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Pasquino Gianfranco - 25 maggio 1977
Un'alternativa alla burocrazia
di Gianfranco Pasquino

SOMMARIO: Le alternative al finanziamento diretto dei partiti. Fornire i mezzi tencini, su base locale, per la presenza dei partiti nel territorio; rafforzare le strutture di sostegno dei parlamentari.

(ARGOMENTI RADICALI - BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA - anno I, n. 2, giugno-luglio 1977)

Che in ogni sistema politico competitivo sia necessario alle varie formazioni politiche procurarsi le risorse necessarie a svolgere le loro attività è affermazione quanto mai ovvia. Che, poi, queste risorse siano tanto più indispensabili nella misura in cui ci si trovi in una democrazia di massa - laddove la difficoltà di comunicare le proprie posizioni, trasmettere i propri messaggi e, al limite, educare l'elettorato, sono ancor più accresciute - appare altrettanto evidente. Infine, sembra esserci una correlazione significativa tra intensità della competizione politica (in quei sistemi dove esistono più partiti separati fra loro da divergenze politiche ideologiche, di classe di una determinata profondità) e richiesta - e offerta - di risorse finanziarie per sostenere questa competizione. A questo si aggiunga che, quanto più lo Stato interviene in economia - nelle più svariate modalità (dall'assegnazione del credito all'allocazione degli investimenti a commesse vere e proprie) tanto maggiore sarà l'interesse

di alcuni gruppi di assicurarsi un accesso privilegiato alle sedi decisionali e quindi la propensione di questi gruppi a investire in determinati partiti e candidati crescerà anche più che proporzionalmente.

Comunque lo si rigiri, il problema delle risorse che i partiti politici necessitano e utilizzano si presenta come uno dei problemi chiave nel funzionamento delle moderne democrazie rappresentative (lasciando da parte quei sistemi che Weber definirebbe "patrimoniali" e nei quali il controllo del potere politico significa ricchezza e agi per i detentori). E la soluzione, in astratto è tutt'altro che facile da trovare. Fatta la legge, trovato l'inganno si potrebbe dire. E non v'è dubbio che nonostante la proliferazione di leggi sul finanziamento pubblico o statale dei partiti politici negli anni sessanta nella maggior parte delle democrazie occidentali - dal Canada alla Svezia, dalla Germania alla Finlandia, (1) e, "last but not least", l'Italia (legge n. 1952 maggio 1974) - il problema dell'indebito uso del denaro in politica, della corruzione, rimane ben aperto. Ma, esistono alternative ad un finanziamento diretto? e se si, quali?

Partiti, società civile e stato

Nessuna legge è buona o cattiva in assoluto, ma va valutata rispetto agli scopi che si propone e alle modalità con le quali intende conseguirli. Ebbene, la legge italiana sul finanziamento pubblico dei partiti, per il modo con cui fu presentata e per la rapidità con cui fu approvata, ha assunto tutte le caratteristiche della sanatoria di una situazione di gravi peccati del passato, ma non ha saputo cogliere quegli aspetti di moralizzazione vera della vita pubblica italiana (che, comunque, non può essere demandata ad una legge, per di più di "regime").

Preso atto che i partiti organizzati sono elementi insostituibili nel funzionamento delle moderne democrazie di massa - per molti motivi, ma soprattutto perché svolgono le necessarie funzioni di offrire all'elettore un punto di riferimento, comunicazioni politiche, candidati "affidabili", e un soggetto da ritenersi responsabile del suo operato, nel bene e nel male, e quindi da premiare o punire di consultazione elettorale in consultazione - resta da distinguere fra due grandi categorie e ambiti di attività dei partiti.

Infatti, si possono giustificare i finanziamenti statali ai partiti, "in forma diretta", asserendo ad esempio che essi sono necessari affinché i partiti mantengano quei legami essenziali con la società civile. Oppure, quei finanziamenti possono essere giustificati sulla base della constatazione che i "partiti in parlamento" svolgono dei compiti indispensabili al corretto funzionamento di un sistema democratico e assolutamente non surrogabili. Tuttavia, pur essendo d'accordo sul principio e sulla sostanza, resta da vedere se non esistono alternative al finanziamento diretto che siano al tempo stesso più funzionali e più eque.

Per quel che riguarda i rapporti con la società civile è ovvio che per molti partiti questi rapporti consistono sostanzialmente nell'estrazione del voto e si identificano nelle campagne elettorali. Non c'è bisogno di ricordare la grande e attendibile messe di studi che dimostra convincentemente che l'attività di tutti i partiti (con le dovute eccezioni del caso, in ispecie per il PCI) subisce dei tracolli drammatici nei periodi non-elettorali e che le varie sedi sono al massimo organismi di ritrovo dopolavoresco e tutt'altro che centri di elaborazione e dibattito politico. L'esigenza, peraltro, che un minimo di attività venga mantenuta può legittimamente spingere a sostenere qualche forma di sovvenzione ai partiti. E allora si diano loro i mezzi tecnici e l'accesso ad essi, su base locale, affinché quei partiti che ne hanno la capacità e i militanti possano usufruire e, anzi, siano invogliati a cercare di mobilitare le energie dei loro simpatizzanti per potere utilizzare le risorse tecniche messe a loro disp

osizione. Si eviterà così di creare imponenti apparati burocratici e di facilitare il processo di separazione della politica dalle altre attività.

