delle partecipazioni statali, afferma che non c'è rischio di una insufficienza dei diritti di prelievo dell'uranio arricchito, anzi "ci preoccupa il problema contrario poiché la situazione si prospetta come un eccesso di questi diritti. Evidentemente questo surplus deve trovare una collocazione" (audizione del 19 novembre '76). Da tener presente, riguardo a Eurodif, che il disaccordo tra Eni e Cnen (che vi rappresentano l'Italia) ha impedito di trarre vantaggi pari alla nostra quota di partecipazione, sia finanziari che come prelievo di minerale (Giancarlo Lizzeri, consulente economico di Donat Cattin, seminario Ceep, Torino, 1976).

Per il lavoro di fabbricazione di combustibile la Finmeccanica e l'Agip Nucleare, in attuazione della delibera Cipe del 23 dicembre '75, hanno concluso un accordo che riconosce alla società dell'Eni l'attività di fabbricazione del combustibile, compreso quello destinato alla prima carica di reattori di qualsiasi sistema, più l'attività di progettazione e commercializzazione del combustibile per discariche (così informa il sottosegretario alla PP.SS. Castelli nell'audizione del 19 novembre '76). Siamo cioè al punto di partenza.

Buio ancora più fondo, com'è ovvio trattandosi di un problema irrisolto sul piano internazionale, per la fase di ritrattamento del combustibile irraggiato e per il condizionamento e lo smaltimento delle scorie radioattive: "le incertezze riguardano l'aspetto tecnico, quello economico e quello ambientale" (Castelli, PP.SS., audizione del 19 novembre). Sempre Castelli informa che la costituenda società tra Agip Nucleare e Cnen scarterà l'azzardo della ricerca autonoma per accordarsi al qualche programma internazionale: "Motivi di ordine economico e di sicurezza militano a favore di questa soluzione, in quanto gli impianti, che devono avere ampie dimensioni, potrebbero essere dislocati in un limitato numero di aree adatte, evitando il rischio della disseminazione e consentendo anzi l'accertamento dei controlli... Occorre per altro tener conto del rischio che i governi dei paesi in cui sono individuate aree favorevoli allo stoccaggio dei rifiuti possano avanzare motivi svariati di opposizione". In questa ipotesi

- informa Castelli - L'Eni ha studiato in via subordinata un programma nazionale autonomo che dovrebbe portare all'identificazione di un sito per la realizzazione degli impianti di ritrattamento. Si prevede anche la realizzazione di cisterne di combustibile irraggiato come passaggio verso la successiva (quando?) riutilizzazione.

Incredibilmente, il presidente dell'Enel Angelini si dichiara "tranquillo" per tutte le fasi del ciclo del combustibile, meno che per il ritrattamento (audizione del 17 novembre '76).

L'interesse aziendale porta invece il presidente dell'Eni, Sette, a un apprezzabile realismo: "Un programma di entità paragonabile a quello concepito dal Pen o anche più ridotto non può assolutamente ignorare gli aspetti connessi con l'approvvigionamento dell'uranio e le sue successive trasformazioni industriali, alcune delle quali non sono ancora industrialmente mature. E' opportuno ricordar che, almeno per i reattori provati, i dubbi e gli interrogativi che si pongono non sono focalizzati sull'impianto centrale nucleare... ma riguardano il combustibile e le sue lavorazioni, l'impiego del plutonio prodotto, il condizionamento e lo stoccaggio finale delle scorie radioattive, nonché il timore che certe tecnologie riguardanti alcune fasi del ciclo del combustibile possano essere usate per fini non pacifici". Sette ritiene perciò "imperativo" verificare la corrispondenza del programma nucleare alla disponibilità di uranio e dei relativi servizi: "La programmazione degli approvvigionamenti e dei servizi (partico

larmente quelli oggi non esistenti in Italia) non può essere fatta in base a indicazioni generiche né può risultare soltanto di carattere orientativo, ma deve diventare parte integrante del programma nucleare nazionale" (audizione del 18 novembre '75).

Le riserve di Sette allarmano il democristiano Citaristi: "Ho notato nell'esposizione del presidente Sette molta freddezza e perplessità circa l'uso dell'uranio come fonte di energia". Citaristi non si dà pace: com'è possibile questo, quando in tutto il mondo è in pieno svolgimento la corsa nucleare? E con ..ezza, insinuando che Sette parla per puro tornaconto aziendale, lo invita a uscire dal vago rivolgendosi "non al presidente dell'Eni, ma al cittadino italiano, ...ocato Sette". E il cittadino ...ocato lo accontenta, chiarendo che "l'Eni non è ``freddo'' su questo tipo di problema". Ribadisce però che sul ciclo del combustibile "l'Eni ha un atteggiamento di prudenza".

Passiamo infine all'impianto nucleare centrale: a che punto è la tecnologia italiana? "Nella realizzazione delle centrali nucleari siamo completamente tri...ri di tecnologie esterne per la parte interna (quella specificamente nucleare), mentre non ci sono problemi per la parte convenzionale" (Castelli, sottosegretario alla PP.SS., audizione del 19 novembre '76). E' stato osservato però che "larga parte della produzione italiana di turbine e alternatori, anche dal punto di vista manifatturiero, deriva quasi sempre da licenze provenienti dall'estero. In conclusione, paghiamo l'uso delle licenze anche per la parte convenzionale" (Bondella, Flm, audizione del 23 novembre '76).

In campo nucleare non abbiamo un passato: le tre centrali entrate in funzione agli inizi degli ani '60 (Trino, Garigliano, Latina) fanno parte della preistoria, trattandosi di un campo in cui la tecnologia è in continua evoluzione. Quanto alla IV centrale nucleare Enel di Caorso, che dovrebbe entrare in funzione quest'estate, le vicende della sua realizzazione sono servite solo a mettere sotto accusa il gruppo Iri-Finmeccanica, che ne aveva la responsabilità. Questo gruppo è, sotto il profilo tecnico, il candidato più serio, anche a detta dei sindacati, a svolgere un ruolo prevalente nella realizzazione del programma nucleare italiano. Fin dagli inizi degli anni '60 ha iniziato un processo di ristrutturazione, in vista di un possibile ingresso dell'Italia nell'affare nucleare. Non sembra però che alla concentrazione di risorse e all'incetta di licenze Usa e canadese abbia corrisposto un potenziamento di capacità. "Lo stesso ente - ha notato secco il vicepresidente della Confindustria, Locatelli - ha in mano

tutte le licenze e non è in grado di dire che scarta le altre scegliendone una" (audizione del 1 dicembre '76). Le critiche si appuntano particolarmente sull'esperienza di Caorso.

