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Malatesta Stefano - 5 aprile 1977
RADICALI: Noi, rompiscatole
di Stefano Malatesta

SOMMARIO: Sommario: Lunga inchiesta, condotta dopo l'ultima iniziativa dei quattro deputati radicali. Oltre all'articolo di Malatesta, vi sono due riquadrati ("Tutti in gara per insultarli"; "Chi sono i radicali" di Chiara Beria) e , nella rubrica "Le opinioni", "Perché ce l'hanno con loro", di Stefano Rodotà). Il resoconto dà ampia informazione in merito all'episodio delle dimissioni, prima annunciate e poi ritirate, di Emma Bonino per protesta contro l'assenteismo del governo sulle misure a favore degli agenti di custodia. Dà poi informazione sull'attività complessiva dei deputati a "otto mesi" dalla loro elezione:"Sono stati otto mesi di difficile e sempre più travagliata convivenza con tutti gli altri gruppi, sconcertati e irritati da una psicologia e da una durezza di lotta affinata nelle piazze e sui marciapiedi d'Italia...E alla fine il processo di rigetto, covato a lungo, è esploso in maniera clamorosa e intollerante".

Si tratteggia quindi una biografia di Emma Bonino, dagli studi all'avvicinamento al partito radicale all'"impatto" con il Parlamento dove Andreotti l'ha definita "mezza Giovanna d'Arco e mezza Vispa Teresa".

(PANORAMA, 5 aprile 1977)

(Comunisti furenti, democristiani inviperiti: le lotte e i metodi radicali sono una spina nel fianco dei grandi partiti. "Ci si può rassegnare alla sconfitta solo dopo aver combattuto fino in fondo", dice Emma Bonino, protagonista di tutte le ultime battaglie. "Cedere le armi in partenza, mai".)

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Il coro aumentò di tono: "Buffoni, buffoni". E poi "pagliacci, basta con il teatrino radicale". Il pomeriggio di mercoledì 23 marzo il presidente della Camera, Pietro Ingrao, non riusciva più a controllare l'aula: "Onorevoli colleghi, si tratta di un atto importante...". "Macché importante", rispose urlando Benedetto del Castillo, deputato democristiano. "Vi chiedo un momento di serenità...". "Macché serenità; basta, via...". E ancora urla, strepiti, insulti.

I più accaniti erano, con i democristiani e i demonazionali, tutti in piedi a urlare, ad agitare le braccia in alto, anche i comunisti. "Questa è la porta, via di qui", strillava Gian Carlo Pajetta congestionato dalla rabbia.

Appoggiata al suo seggio, in alto all'estrema sinistra dell'aula, pallida e un po' tremante, Emma Bonino, uno dei quattro deputati radicali, bersaglio della più e accesa salve di invettive di tutta la legislatura ("una manifestazione d'intolleranza", è stato il commento dei socialisti), aveva appena finito di ritirare le sue dimissioni.

Le aveva date cinque giorni prima per protestare contro l'assenteismo del governo sulle misure a favore degli agenti di custodia. La lotta dei radicali per cambiare la miserevole situazione delle carceri italiane, dei detenuti, degli agenti e dei direttori, era iniziata sei-sette anni fa (costituzione della lega non violenta dei detenuti) tra l'indifferenza generale. Ma l'estate calda del '76, con le rivolte nelle maggiori carceri italiane (le Nuove a Torino, San Vittore a Milano, e così via) aveva costretto governo e partiti ad alzare il coperchio delle sommosse e a guardare cosa ci fosse dentro e dietro. Il 2 dicembre, al termine di un lungo dibattito, la Camera aveva votato un ordine del giorno con cui impegnava il governo a prendere interventi d'emergenza.

"Digiuno". "Passarono settimane, i detenuti continuavano a evadere, nessuno spostava una foglia", ricorda la Bonino. Anche il digiuno iniziato da un gruppo di radicali, non riuscì a smuovere l'inerzia dc. Il governo rispose che il problema sarebbe risolto a ottobre.

Le dimissioni per protesta della Bonino avrebbero forse suscitato reazioni molto minori se i radicali, nei giorni precedenti, non avessero portato lo sconquasso in parlamento sul caso Lockheed, accusando l'Inquirente di aver trascurato le responsabilità di Giovanni Leone, presidente della Repubblica.

Questo ennesimo attacco del gruppo di "guastatori", come li chiamano i loro avversari, aveva riscaldato gli animi, soprattutto quelli dei comunisti, che avevano deciso di accettare le dimissioni della deputata radicale. E quando all'ultimo momento, in seguito a una promessa di Andreotti (impegno a preparare un disegno di legge entro tre mesi) la Bonino le ritirò, le reazioni furono violente.

Perché tanto risentimento? Alla base c'è l'insofferenza dei grandi partiti per la tenacissima azione di pungolo e di disturbo che i radicali, incuranti delle grandi manovre politiche, esercitano in continuazione.

