di Riccardo ChiabergeSOMMARIO: I sindacati non sono più una forza alternativa. Si sono avute vittorie, ma a costi altissimi. Ci sono minoranze interne al movimento che lo accusano di sudditanza al padronato. Diffidenza della classe operaia.
(ARGOMENTI RADICALI - BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA - anno I, n. 2, giugno-luglio 1977)
Il movimento sindacale è ancora una forza "alternativa"? O non si avvia a divenire piuttosto anch'esso una corporazione fra le tante, o meglio un aggregato di corporazioni, pienamente inserito nel regime della spartizione e del compromesso? Questi interrogativi sorgono spontanei di fronte alla sempre più evidente spaccatura che si sta creando fra le grandi organizzazioni dei lavoratori occupati e le masse dei disoccupati, dei sottoccupati, degli anziani e degli studenti.
Il fatto che questa spaccatura venga strumentalizzata dal padronato e dalla DC per ridimensionare il potere contrattuale e politico del sindacato non è un motivo valido per negarne l'esistenza, o per eludere una seria riflessione in proposito all'interno della sinistra.
A otto anni di distanza dall'autunno caldo, che cosa è rimasto del sindacato "nuovo", unitario e di classe, dei consigli di fabbrica, della grande spinta operaia per cambiare la società? Ben poco, purtroppo.
Il processo unitario si è impantanato nelle mediazioni burocratiche, è rifluito negli alvei dei partiti, facendo da supporto al governo delle astensioni e al compromesso storico: altro che rifondazione della sinistra. L'illusione dell'egemonia operaia, della democrazia consiliare è caduta sotto i colpi della recessione e della cassa integrazione. La lotta per le riforme si è logorata in uno stanco rituale di incontri diplomatici con governi fermamente intenzionati a riformare il meno possibile, e di scioperi dimostrativi che non hanno dato fastidio al governo, mentre sfiancano e mortificano il movimento.
Nel momento del riflusso e della crisi, quando il problema non è tanto di pilotare verso nuove direzioni di sviluppo, quanto piuttosto di contenere il franamento della base produttiva ed occupazionale, il sistema di garanzie e gli strumenti di contropotere conquistati in fabbrica diventano, più che fattori di avanzamento democratico, presidi da difendere, e alle tensioni innovative succede una cauta - e al fondo, immobilistica - amministrazione dell'esistente.
Questa strategia difensiva ha segnato, senza dubbio, qualche punto al suo attivo: la scala mobile è rimasta sostanzialmente intatta (a parte qualche ritocco del paniere), e anzi - dopo l'accordo del gennaio 1975 - protegge meglio i salari più bassi, che per effetto del punto pesante hanno incrementi superiori a quelli del costo della vita; d'altro canto, la cassa integrazione e le finanziarie pubbliche di salvataggio (Gepi, Tescon) hanno arginato efficacemente la caduta dell'occupazione, scongiurando il rischio (verificatosi in altri paesi occidentali) di licenziamenti in massa.
Ma queste "vittorie", anzitutto hanno avuto un prezzo altissimo sul piano economico e sociale (abnorme dilatazione dell'area assistita e del lavoro nero) e poi hanno avvantaggiato solo limitati gruppi di lavoratori occupati, lasciando immutate (o addirittura aggravando) le condizioni di larghe fasce di "emarginati": chi infatti non ha un reddito regolare (e come tale indicizzato), chi non ha un'occupazione o lavora senza coperture previdenziali e senza garanzie contrattuali, si trova a pagare per intero il prezzo della crisi e dell'inflazione. Di qui le esplosioni di disperata violenza che soprattutto negli ultimi mesi hanno avuto per protagonisti gli studenti e i disoccupati del mezzogiorno.
Contro questi fenomeni di disgregazione non servono le prediche di Lama o di Berlinguer, gli appelli all'unità delle masse popolari, le mozioni di condanna dei provocatori; questa gente ne ha abbastanza di fare anticamera, non si accontenta più di vaghe promesse, di auspicati "nuovi modelli di sviluppo", e comincia ad avere il giustificato sospetto che dietro ai conclamati obiettivi di riforma si continuino a nascondere interessi puramente corporativi. Delle confederazioni, non si fidano più: perché vedono in esse - non a torto - un sostegno di quel regime e di quelle forze politiche che hanno portato il paese allo sfascio.
Ma oltre che con le contestazioni "esterne", il sindacato deve fare i conti con una fronda interna, quella delle punte più ribelli dell'industria, in particolare della Fim-Cisl (che ha animato il famoso convegno al Lirico di Milano). Queste componenti - in cui è forte la presenza della nuova sinistra - accusano i vertici confederali di burocratismo, di subalternità alla politica del PCI, e di eccessiva condiscendenza nei confronti del padronato. Anche qui, è bene distinguere i risvolti ideologici (spesso aberranti) della protesta da quelle che sono le sue motivazioni reali.
Non si può dare torto a queste minoranze quando lamentano che il discorso dei sacrifici sia stato impostato (anche dal PCI e dai sindacati) in termini ambigui ed unilaterali, come se si trattasse di ridimensionare soltanto i redditi da lavoro dipendente, e non per esempio quelli da lavoro autonomo (artigiani, commercianti, professionisti), che pagano poche tasse (o non le pagano affatto) e hanno redditi fortemente indicizzati. E non si può neppure negare che - almeno nelle grandi città - il ritardo delle riforme, il rincaro dei fitti, la carenza di servizi sociali, l'inefficienza del sistema distributivo, determinano una crescente pressione sui salari.
Questi ed altri fattori sono all'origine della diffidenza operaia nei confronti della linea confederale sul costo del lavoro. Anche sui problemi della produttività e della mobilità permane una profonda incomprensione, che trova alimento non solo nelle incerte prospettive dell'economia e nel cronico ristagno degli investimenti, ma ancor più in un certo atteggiamento culturale, certamente anticapitalistico, ma non sempre progressivo, che si è andato diffondendo in questi ultimi anni in larghe fasce di lavoratori. E' un atteggiamento che mette al primo posto la stabilità dell'impiego e l'automatismo delle carriere, rispetto al contenuto del lavoro e alla crescita professionale: insomma, i valori dell'impiegato pubblico rispetto a quelli dell'operaio. Non c'è dubbio che al formarsi di questo atteggiamento ha contribuito in modo decisivo l'atmosfera alienante delle grandi fabbriche, lo svuotamento dei mestieri tradizionali, la rozzezza e l'irresponsabilità di tanta parte della nostra classe imprenditoriale. Ma è
anche vero che l'inamovibilità dell'impiego pubblico (con tutti i guasti e gli sprechi che ha prodotto) è ormai diventato un modello, uno status ambito da tutti i lavoratori, a qualsiasi categoria appartengano.
Del resto, perché l'operaio, che già deve pagare salate tangenti ai carrozzoni previdenziali, dovrebbe accettare di diventare mobile o di lavorare di più, quando nessuno - almeno finora - ha chiesto all'impiegato dell'Inps o dei ministeri di fare altrettanto?
Si assiste così ad un completo rovesciamento di prospettive: all'egemonia operaia subentra quella impiegatizia, e tutti rincorrono condizioni di stabilità e di alto reddito, per uguagliare gli standard di vita dei colletti bianchi.
Il sindacato non ha avuto la forza né la volontà di abbattere i privilegi dei ceti burocratici e parassitari; e si trova ora paralizzato da una generale vocazione al parassitismo che rischia di minare alla base ogni proposito di riforma e di alternativa democratica.