Se ne fa portavoce Fortuna, nell'audizione del 26 novembre: "scarso peso" dell'esperienza acquisita, utilizzazione minima della produzione italiana; importazione non solo dei componenti nucleari, ma anche di quelli convenzionali e dei manufatti come il contenitore in cemento armato precompresso, e lo stesso tondino di ferro. E' vero - chiede Fortuna - che i tecnici dell'Amn "non hanno fatto molto di più della direzione lavori" e solo una decina ha lavorato sul nocciolo nucleare? Qual è realmente il livello di qualificazione dei tecnici dell'Amn, e quanti sono? "E' vero che parte di questi tecnici, ora riconvertiti al nucleare, fino a qualche anno fa progettavano navi?".

Tasselli, amministratore delegato dell'Amn, reagisce male: "si è trattato di un caso di vera e propria persecuzione". Dice che può opporre documenti dettagliati che dimostrano il contrario, e che risponderà per iscritto. Siamo vittime, dice, delle lotte interne al sindacato tra elettrici e metalmeccanici: per frantumare la committenza delle centrali gli elettrici "hanno preso come obiettivo di trovare tutti gli aspetti negativi su una certa formula, che ha avuto degli elementi, i quali sono stati successivamente amplificati". "Bisogna ricordare che Caorso è nato dal deserto. Non c'è stato nulla se non risalendo alla preistoria. Non c'è stata nessuna ricerca, nessuno sviluppo e nessun finanziamento all'industria per qualificarsi in questo campo. Da un giorno all'altro si è dovuto fare una centrale e senza nessuna certezza, senza nessuna ipotesi ragionevole di mercato successivo" (audizione del 26 novembre '76).

Un buon motivo per fare da un giorno all'altro, non una, ma venti centrali.

Nella stessa seduta Tasselli deve spiegare che lo slittamento della consegna della centrale di Caorso dal gennaio '77 alla prossima estate è dovuto a un piccolo incidente: "durante la fase finale ci si è accorti che l'edificio che contiene tutto il reattore... in certe ipotesi non avveratesi, ma analizzate sperimentalmente, poteva presentare deformazioni non consentite dall'analisi di sicurezza. Si è dovuto quindi analizzare il problema... e ricostruire l'edificio".

Chiaro che, di questo passo, le multinazionali Usa dovranno anche imboccarci e cambiarci i pannolini.

Eppure, malgrado la miserevole situazione, tutti i fautori del piano, dai manager pubblici e privati ai sindacati, dai partiti di destra a quelli di sinistra, continuano a ragionare di possibili inserimenti competitivi nel mercato internazionale. Sanno che si può sperare, al massimo, che qualche multinazionale ci conceda le briciole delle sue commesse facendoci costruire qualche componente; ma in pubblico, in commissione industria per esempio, continuano a fare grandi sogni. Nessun progetto serio su come superare la nostra arretratezza tecnologica, solo vane proposizioni esigenzialiste. Persino il Pdup, in questo caso grillo parlante del capitale parassitario, disquisisce di "gestione attiva delle licenze!".

Qui non si tratta di scegliere il reattore PWR o BWR, l'acqua leggera o il Candu: questa famosa "guerra della filiera", priva di qualunque giustificazione tecnica, serve solo a buttare fumo negli occhi. Ce ne disinteressiamo perciò volutamente, sicuri come siamo che i vari gruppi economici troveranno presto, com'è loro abitudine e interesse, il modo di accordarsi per la spartizione delle commesse, che è l'oggetto vero della contesa. Non si capisce però qual è l'interesse che spinge la sinistra a raccomandare il PWR del Westinghouse invece del reattore BWR della General Electric: perfettamente equivalenti quanto a (in)sicurezza e (cattivo)rendimento, che il PWR sia già adottato dall'industria francese e da quella tedesca può essere al massimo motivo di preferenza del BWR che non si troverebbe chiuso in partenza, per un'improbabile esportazione, da due industrie il sui stato di avanzamento tecnologico è per noi irraggiungibile.

Da notare che l'industria italiana si dovrebbe inserire, in grave condizione di inferiorità, in un'industria europea caratterizzata da uno stato di sovracapacità anche riguardo all'isola nucleare, almeno in Francia e Germania. Secondo le stime della Cge, infatti, queste due industrie sono strutturate per 6 GW nucleari/anno, e quindi già sovradimensionate anche per i più ambiziosi programmi nazionali (lettera di Paolo Fresco, consigliere delegato della Cge, al presidente della commissione industria, 13 dicembre 1976).

BWR E PWR: LA GUERRA CONTINUA

in funzione in costruzione in ordinazione

MWe % MWe % MWe %

Reattore BWR

General Electric 18.461 25.6 38.833 22.6 28.450 23.3

Altri BWR 6.605 9.2 10.831 6.3 4.247 3.5

Totale BWR 25.066 34.8 49.664 28.9 32.697 26.8

Reattore PWR

Westinhouse 17.187 23.8 56.852 33.1 27.090 22.2

B W and BBR 5.495 7.6 15.917 9.3 13.782 11.3

Framatore 0 0 3.955 2.3 19.625 16.1

KWU 2.873 4.0 10.674 6.2 8.308 6.8

Combustion Eng. 3.620 5.0 17.237 10.0 10.060 8.3

Altri PWR 2.650 3.7 3.861 2.3 6.609 5.4

Totale PWR 31.825 44.1 108.496 63.2 85.474 70.1

Altre tecnologie 14.157 21.1 13.685 7.9 3.832 3.1

Totale generale 72.103 100.0 171.845 100.0 122.003 100.0

(Dati della General Electric, al 15 dicembre '76, sulla presenza di reattori BWR e PWR e dei relativi costruttori sul mercato mondiale. (MWe=Megawtt installato)

Molti "esperti" hanno poi fatto notare che, per poter esportare, non basta essere in grado di fornire dei componenti, ma occorre poter garantire l'intero sistema, compreso il ciclo del combustibile (Vaudo, esperto della Confindustria, audizione del 1 dicembre '76; analogo parare è stato espresso da Puri, presidente della Finmeccanica, in uno dei seminari del Ceep a Torino, 1976).

Per superare l'obiezione, i dirigenti dell'Iri sostengono l'opportunità di impegnare le inesistenti capacità italiane su più filiere, allontanando il momento della scelta definitiva. E in questo senso viene caldeggiata anche l'adozione della filiera ad acqua pesante Candu. Secondo i rappresentanti sindacali la dipendenza da un paese come il Canada, meno forte degli Usa, offre maggiori possibilità di affermazione (audizione del 23 novembre).

