di Francesco RutelliSOMMARIO: "Alternativa Nonviolenta" apre il dibattito sul Partito Radicale e nonviolenza con un articolo di Francesco Rutelli. Si può dire che il Socialismo sia "dottrina dei fini" e la nonviolenza "dottrina dei mezzi"? Dai vent'anni di lotte radicali di disobbedienza civile al regime, una strategia di massa per l'alternativa socialista? Difesa popolare nonviolenta: funzionava, contro Hitler. Alcuni esempi, generalmente poco conosciuti.
(ALTERNATIVA NONVIOLENTA, 1· settembre 1977)
L'opzione collettiva di una strategia politica nonviolenta è evidentemente tutt'altra cosa che l'imperativo morale individuale a-violento. E' per l'appunto una scelta strategica fondata sul realismo politico "da qui e da ora" non caratterizzata da pregiudiziali morali ma, se si vuole, dalla moralità del progetto che configura: per noi, un socialismo basato sull'autodeterminazione dei fini e l'autogestione dei mezzi.
L'adozione di una strategia nonviolenta (che, dov'è possibile è preferibile, come afferma J.M. Muller, in quanto asseconda le fondamentali esigenze umane di dialogo ed a-violenza) non solo è funzionale alla trasformazione socialista della società: ne è anche la quotidiana prefigurazione, nella prassi, sotto forma di rapporti politici e sociali fondati sulla partecipazione e l'esercizio critico del consenso e del dissenso, non più della delega. E' dunque da considerare parziale sostenere che la nonviolenza sarebbe la dottrina dei mezzi e il socialismo la dottrina dei fini: è tempo di affermare da parte nostra, che il socialismo "o è nonviolento, o non è".
La nostra visione è alternativa rispetto alle deleghe al Partito-Principe che dovrebbe esprimere "l'assenza reale delle masse" e determinarne la presa del potere: l'allargamento del contropotere dei socialisti nonviolenti è già socialismo, nella sua organizzazione interna (altro che il proposito di inserire "elementi di socialismo" nel regime del capitalismo assistenziale!). Bisogna garantirsi che lo sia, quando fosse maggioritario, in termini di progetto di gestione sociale ed istituzionale. La nonviolenza, in definitiva, è la "qualità" del progetto socialista per quanti lottano per trasformare la società e, poi, l'autodisciplinata garanzia della gestione dal basso.
Affermava Gandhi in una famosa allocuzione: "Si dice che "i mezzi in fin dei conti sono mezzi". Io vorrei dire: "i mezzi in fin dei conti sono tutto". Quali i mezzi, tale il fine... La vostra convinzione che non vi sia rapporto tra mezzi e fine, è un grande errore (...).
Il vostro ragionamento equivale a dire che si può ottenere una rosa paintando un'erba nociva (...). Il mezzo può essere paragonato a un seme, il fine a un albero; e tra il mezzo e il fine è appunto la stessa inviolabile relazione che vi è tra il seme e l'albero".
La totale censura della scelta nonviolenta del Partito Radicale dimostra che a tutti i commentatori del regime risultava ben chiara l'omogeneità tra il nostro pacifico armamentario e le nostre posizioni politiche "estremiste".
Ma parliamo un po' di questo armamentario, che configura un'alternativa globale alla tradizionale politicanza: le azioni dirette nei confronti delle continue "provocazioni" della vita quotidiana; il dialogo e l'umiltà dei cartelli, delle file indiane che non bloccano il traffico, della conversazione con i poliziotti fratelli oppressi di classe e non fantocci da spazzar via; della proposizione di democrazia diretta dei tavolini di raccolta delle firme in mezzo alla gente; di quella politica che abbiamo definito "da marciapiede", e cioè dialogo, crescita comune, anche con l'avversario. Una politica governata dalla creatività e mai dall'improvvisazione, pena il fallimento. La scelta delle tattiche nonviolente, dall'incatenamento all'occupazione, dalla noncollaborazione allo sciopero della fame, necessita di un rigore estremo nella fase di preparazione-formulazione degli obiettivi, nella fase di discussione con la controparte, nella fase di attuazione: i successi di vent'anni di lotte radicali nonviolente trovan
o in questo rigore, in questo apparente minimalismo le loro ragioni. Secondo Pannella "l'uso scientifico della legalità borghese ne fa esplodere la contraddizione fondamentale: quella fra idealità che solo, ormai, il nuovo "terzo stato" proletario o proletarizzato può accogliere e affermare, e il potere che i partiti borghesi e interclassisti esercitano da rinnegati, nella direzione opposta, per serbarlo".