Sempre presenti, intervenendo e interrompendo, muovendosi accortamente tra le pieghe del regolamento (aiutati, in questo, da numerosi funzionari simpatizzanti) dal loro ingresso in parlamento, Emma Bonino, Marco Pannella, Mauro Mellini e Adele Faccio hanno sfruttato ogni mezzo consentito per farsi sentire.

In otto mesi i quattro deputati radicali spalleggiati da quattro "deputati supplenti", Roberto Cicciomessere, la suora Marisa Galli, Angelo Pezzana, del Fuori e l'avvocato Franco De Cataldo (l'istituzione del deputato supplente è stata inventata dal Pr che, per lasciare spazio al più largo numero possibile di attivisti, prevede a un certo punto le dimissioni dei deputati eletti e la loro sostituzione con chi li seguiva immediatamente come numero di preferenze) hanno presentato 10 mozioni e 80 tra interpellanze e interrogazioni, tenendo continuamente sotto pressione il governo che è stato costretto a dargli il 54% di risposte contro il 35% date alla Democrazia cristiana.

Nei primi tre mesi della legislatura i deputati radicali hanno parlato per un numero di ore superiore a quello di qualsiasi altro gruppo, battendosi soprattutto contro il Concordato, contro i codici militari, per la piena e totale legalizzazione dell'aborto, senza mai perdere l'occasione di inserirsi come un cuneo tra Dc e Pci, allo scopo di evitare il compromesso storico e di favorire l'alternativa di sinistra.

Rinchiusi per 12-13 ore al giorno in tre locali a loro disposizione al sesto piano di Montecitorio, mangiando un paio di panini per tutta la giornata (solo Mellini scende al self-service per fare un pasto completo) sono riusciti in breve tempo a preparare, con l'aiuto di docenti universitari (Ernesto Bettinelli, Stefano Rodotà) una lunga serie di progetti di legge: sull'aborto, la smilitarizzazione della polizia, l'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sul Sid, il codice penale militare e il regolamento militare, la tutela dei diritti dei cittadini di lingua non italiana e delle minoranze linguistiche.

Con 40 milioni ritagliati dai contributi statali per la campagna elettorale il gruppo radicale spera di aprire nei prossimi mesi un centro studi legislativo: il primo progetto in vista è uno studio sulla riconversione delle strutture e delle spese militari in strutture e spese civili (oltre 200 mila operai lavorano a tempo pieno in Italia per le forniture militari).

Terminato il lavoro di stesura dei progetti di legge e delle interpellanze, i deputati radicali sono costretti a correre da una all'altra delle 14 commissioni permanenti per partecipare alle discussioni, controllando minuziosamente testi e modifiche (a differenza degli altri non leggono mai i loro discorsi, ma li improvvisano servendosi di pochi appunti).

Sono stati otto mesi di difficile e sempre più travagliata convivenza con tutti gli altri gruppi, sconcertati e irritati da una psicologia e da una durezza di lotta affinata nelle piazze e sui marciapiedi d'Italia e completamente estranee dal tran-tran di Montecitorio. E alla fine il processo di rigetto, covato a lungo, è esploso in maniera clamorosa e intollerante.

Al centro della bufera, sotto accusa per tutti, la Bonino. Accusata di lavorare a maglia nel Transatlantico, d'indossare tute e vestiti poco consoni all'austerità del parlamento, di calzare zoccoli e di assentarsi dalla commissione Giustizia per correre all'asilo a riprendere la figlia adottiva, Aurora, di tre anni, la Bonino è esattamente l'opposto della deputatessa-tipo dall'aspetto di professoressa: permanente, giro di perle al collo, molti silenzi in aula, ancora meno interventi.

"Da due anni". Piemontese di Bra (provincia di Cuneo) 29 anni, piccola, magra, il viso affilato dai digiuni, vivaci occhi azzurri, viene da una famiglia di mezzadri. Al partito radicale è approdata solo due anni fa, dopo una lunga serie di esperienze. Prima la vita in provincia, il trasferimento a Milano per studiare alla Bocconi, il fidanzato, il tè con le amiche, nessun interesse per la politica ("Il '68 mi è passato accanto e non l'ho visto"). La prima volta che si trovò in un'assemblea non ci capì nulla: "Il marxismo-leninismo, Mao, la lotta, la classe, tutto mi si confondeva nel cervello".

Poi le prime esperienze, una sensazione confusa che qualcosa non andava, il rifiuto del matrimonio impostato solo sui due locali più servizi, la tesi di laurea negli Stati Uniti su Stockley Carmichael, il leader Black Power. Era l'epoca in cui il partito radicale stava uscendo da anni di riflusso e di semioscurità: c'erano già state tre marce antimilitariste, si era formata la Loc (Lega degli obiettori di coscienza), era nato il primo nucleo del movimento di liberazione della donna, guidato da Alma Sabatini. Per la prima volta si era parlato di aborto al congresso di Napoli e la Lid si batteva già da cinque anni per l'introduzione del divorzio in Italia. "Ma io", confessa la Bonino, "non avevo mai sentito parlare dei radicali".