D'accordo anche il presidente del Cnen che individua i vantaggi del Candu nel superamento della fase di arricchimento dell'uranio e nella possibilità di penetrare in un mercato "che sembra sia abbastanza ampio", limitato com'è a Canada e Italia, "che potrebbe costituire una multinazionale" (audizione del 25 novembre '76).

Nient'affatto, ribatte l'esperto della Confindustria, ingegner Vaudo: la capacità per l'intero sistema è pregiudiziale anche per esportare il Candu, bisogna perciò disporre degli impianti per la produzione dell'acqua pesante, che non abbiamo e non possiamo improvvisare. E poi il Candu si è venduto molto poco, fuori del Canada (audizione del 1 dicembre '76).

Per Tasselli (Amn) bisogna adottare il Candu perché, producendo più plutonio dei reattori ad acqua leggera, accorcerebbe i tempi per l'installazione delle filiere veloci. In vista di questo obiettivo, Tasselli chiede una centrale a due sezioni da 600 MW (audizione del 26 novembre '76).

Ma quale plutonio, dice Clementel (Cnen): il Candu richiede una carica quattro volte maggiore di quella dei reattori ad acqua leggera e produce solo il doppio di plutonio, cioè, in proporzione, la metà (audizione del 26 novembre '76). Il Candu - dice l'ingegner Vaudo, della Confindustria - si vende difficilmente perché produce più plutonio (audizione del 1 dicembre '76). Risponde così anche all'impazienza di Fortuna a cui s'erano incrociati gli occhi: "Vorrei che si chiarisse se il fatto di produrre una maggiore quantità di plutonio presenta vantaggi o svantaggi".

L'amministratore delegato dell'Amn ammette infine che nel congresso e nel governo canadesi sono sorte perplessità "enormi" a proposito del Candu, tanto da bloccare le esportazioni della licenza: "siamo riusciti ad avere la licenza solo da pochi giorni e siamo gli unici ad averla" (Tasselli, audizione del 26 novembre '76).

L'ipotesi più reale, per concludere, è che si arrivi alla situazione paventata, tra gli altri, dai rappresentanti sindacali: "avremo imprese che vivranno soltanto ed esclusivamente in funzione della domanda pubblica" (Bon, Fml, audizione del 23 novembre '76). Ma, curiosamente, se ci fosse una minima possibilità di affrancamento tecnologico, sarebbe frustrata proprio dal compromesso cui sembrano propendere i partiti della sinistra e i sindacati: un ridimensionamento del piano nucleare a 12 centrali, almeno per ora. Se, come sostiene Donat Cattin, non basterebbero 20 centrali in 10-12 anni a reggere una industria da creare ex novo, limitarsi a costruire 8-12 centrali sarebbe (riprendiamo l'interrogativo posto su un altro argomento dall'on. Cacciari, Pci, nell'audizione del 1 dicembre '76) "un colossale spreco di risorse senza alcuna prospettiva". L'affare del secolo servirebbe così a mettere in piedi una struttura autarchica e parassitaria e a inchiodarci al dilemma permanente di costruire sempre più centrali

o di mandare in fallimento il settore.

Ma allora: se l'impiego dei reattori provati non farà diminuire, almeno nel medio periodo, la dipendenza dal petrolio; se, nel lungo periodo, porterà all'esaurimento delle riserve mondiali di uranio, cos'è questa storia dell'energia nucleare come alternativa al petrolio?

"L'energia nucleare da fissione non è una vera alternativa: il suo apporto può essere solo aggiuntivo" (Renzo Piga, "Considerazioni sulla politica energetica" inviate alla commissione industria, 14 dicembre '76). Anche il presidente del Cnen è dello stesso parere (audizione del 25 novembre '76), e gioca l'asso: la salvezza verrà dai reattori veloci e autofertilizzanti, che si prevede funzioneranno utilizzando essenzialmente plutonio in quantità pari o superiore a quello consumato. Rispetto ai reattori provati, che utilizzano solo l'1% del potenziale energetico dell'uranio, quelli veloci consentiranno, secondo Clementel, in linea teorica una utilizzazione integrale, in pratica del 70% (in realtà si hanno fattori di utilizzazione molto più bassi). Per il presidente del Cnen, "il reattore veloce è l'unico che consenta di acquisire una certa posizione di autonomia nel possesso dell'uranio anche quando il materiale non sia disponibile"; ammette anche che, prima, bisognerebbe raggiungere l'autonomia nel ritrattame

nto del combustibile. Comunque, i reattori veloci "occuperanno uno spazio significativo e autonomo solo tra il 1990 e il 2000"; e nell'attesa bisogna creare scorte adeguate di plutonio, mettendo in funzione centrali nucleari con reattori provati.

Ecco dunque la giustificazione strategica degli attuali programmi nucleari: assicurare "la base dell'accumulo del plutonio necessario allo sviluppo dei reattori autofertilizzanti" (Gherardo Stoppini, in "Mondoperaio", dicembre '76); la scelta nucleare ha significato solo se accompagnata da una simile strategia volta allo sfruttamento massimo delle riserve di uranio.

Da notare che, nel corso dell'indagine parlamentare, è stata dimostrata l'insufficienza delle 20 centrali previste dal Pen a produrre la quantità di plutonio necessario per il varo della filiera veloce (quando e se supererà la fase sperimentale). Ma soprattutto tale "strategia" si risolve in un espediente per cancellare dall'attenzione della gente l'effetto più preoccupante dell'energia nucleare: la produzione di plutonio. Da pericolo di dimensioni apocalittiche, infatti, il plutonio diventa insensibilmente un elemento positivo, anzi desiderabile, un combustibile cioè di cui bisogna rimpiangere l'insufficiente disponibilità. Così, mentre rimprovera agli avversari di individuare nell'energia nucleare il Male, la lobby nucleare pretende di travestire quello che innegabilmente è uno spaventoso problema con i tratti del Bene assoluto.

E POI VERRA' LA SOLUZIONE FINALE

Torniamo al presidente del Cnen. I reattori veloci - egli dice - non solo sono autofertilizzanti, ma anche europeisti: infatti gli Usa, che dominano la tecnologia dei reattori provati, in questo settore sono indietro. A parte l'Urss, sono attualmente in funzione due prototipi di reattori veloci in Francia e in Inghilterra e un altro è in fase di realizzazione sempre in Inghilterra; il reattore Usa di Principina invece dev'essere ancora costruito (audizione del 25 novembre '76).