Anche se è ovviamente necessario guardare alle prestazioni dei vari apparati, in senso quantitativo e in senso qualitativo, è indubbio che il finanziamento diretto dei partiti da parte dello Stato ha dato un impulso consistente al mantenimento di apparati di politici a tempo pieno e ai livelli intermedi, sulle cui capacità amministrative è lecito nutrire dubbi e sulla cui indipendenza di giudizio non ci si può proprio giurare. E' giusto sostenere che non ci si può affidare del tutto allo spontaneismo, ma è anche importante ribadire che non si deve assolutamente fare leva esclusivamente su remunerazioni materiali: la politica è anche, e deve rimanere, un'attività nella quale le remunerazioni ideali costituiscono una delle motivazioni centrali.

Per quel che riguarda i rapporti partiti-attività legislative e esecutive, si tocca qui uno dei problemi più spinosi delle moderne democrazie rappresentative. Siamo tutti consapevoli che l'ambito della politica si è esteso, che la tecnicità delle decisioni è aumentata e che la necessità di interventi rapidi si è fatta pressante. Ma è possibile credere che, di fronte ad esempio all'"expertise" fatta pesare dalle grandi compagnie multinazionali, agli ostacoli frapposti dall'incompetenza o dall'inefficienza delle burocrazie e ai maneggi del governo, deputati e senatori sapranno rispondere meglio, una volta che i loro gruppi parlamentari saranno foraggiati dallo Stato (da quello stesso Stato i cui organi e le cui attività dovrebbero essere controllate da vicino)?

Eppure, anche a questo proposito, numerose ricerche hanno messo in evidenza che i parlamentari (non solo quelli italiani) si lagnano dello strapotere dell'esecutivo in termini di risorse tecniche che esso può mobilitare e utilizzare e alle quali non solo i parlamentari singoli, ma i gruppi parlamentari (anche di maggioranza) non sono in gradi di contrapporre che critiche di principio o su punti marginali. I parlamenti sono stati espropriati dalla "verticalizzazione" del potere, si dice. Già, ma non tutti. Nella fattispecie, questa espropriazione è avvenuta tanto più facilmente e tanto più profondamente laddove i parlamentari non erano e non sono in grado di procurarsi le risorse per controbattere il potere esecutivo. La grande influenza del Senato americano - un gigante fra i corpi rappresentativi - deriva direttamente dalla sua capacità di utilizzare imponenti e efficienti staffs in parte alle dipendenze dei singoli senatori, in parte delle Commissioni, in parte dell'intero corpo, e che forniscono informazi

oni tecniche alternative rispetto a quelle a disposizione del presidente.

Ecco, se si va cercando un'alternativa reale, plausibile e "migliore" del finanziamento diretto dei gruppi parlamentari italiani, è in questa direzione che va cercata. Cioè, nel potenziamento dei servizi del nostro Parlamento (già tecnicamente buoni, ma quantitativamente oberati di lavoro e perciò insufficienti e, spesso anche non in grado di coprire tutti i settori emergenti), quindi nell'ampliamento dello staff e nella possibilità di accesso a tecnici esterni e di miglioramento della preparazione complessiva di tutto il personale.

Se una delle più gravi carenze del sistema parlamentare italiano è la sua inadeguatezza a espletare la funzione di valutazione delle scelte politiche governative, dei loro risultati e delle loro conseguenze, e la funzione di controllo, non è dando più soldi ai gruppi parlamentari che il problema sarà risolto, ma migliorando per il Parlamento nel complesso e per i singoli gruppi la possibilità di accedere alle informazioni, alle controinformazioni necessarie e alle conoscenze tecniche sufficienti ad un buon "Policy-making" e ad un efficace controllo sull'Esecutivo.

Favorire la partecipazione

E' certo che i politici del "regime" hanno fatto molto conto sulla capacità di persistenza che ha ogni legge che venga approvata nel sistema politico italiano, tanto più quando eroga soldi. I partiti hanno pubblicato i loro bilanci su due quotidiani nazionali, come richiesto dalla legge, usando i dati aggregati che rendono estremamente difficile, se non impossibile, una reale comprensione del tipo di distribuzione dei fondi. Gli studiosi non si sono impegnati in una critica ravvicinata di questi bilanci e dei loro mutamenti nel tempo, per singoli partiti o in chiave comparata (3). E' vero che qualcuno è rimasto un po' sorpreso notando che le spese del personale per il PCI nel 1975 non sono neppure quattro volte quelle del PRI (4) e che le quote del tesseramento della DC sono alquanto lontane dal numero degli iscritti, ma un'analisi sistematica manca e, forse, sarebbe impossibile.

Quali siano stati gli effetti positivi del finanziamento pubblico, è difficile dirlo: aspettiamo dai loro sostenitori, i chierici del regime (tipicamente i consiglieri dei partiti), un'analisi elaborata. Ma, forse, mentre aspettiamo, è utile proporre torme alternative che premino la militanza e la partecipazione, l'impegno personale e dei gruppi e che portino la politica al livello cui appartiene: quello dei cittadini italiani, strappandola dalle grigie stanze dei funzionari di partito stipendiati dal regime.

NOTE

1) Sul punto, cfr. Roberto Crespi, "Lo Stato deve pagare i partiti?", Firenze, Sansoni e Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi, 1971.

2) Per un'elaborazione, cfr. Gianfranco Pasquino, "Contro il finanziamento pubblico di questi partiti", in "Il Mulino", XXIII (marzo-aprile 1974), pp. 233-255.

3) Fa eccezione il breve contributo di Giovanna Zincone, "Finanziare con giudizio", in "Biblioteca della Libertà", XII (maggio-giugno 1975), pp. 59-72; ma molto resta da fare (nonché da aggiornare).

4) Le cifre sono: PCI=1.229.262.691; PRI=356.955.000. Peraltro, per il personale comunista sono salite nel 1976 a 1.613.970.352.

le spese.

 
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