Tornata in Italia, si accostò alla politica attraverso il gruppo di Lotta Continua: volantinaggio davanti alle fabbriche, discussioni ideologiche. "Ma erano sempre gli uomini che parlavano: padronato, Mozambico. Noi donne a cucinare spaghetti. I problemi personali non si toccavano: non c'entravano con la lotta di classe".

Insoddisfatta, stanca di parlare continuamente degli operai senza vederli quasi mai, si fece assumere alla Motta: catena d'impacchettamento, otto ore a soffiare vaniglia sui panettoni. Ma anche qui qualcosa non funzionava: non si sentiva operaia, i problemi erano altri.

La svolta arrivò quando fu costretta ad abortire: "Mi resi conto che tutte le mie amiche avevano gli stessi problemi: mancanza dei contraccettivi, desiderio e paura di abortire. Eravamo nella stessa situazione".

Entrata in contatto e poi a far parte dell'Aied (contemporaneamente, per mantenersi, insegnava a scuola), nel 1974 conobbe e passò ad aiutare Adele Faccio che dirigeva, nella sede del partito radicale, il Cisa (Centro informazione sterilizzazione e aborto). Ogni sabato e domenica mattina la Bonino partiva in treno da Milano con 30-40 donne che andavano ad abortire a Firenze da un medico radicale, Giorgio Conciani: "Le domande erano sempre le stesse: farà male? quanto dura? Ma al ritorno, tutte si aprivano, si sfogavano, dicevano cose di cui non avevano mai parlato con il marito o con il fidanzato: una liberazione".

"Femminista". Il passaggio dalla disobbedienza civile per l'aborto alle altre battaglie radicali avvenne nel 1975, subito dopo il suo arresto per pratiche abortive. Emma Bonino fu chiamata a far parte della segreteria. E fin dall'inizio rappresentò un tipo nuovo di militante in cui oggi si riconoscono numerosi radicali: estrazione proletaria, fortissima componente femminista, nessun contatto con il passato del Pr, lontana come formazione culturale dal vecchio nucleo radicale rappresentato da Marco Pannella, Gianfranco Spadaccia, Mauro Mellini, la Bonino confessa di non aver saputo fino a due anni fa chi fosse Mario Pannunzio, il direttore del "Mondo", e di aver letto Ernesto Rossi, il maestro e l'ispiratore di Pannella, solo recentemente.

L'incontro con i leader la lasciò perplessa: "I dirigenti dei gruppi extraparlamentari che avevo conosciuto discutevano ore e ore per stabilire la linea, dopo aver consultato e citato i testi sacri, Lenin, Mao. Poi stilavano un documento lungo, fitto di riferimenti ideologici. All'azione pratica non passavano mai. Al Pr invece era tutto il contrario, sembrava un'improvvisazione continua. Mi ci è voluto del tempo per capire che lo spontaneismo di Pannella era studiamo al millesimo".

Affascinata dal modo radicale di fare politica (tutti si possono occupare di tutto: non ci sono incarichi troppo settoriali ed esclusivi), convinta che una società socialista debba essere antimilitarista, libertaria, autogestionaria, non violenta, la Bonino, diventata oramai una delle attiviste più conosciute e decise, dopo il 20 giugno si è ritrovata in parlamento sull'onda di 11 mila preferenze.

L'impatto è stato duro. "Fuori la gente diceva che i democristiani erano ladri. Dentro Montecitorio tutto sfumava all'interno del "quadro politico". E poi, gli oratori che leggevano i discorsi scritti dagli altri, le deputatesse quasi tutte confinate in ruoli subalterni, il modo ovattato di dire le cose: "Se lei mi consente...". "Tutto lecito, ma che differenze con quello che la gente si dice in casa, davanti al televisore, o per strada".

"Isolata". Guardata con sospetto dalla maggioranza dei parlamentari, soprattutto dai leader, la Bonino è riuscita a conoscere e a scambiare quattro parole solo con i suoi vicini di banco o con i membri della commissione Giustizia, di cui fa parte. Definita da Giulio Andreotti mezza Giovanna d'Arco e mezza Vispa Teresa, ha continuato a svolgere il suo ruolo di oppositrice senza troppo curarsi delle critiche. "Noi siamo all'opposizione da molti anni", le confidò una volta Bozzi, "e preferiremmo morire di serietà piuttosto che adoperare i vostri metodi". "Io credo invece", gli ha risposto la Bonino, "che ci si debba rassegnare alla sconfitta solo davanti alla forza del numero o dopo averle provate tutte. Cedere le armi in partenza, mai".

 
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