E' "un'analisi falsa", avverte l'amministratore delegato dell'Amn, Tasselli, non dal punto di vista tecnologico ma da quello industriale. In questo momento gli Usa hanno tutto l'interesse a spingere per la diffusione dei reattori ad acqua leggera, in cui hanno investito imponenti spese di ricerca e sviluppo e di cui controllano la tecnologia. Ma nello stesso tempo, a parte la crescente opposizione dell'opinione pubblica in merito ai reattori veloci (il consiglio delle chiese protestanti ha condannato l'uso del plutonio, materia inesistente in natura) gli Usa hanno varato un programma di investimenti sui reattori veloci "tutt'altro che pubblicizzato e presentato quasi di nascosto", che ha un'imponenza finanziaria sconosciuta all'Europa. La commercializzazione dei reattori veloci dunque, sempre secondo Tasselli, non potrà mai essere fatta contro gli Usa; al massimo, l'Europa potrà sperare in qualche forma di accordo (audizione del 26 novembre '76).

Ma perché preoccuparsi? Con qualche decina di centrali nucleari "possiamo stare tranquilli almeno fino al 2020", assicura il presidente del Cnen: "non c'è l'assillo che abbiamo con il petrolio e quindi possiamo pensare nel frattempo con calma allo sviluppo di altri processi... In primo luogo la fusione nucleare" (audizione del 25 novembre '76).

"La soluzione", per i filonucleari, non è dunque nemmeno il reattore veloce, bensì la fusione: una tecnica attualmente fantascientifica che si potrà verificare secondo alcuni fra 40 o 50 anni, secondo altro non prima di 70 anni (Giorgio Cortellessa, audizione del 19 novembre '76). Curioso: per l'energia solare, fonte alternativa e pulita, si rifiuta ogni ipotesi che vada al di là delle possibilità immediate di commercializzazione. Ecco in quale senso i filonucleari intendono il carattere alternativo della fissione nucleare: nel senso che non è alternativo affatto.

A chiusura dell'argomento, vale la pena di riportare le conclusioni cui giunge la bozza Fortuna: "La commissione raccomanda per altro che vanga seriamente rafforzato, sia nel comparto della ricerca scientifica e tecnologica, sia nel comparto industriale, l'impegno sui reattori veloci (di tipo francese) fornendo - attraverso la concessione di un più attento e consistente supporto politico - un maggior potere contrattuale agli enti e imprese italiane impegnate in questa filiera.

"La filiera dei reattori veloci costituisce, insieme allo stoccaggio in Italia di grossi quantitativi di concentrato di uranio, una via per aumentare realmente in qualche misura il grado di indipendenza energetica del Paese per sottrarlo ai condizionamenti non solo economici che, di tempo in tempo, i Paesi esportatori di materie prime energetiche - uranio compreso - possono esercitare sui Paesi acquirenti. Infatti i reattori veloci minimizzano il fabbisogno di uranio necessario per i reattori a parità di energia elettrica prodotta.

"La filiera dei reattori veloci, con il raggiungimento della maturità industriale, potrebbe offrire al nostro paese l'occasione per raggiungere una effettiva autonomia energetica nel settore nucleare a condizione, beninteso, di controllare il ciclo del combustibile, praticamente ridotto al solo ritrattamento del combustibile irraggiato e alla fabbricazione di combustibile misto uranio e plutonio.

"Commetteremmo un vero errore se il nostro Paese (che già partecipa mediante accordi internazionali (Unipede) alle iniziative dello Stato oggi all'avanguardia del settore (la Francia, che già ha messo in funzione un reattore da 300 MWe, il Phénix) lasciasse cadere, per fiacchezza, incuria o carenza di volontà politica, una irripetibile occasione di inserirsi operativamente nella tecnologia di questa filiera. (...)

"Al riguardo è stata correttamente richiamata l'attenzione sulla necessità che l'Agip Nucleare sia messa nelle condizioni di poter rispettare il programma quanto mai serrato che, nell'ambito dell'accordo Unipede, prevede la realizzazione in Italia, in tempo utile, cioè entro il 1982, di uno stabilimento per la fabbricazione di combustibili ad ossidi misti per reattori veloci, così da poter fornire - nell'ambito dell'accordo Unipede e quindi nella misura prevista dallo stesso - parte della prima e della seconda ricarica del reattore francese Superphénix. Soltanto se verranno mantenuti i programmi di detto stabilimento - che prevedono tra l'altro un non trascurabile trasferimento di conoscenze tecniche all'Italia - il nostro Paese potrà qualificarsi nel campo manifatturiero del combustibile ad ossidi misti per reattori veloci e partecipare ai benefici economici diretti derivanti dalle forniture che l'Italia dovrà effettuare sia per il reattore francese che, soprattutto, per quello tedesco.

"In questo negativo il nostro Paese finirebbe con il dover sostenere solo gli "oneri" dell'accordo Unipede, senza trarne i prospettati benefici. (...)

"Sempre nell'ambito degli sforzi di ricerca e sviluppo sulle nuove filiere, la Commissione richiama l'attenzione sulle indicazioni prospettate dal Ministro della Ricerca Scientifica e Tecnologica, in particolare per quanto attiene la controversia sulla realizzazione e la destinazione del Jet, la macchina sperimentale indispensabile per la ricerca nella produzione di energia dalla fusione di atomi leggeri. Il rinvio o la rinuncia alla costruzione del programmato impianto e dovuto al persistere di forti divergenze tra Francia, Germania e Inghilterra sulla ubicazione dello stesso. Vista ormai la scontata impossibilità di ottenere che tale iniziativa abbia ad ubicarsi nella sua ``sede naturale'' di Ispra, la Commissione ritiene che l'Italia potrebbe sostenere la candidatura francese correlandola però a corrispondente posizione della Francia per quanto riguarda l'ubicazione di altre iniziative del comparto nucleare ed in particolare nel ciclo del combustibile".

5. FONTI ALTERNATIVE E PROGRAMMA NUCLEARE

L'ALTERNATIVA C'E'

L'ARIA FRITTA

A CHE PUNTO SIAMO CON LA LOCALIZZAZIONE DELLE CENTRALI NUCLEARI

L'URANIO FA MALE A SINISTRA

Se il piano nucleare verrà approvato dal parlamento, quali saranno le possibilità di sviluppo delle fonti alternative? Donat Cattin ha parlato chiaro: "O si fanno queste cose (il nucleare) o se ne fanno delle altre: non è che si possono fare tutte quante assieme" (tavola rotonda del Ceep, Torino, maggio '76). Seguendo questa logica, il Pen precisa, per il quinquennio 1975-'79, soltanto gli investimenti necessari al completamento dei programmi Enel nella produzione convenzionale di energia elettrica, oltre naturalmente al varo del programma nucleare. Per il quinquennio successivo, il Pen azzarda solo una previsione di spesa nel settore nucleare, vanificando così qualunque ipotesi di investimento in altre fonti energetiche. E' insomma la logica del "tutto nucleare", che oltretutto è destinato a lasciare per lungo tempo inalterato il "tutto petrolio" e, nel lungo periodo, a integrarsi con esso.

La "Relazione sui programmi dell'Enel" dell'aprile '76 si limita ad aggiornare le indicazioni del Pen, tenendo conto di un tasso d'inflazione del 10% l'anno.

Manca dunque la condizione decisiva per l'elaborazione di un vero piano energetico: la diversificazione degli investimenti, senza la quale "non si creerebbe in alcun modo un "sistema" energetico" (on. Cacciari, Pci, audizione del 23 novembre '76). Malgrado la denominazione, dunque, il Pen si rivela un "programma di costruzione massiccia di centrali nucleari" (documento della Federmeccanica Cgil-Cisl-Uil).

Non è un caso: il Pen assume come modello gli anni '50-'60 del capitalismo incontrollato e caotico; non sorprende perciò che "manca nel piano una qualsiasi ipotesi sull'utilizzazione da parte dell'Enel dell'energia elettrica prodotta" (Bon della Flm, audizione del 23 novembre '76). Un piccolo fatto: nell'anno in cui approvava il Pen, il Cipe respingeva un programma del Cnr per l'elaborazione di un modello energetico italiano, che chiarisse in qual modo l'energia viene utilizzata nel nostro sistema. "Ne rimasi sorpreso - ha raccontato in commissione Industria il vice-presidente del Cnr, Silvestri - perché non c'era rapporto tra l'esiguità della spesa e l'importanza dei risultati che si sarebbero raggiunti. Su un programma di 40 miliardi in 5 anni, solo 1 miliardo è stato dedicato a questo problema" (audizione del 25 novembre '76).

E la bozza Fortuna? Caldeggia la proposta di compromesso di 12 centrali nucleari da costruire nel prossimo decennio, con "pause di riflessione" tra uno stock e l'altro... E raccomanda di badare anche alle fonti alternative, che sintomaticamente definisce "integrative". Di preciso, auspica una integrazione dei sistemi tradizionali di riscaldamento con l'energia solare, specie negli uffici pubblici, nelle scuole, negli ospedali: lo sviluppo delle ricerche nel campo della geotermia, e qualcosetta anche nel ritrattamento dei rifiuti. Per il risparmio energetico, si richiama alla legge n. 373 del 30 aprile '76 e persino alla campagna pubblicitaria che di questi tempi viene svolta attraverso la stampa e la televisione. Aria fritta, diceva in questi casi Ernesto Rossi.

Dal punto di vista finanziario, la bozza Fortuna suggerisce di trasferire una percentuale degli investimenti previsti per il programma nucleare nella ricerca, sviluppo e commercializzazione delle fonti "integrative" solare e geotermica. Una "percentuale" di un investimento che resta indefinito e in ogni caso supera di molto le nostre capacità finanziarie.

PER QUALCHE PERCENTO IN PIU'

Per finire, la bozza Fortuna propone la creazione di un "Servizio per gli obiettivi a lungo termine". Si chiamerebbe SOLT, e chiude in bellezza con in richiamo alla "fantasia dei migliori cervelli italiani".

Queste conclusioni non piovono dal cielo: alle audizioni sono stati chiamati quasi esclusivamente rappresentanti del complesso politico-industriale interessato all'affare nucleare. Secondo i commissari (quasi tutti democristiani e comunisti) e secondo il suo presidente Fortuna, la commissione doveva svolgere un'indagine "neutrale" e "tecnica": "i problemi del dibattito politico sul piano energetico nazionale sono riservati all'aula" (Fortuna, seduta del 24 novembre '76). Chiaro come il sole che, quando ci si richiama a una conoscenza "neutrale", ci si ritrova sempre sulla via maestra del regime.

Infatti, preoccupazione costante dei commissari è stata l'accettazione dello stato di cose presente, nel senso più pedestre, di respingere ogni alternativa energetica non realizzabile subito; salvo quella nucleare, s'intende, per la quale si è sconfinati volentieri nella fantascienza. I resoconti stenografici parlano chiaro. Ci limitiamo a citare due aneddoti.

Nella seduta del 1· dicembre 1976 il vicepresidente della Confapi (Confederazione della piccola industria), Falomo, che esponeva un piano di risparmio energetico mediante l'energia solare, viene invitato dall'on. Formica (Pci) a interessati di problemi più immediati, e cioè "come coprire il fabbisogno energetico fino alla costruzione delle centrali nucleari".

Nella seduta del 24 novembre il rappresentante della Regione Marche critica l'inattenbilità delle previsioni dei consumi energetici del Pen: "è un piano scientificamente non valido - dice citando il rapporto Waes - perché parte da presupposti errati". Il democristiano Aliverti lo interrompe: "Mi scusi, ma lei deve precisare i suoi dati, deve documentarci, altrimenti è inutile che continui a rivolgere critiche e a considerare tutti degli incompetenti".

Strano perciò che, proprio davanti a una simile commissione, Sergio Garavini (Cgil) si lasci andare a uno scatto d'impazienza verso il governo: "Non è possibile che si sia un sabotaggio di tutte le iniziative rivolte a fonti alternative! Ciò è vero per il Sulcis, è vero per la geotermia..." (audizione del 23 novembre '76).

In commissione, il problema delle fonti alternative è stato rimosso, in genere, sulla base di dichiarazione generiche. Incideranno al massimo - è stato il parere unanime, dal presidente dell'Eni al presidente del Cnen, ai rappresentanti della Confindustria e del Cnr - "per qualche per cento". Il vicepresidente del Cnr, i cui programmi di ricerca finalizzati dovrebbero contribuire allo sviluppo delle tecnologie alternative, ha assicurato che queste fonti "minori" non daranno al 1985 un contributo superiore all'1.7%-1.8% del fabbisogno energetico globale; circa 4 milioni di tep, assicurate in gran parte dal ritrattamento dei rifiuti (audizione del 25 novembre '76). Ma, neanche in un quadro previsionale così restrittivo, c'è stata la minima convergenza tra i vari "esperti" sentiti dalla commissione. Vediamo più in dettaglio, partendo dall'energia solare.

Per l'energia solare il vicepresidente del Cnr, Silvestri, prevede un possibile contributo di 300.000 tep al fabbisogno energetico nazionale al 1985 (audizione del 25 novembre '76). Il presidente del Cnen e l'ex presidente del Cnr, Caglioti, prevedono un contributo dell'1-2% del totale (più di quattro milioni di tep) (audizioni, rispettivamente, del 25 e del 19 novembre '76). "I costi però - aggiunge Caglioti - sono cospicui". Va bene che per lui è cospicuo anche lo stanziamento di 3 miliardi per il programma solare dell'Eni.

D'altra parte, un funzionario delle partecipazioni statali, nella audizione del 19 novembre '76, dichiarava che l'energia solare è ancora in "una fase terribilmente iniziale". E quasi tutti hanno messo l'accento sulla non matura commerciabilità delle tecnologie solari e sugli alti investimenti necessari.

Nella seduta del 23 novembre l'on. Servadei (Psi), così disinvolto sui problemi della sicurezza e dell'ambiente quando si tratta di impianti nucleari, si dichiara "allarmatissimo" per la "mostruosità" degli specchi parabolici degli impianti solari.

Tutti i commissari hanno poi accolto con soddisfazione l'assicurazione del presidente dell'Eni (audizione del 18 novembre '76) di aver varato "in questi giorni" un programma di ricerche di 3 miliardi di lire per un impianto solare in costruzione presso la Nuova Pignone, che dovrebbe servire per il riscaldamento di una palazzina di uffici.

Alla richiesta di chiarimenti sulla destinazione di queste ricerche - come riferisce nella seduta del 23 novembre l'on. Servadei - l'Eni ha risposto che serviranno per la sua attività all'estero, ad esempio in Africa.

Lo stanziamento comunque è talmente insignificante da far pensare che "sia più a carattere propagandistico che con contenuto reale" (Falomo, vicepresidente Confapi, audizione del 1· dicembre '76): "E' evidente che se si innescano contrasti d'interesse interni tra forniture di combustibile e fonti alternative, potrebbe sorgere il sospetto che iniziative di facciata nascondano la volontà di lasciare le cose come stanno e di non sviluppare la fonte energetica solare".

Da parte sua, Falomo sostiene che "l'applicazione dell'energia solare permette di prevedere, in via del tutto cautelativa, un contributo energetico nazionale maggiore o tut'al più uguale alla finte nucleare". E fra lo scetticismo dei commissari espone un'ipotesi di "piano solare", per cui sollecita la destinazione di una quota di risorse pubbliche pari almeno al 10% di quanto si è già destinato e si continua a destinare al programma nucleare; cioè, un primo stanziamento, in tre anni, per un minimo di 50 miliardi di lire.

E INTANTO L'ENI LITIGA CON L'ENEL

Dato il rifiuto "ideologico" della fonte solare, esperti e deputati della commissione Industria hanno accordato un'attenzione più favorevole alla geotermia. Soltanto i rappresentanti della Confapi hanno avvertito che geotermia tradizionale (utilizzazione del vapore naturalmente esistente e delle acque calde attraverso perforazioni) non può dare risultati comparabili a quelli dell'energia solare; mentre la tecnica delle "rocce calde" (perforazioni moto profonde nel terreno fino a trovare rocce calde-secche, quindi iniezioni di acqua dalla superficie che, una volta riscaldata, viene pompata e utilizzata) non sarà operativa prima di 20-30 anni (audizione del 1· dicembre 1976). E' chiaro che la soluzione dei notevoli problemi tecnici per la frantumazione delle rocce calde in profondità può dare il più grande sviluppo a questa fonte energetica.

La geotermia tradizionale ha in Italia una delle poche utilizzazioni di uso industriale. Oggi è prodotta soltanto nei campi della Toscana, Lardarello e dintorni, e viene trasformata in energia elettrica per circa 600 mila tep, l'equivalente del giacimento di Gela. Vi sono programmi di ricerca in Lazio, Campania, Sicilia, Veneto, Basilicata; possibilità sembrano esistere anche nel Friuli-Venezia Giulia (Scarpellini, Federazione elettrici Uil, audizione del 23 novembre '76).

Tuttavia la ricerca in questo settore è unanimemente considerata insufficiente, ed è inoltre bloccata da più di due anni da una disputa tra l'Enel e l'Eni (Scarpellini della Uil parla di "imperialismi aziendali"). All'Enel di attribuisce la responsabilità del mancato sviluppo della geotermia.

Non sono mai stati varati programmi intensivi di sviluppo - affermano i sindacati (documento del 25 ottobre '76 sui problemi dell'energia) -: "La nascita all'Enel non solo non modificava, ma aggravava tale tendenza: basti pensare che la crisi petrolifera ha prodotto negli Usa circa 2.500 nuove richieste di permessi di perforazione, mentre in Italia una soltanto". L'Enel prevede di raddoppiare entro 10-15 anni la capacità attualmente installata (attorno ai 400 MWe): "E' invece convinzione del sindacato che si possa fare molto di più in un periodo di tempo molto più breve. Occorre intanto rimuovere le cause che rallentano ricerca e sfruttamento: anzitutto la politica filopetrolifera dell'Enel" (documento sindacale del 25 ottobre '76).

Anche secondo la Confapi, organizzazione e metodi dell'Enel "lasciano abbastanza a desiderare". La Confapi chiede perciò "di non lasciare l'intero settore delle acque calde e del vapore non utilizzato efficientemente per produzione di elettricità" (audizione del 1· dicembre '76).

Di parere opposto, naturalmente, l'Enel. Nell'audizione del 17 novembre '76, il presidente Angelini ha presentato una relazione del giugno '75, in cui si sostiene il progressivo esaurimento dei soffioni di Lardarello. Nel '70-'75, secondo la relazione, l'Enel ha speso circa 10 miliardi per ricerche e sviluppo nel settore geotermico, con risultati scoraggianti.

L'Enel però non smentisce, a fronte di questa modesta attività in Italia, di essere da anni impegnato in numerosi programmi di ricerca all'estero. La relazione del '75 elenca gli impegni a Taiwan, Turchia, Colombia, El Salvador, Isole Canarie, Portogallo, Guatemala, Ungheria, Iran; più un accordo di collaborazione con Erda (Energy Research and Development Administration) degli Stati Uniti per la realizzazione di programmi in paesi terzi.

S'è fatto un gran parlare, in commissione Industria, di risparmio energetico, con valutazioni esplicitamente positive. Secondo il vicepresidente del Cnr, Silvestri, l'aggiornamento tecnologico dei processi produttivi, finora frenato dal basso prezzo del petrolio, potrebbe portare a un risparmio del 15% in 25 anni; e altrettanto si potrebbe ottenere con una razionalizzazione dei consumi (audizione del 25 novembre '76). Caglioti ha espresso valutazioni più basse, dell'ordine del 10% (audizione del 19 novembre '76); mentre altri hanno rilevato la necessità di sfruttare meglio gli impianti elettrici convenzionali. Le centrali termoelettriche, ad esempio, secondo Bottazzi (Cgil), hanno un'utilizzazione media inferiore del 10% a quella degli altri paesi: l'equivalente di due centrali da 1000 MW (audizione del 23 novembre '76).

LASSU' QUALCUNO SI INGRASSA

C'è poi il sospetto che al governo i consumi di energia interessino solo per accrescere i prelievi fiscali. "Può nascere il sospetto - afferma nell'audizione del 1· dicembre '76 Locatelli, vicepresidente della Confindustria - che invece di fare una politica di contenimento dei consumi energetici, si preferisce ingrassare questa mucca da mungere e permettere che aumentino i consumi energetici per aumentare le entrate fiscali". E il rappresentante della Confapi: "incoraggiava una ristrutturazione dei consumi per poi colpire preditoriamente gli utenti che si fossero orientati su forme nuove, com'è accaduto per esempio con la trazione a gasolio, significa semplicemente alimentare la totale sfiducia verso una politica seria e innescare solo fenomeni di protezione di interessi di parte. Si autorizzano con questo gravi sospetti che hanno portato, anche nel settore energetico, a indagini dinanzi a commissioni inquirenti" (audizione del 1· dicembre 1976).

Anche su questo punto, tuttavia, a parte le indicazioni della Confapi che pubblichiamo a parte, non si è usciti da un generico "esigenzialismo".

Le regioni rosse sono tra le più aperte agli insediamenti nucleari. Ha un bel dire Giovanni Berlinguer che l'uranio, "prima ancora di contaminare il mondo, ha lo strano effetto di danneggiare le sinistre al potere" ("Rinascita", 4 febbraio '776): per ora i veri danneggiati sono gli elettori comunisti e socialisti.

Quattro anni fa il sindaco comunista di Caorso, dove sorge la IV centrale nucleare dell'Enel, ha svenduto ogni preoccupazione di sicurezza con una trattativa semisegreta con l'Enel che fruttato un miliardo.

Il 23 novembre '76 la giunta regionale del Lazio, presieduta da Maurizio Ferrara (quello de "Er compromesso rrivoluzionario"), ha deliberato la localizzazione di due centrali nucleari a Montalto di Castro, ignorando la decisione contraria del comune.

Nel dicembre '76 la Regione Piemonte ha indicato le aree per la localizzazione di due centrali nucleari: Trino Vercellese, che ne ospita già una, e Filippona, a 12 chilometri da Alessandria. Il comune di Trino, a maggioranza comunista, è stato l'unica a dichiararsi disponibile, assieme a quello di Latina, a ospitare altre centrali.

L'Emilia-romagna è favorevole alla localizzazione di due centrali nucleari sul proprio territorio, alla foce del Reno: lo ha dichiarato l'assessore Righi dinanzi alla commissione industria della Camera nell'audizione del 24 novembre '76. Righi ha anche riferito che la Regione ha concluso un accordo con l'Enel per costruire una rete di monitor per il controllo dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua: "E' evidente che in casi di incidenti gravi esistono possibilità di radiazione per una certa area, che sarà comunicata attraverso la relazione che invieremo alla commissione". La Regione intende stipulare una seconda convenzione con l'Enel "per una ricerca continuativa epidemiologia sullo stato delle popolazioni comprese in un certo territorio inerente alla centrale nucleare".

La Toscana si è dichiarata favorevole a ospitare l'impianto Coredif per l'arricchimento dell'uranio. Nell'audizione del 24 novembre '76 dinanzi alla commissione industria, il vicepresidente comunista della giunta regionale toscana, Bartolini, ha dichiarato che "attualmente siamo al lavoro per la ricerca delle possibili localizzazioni" e "stiamo battendo a tappeto tutta la fascia costiera alla ricerca delle possibili localizzazioni"; chiedeva soltanto che il governo si impegnasse seriamente per la localizzazione dell'impianto in Italia. Dopo la pubblicazione dell'articolo di Asor Rosa sull'"Unità" del 2 febbraio '77, Bartolini ha risposto imbarazzato, giocando sulle parole: "Non è vero che la Regione Toscana, come viene da più parti ventilato in questi giorni, abbia approvato, né promosso, un piano per l'energia nucleare, quindi nemmeno per quello Coredif" ("l'Unità", 4 febbraio '77). Si è poi saputo che la candidatura più forte per il Coredif è Montalto di Castro.

Nel novembre '76 i presidenti dell'Enel, del Cnen, dell'Eni, dell'Iri, della Fiat e della Montedison hanno scritto una lettera a Andreotti chiedendogli di impegnarsi personalmente per ottenere la localizzazione del Coredif in Italia. La lettera sollecitava anche "uno speciale provvedimento legislativo per la rapida determinazione del sito", ritenendo inadeguata la stessa legge n. 393 pur così autoritaria. Ma a favore del Coredif spingono particolarmente Pci e Psi, sostenendo che la sua localizzazione procurerebbe commesse cospicue e posti di lavoro. Ma, a parte il lavoro di manovalanza, le stesse commesse potrebbero ottenersi anche se l'impianto fosse localizzato all'estero; come del resto sta avvenendo con il progetto di reattore veloce "Super-Phénix", che sorgerà a Creys-Malville, in Francia. Tuttavia il punto veramente inspiegabile è un altro: il Coredif dev'essere alimentato da 4 centrali nucleari da 1000 MW e occuperà circa 600 ettari. Appare perciò assurdo, anche per i fautori del programma nucleare, s

ottrarre 600 ettari al territorio nazionale per installarvi quattro centrali destinate a non entrare in rete, quando si fa sempre più difficile il reperimento di siti per le centrali previste dal Pen.

Continuiamo la rassegna delle regioni. Anche la Lombardia si è dichiarata favorevole alla localizzazione di due centrali nucleari. Si dice che il Cnen abbia indicato tre aree (a Monticello Pavese, alla confluenza tra l'Oglio e il Po, a San Benedetto Po), ma che la Regione abbia avanzato controproposte che "intende mantenere segrete - riferisce il "Corriere della sera" del 10 febbraio '77 - per non dare esca all'opposizione ecologica". Dinanzi alla commissione industria il vicepresidente della giunta, Gangi, ha annunziato che il consiglio regionale ha già provveduto, con delibera del 30 aprile '75, a inserire nel sistema automatico di controllo dell'inquinamento atmosferico anche la sorveglianza della radioattività. Gangi ha richiesto l'uso di torri di raffreddamento per le centrali, e ha poi ammesso che non esiste idea alcuna di dove depositare le scorie radioattive della centrale di Caorso. Ma sull'efficienza ecologica della Regione Lombardia non c'è bisogno di insistere: basta Seveso.

Contrari a insediamenti nucleari si sono invece dichiarati le Regioni Molise (che ha respinto la delibera del Cipe recepita dalla legge n. 393), Marche, Basilicata e in modo più ambiguo, Umbria. Nell'audizione del 24 novembre '76 l'assessore all'industria della Basilicata, Righi, si dichiarava perplesso sulla possibile localizzazione nella regione di impianti per la produzione di combustibile, il ritrattamento di combustibile irraggiato, la produzione di combustibile per reattori veloci e il condizionamento dei rifiuti radioattivi. Prima di decidere chiedeva un progetto specifico di insediamento, ma avvertiva: "non accetteremo in nessun caso la collocazione sul nostro territorio di un cimitero nazionale delle scorie radioattive". Righi dichiarava anche all'opposizione della Regione all'insediamento di due centrali nucleari nel Metapontino; un ordine del giorno in tal senso è stato votato il 31 novembre '76 dal consiglio regionale, su proposta del socialista Cassino.

Secondo notizie giornalistiche, in mancanza di comunicazioni ufficiali, altre regioni sarebbero candidate: Puglia, Abruzzo, Veneto, Basso Lazio, Friuli... "Gli studi condotti finora dall'Enel e dal Cnen - informa il "Corriere" del 10 febbraio '77 - sono circolanti da una spessa cortina di segretezza... i piani per la localizzazione delle centrali sono "top secret", e le popolazioni rischiano di essere poste dinanzi al fatto compiuto".

Come quadro generale, comunque, molte Regioni sono favorevoli alla localizzazione di impianti nucleari: perché allora i filonucleari non sembrano contenti? E' chiaro: la disponibilità delle autorità regionali è relativa, se non ha il consenso dei comuni e soprattutto delle popolazioni interessate.

Ne parla un funzionario del Cnen, Naschi, nell'audizione del 25 novembre '76: "Se devo parlare in base all'esperienza personale acquisita nei contatti che abbiamo avuto con molte Regioni nel corso di questo anno di applicabilità della legge n. 393, devo riconoscere che, a livello dei singoli politici, c'è la volontà di farla funzionare. Ma al momento delle decisioni emergono una quantità di problemi, sia in rapporto alla volontà delle singole comunità, sia in relazione a un problema, per così dire di ritegno a prendere deliberazioni in questa materia, e di inerzia. Infatti si accampa tutta una serie di problemi; innanzitutto quello della sicurezza: si dice che il parlamento, in fondo, non lo ha mai discusso in termini approfonditi e chiari. C'è poi il problema dell'inquinamento termico, e nonostante tutte le cose che diciamo - che, al di là della stessa legge Merli, guardiamo non solo ai problemi della temperatura, ma agli effetti di questa enorme massa di calore, per limitarne in senso assoluto le conseguen

ze - si finisce sempre con il registrare una serie di ritardi. Per cui, in effetti, fino a oggi la legge n. 393 è stata applicata, in termini abbastanza corrispondenti a quelli previsti, solo per l'Alto Lazio".

Due giorni prima, nell'audizione del 23 novembre, anche l'on. Formica (Pci) se l'era presa con le manifestazioni popolari: "Tutti sappiamo che ogni volta che si vuole costruire una centrale sorgono per l'occasione vari organismi che strumentalizzano i giusti problemi dell'ambiente e della sicurezza delle popolazioni perché sono pregiudizialmente ostili all'energia nucleare". E' un delitto, pare. Poi, rivolto ai rappresentanti sindacali, Formica li aveva bruscamente sollecitati a far da pompieri: "Ho l'impressione che le centrali sindacali svolgano in questa fase un ruolo al di sotto delle loro responsabilità per orientare le popolazioni che sono strumentalizzate da questi attacchi". Garavini l'aveva subito rassicurato: "Noi, come organizzazione sindacale, uno sforzo l'abbiamo compiuto dalla Sardegna al Molise per tentare di superare certe difficoltà, che francamente ci paiono più di tipo amministrativo e burocratico che reale...".

Donat Cattin è addirittura esasperato, e se la prende anche con la Lombardia, che pure è ben disposta: "Nella Regione Lombardia si pensa a un pellegrinaggio per le sedi nelle quali sono indicati insediamenti: e tale pellegrinaggio di ``Bertoldo alla ricerca dell'albero'' continuerà a lungo se non interverremo" (audizione del 22 dicembre '76). Intervenire come?

"Circa il problema dei siti e dell'applicazione della legge n. 393 - dice nella stessa audizione - occorre che, anche in presenza dell'attuale situazione politica, caratterizzata da grande fluidità, si faccia uno sforzo per ottenere le necessarie localizzazioni. Lo stesso parlamento deve opportunamente valutare se gli convenga detenere il potere di prendere la decisione finale in merito ai siti". Perché non affidare questo potere all'Enel - chiede Donat Cattin - superando così le preoccupazioni elettoralistiche dei partiti? "Ci troviamo spesso di fronte a proposte inaccettabili da parte delle Regioni, come quella avanzata dal Molise per salvare due chilometri delle proprie coste. Il problema dei siti è di enorme importanza tecnica e politica e bisogna evitare l'estendersi del convincimento che chiunque alci la mano riesca ad avere ragione!".

Ugualmente chiaro era stato a una tavola rotonda organizzata dal Ceep a Torino nel maggio '76: "La ricerca del consenso può essere spinta al massimo limite, ma a un paese, e a tutti i paesi, non si può sottoporre, sottomettere una decisione che non è d'interesse locale... Forse in questo senso sarò autoritario ("no no"), ma credo che non sia autoritarismo quanto piuttosto il senso dell'interesse generale e il senso dello Stato". Un mucchio di paesi nel mondo - aveva concluso - hanno ordinato molte centrali "senza tutte le storie che facciamo noi".

Alla tavola rotonda partecipava Luciano Barca, che l'aveva ammonito dolcemente: se vogliamo fare in fretta le centrali, la strada è un'altra: "Il problema della ricerca del consenso non è un problema che va visto in contrasto con la rapidità, ma è l'unico modo di fare rapidamente".

 
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