La discriminazione fra legalità e legittimità, e quindi le frequenti lotte illegali contro leggi ingiuste o direttamente contrastanti con il dettato della Costituzione ha portato il P.R. a quelle battaglie di disobbedienza civile che hanno marcato probabilmente gli unici punti vincenti da sinistra, in questi anni, in contrapposizione al regime democristiano. "La disobbedienza civile - afferma Giorgio Galli - è un canale alternativo di comportamenti collettivi in un sistema politico che blocca le istituzioni e riduce la democrazia ai discorsi domenicali dei ministri". E ancora, come afferma Pannella "nonostante le critiche e i tentativi di ridurre l'azione nonviolenta dei radicali e dei movimenti per i diritti civili a fatto folcloristico e prepolitico, possiamo affermare che il metodo nonviolento, oltre a dimostrarsi l'unica arma efficace a disposizione delle minoranze, si rivela come un elemento di forza per la gente comune, per la donna e l'uomo di qualsiasi età e di qualsiasi condizione. Se trasferite a l
ivello di massa queste forme di lotta potrebbero rovesciare il rapporto di forza fra le minoranze del privilegio che si valgono della violenza delle istituzioni e le masse democratiche così come si sono rivelate - e non a caso su una battaglia impostata dai radicali nonviolenti - il 13 maggio".
Eccoci dunque al momento cardinale della non-violenza: la disobbedienza civile, fondata su principi che Gandhi così ha sintetizzato: "Il governo non ha alcun potere all'infuori della collaborazione volontaria o forzata del popolo. La forza che esercita è il nostro popolo che gliela dà interamente. "Non sono tanto i fucili inglesi i responsabili del nostro asservimento quanto la nostra collaborazione volontaria".
La disobbedienza civile, cioè la sottrazione (anche illegale) del consenso a chi detiene il potere, prima di essere, come dicevamo più sopra, una autodisciplinata garanzia della gestione dal basso in una società socialista, è oggi una straordinaria carta da giocare per i movimenti di massa (potrebbe anzi stupire il successo delle lotte radicali condotte con forze esigue se non si tenesse conto del loro valore proprio di "battaglie di maggioranza): la scelta di agire in modo nonviolento sanciva infatti la grande affermazione delle lotte operaie del secolo scorso. Cantava la canzone: "...non a colpi di mitraglia il capitale vincerai. Per vincere la battaglia non avrai che da incrociar le braccia...".
Osserva a questo proposito Norberto Bobbio: "A differenza di Gandhi i movimenti marxisti hanno praticato la non-violenza ma non l'hanno teorizzata: al contrario essi hanno spesso teorizzato la necessità della violenza, usata per lo più in forma selvaggia dai loro avversari (che naturalmente non hanno avuto bisogno di teorizzarla)".
E' possibile che il Partito Radicale non riesca, in questi mesi, a dare una legittimazione di massa, ora che si trova isolato all'opposizione, alla sua politica socialista nonviolenta?
Io credo che alcuni segni lo facciano temere: dopo la grande vittoria "del corpo collettivo del Partito" nella lotta nonviolenta per l'accesso delle minoranze all'informazione televisiva pre-elettorale, la segreteria radicale aveva assai bene compreso che il regime avrebbe serrato le sue fila neo-concordatarie sul tema dell'ordine pubblico, e vi aveva individuato un fondamentale terreno di lotta su cui giocare le proprie carte controffensive particolarmente sul problema delle carceri. Ma questa "porta stretta" è stata mancata, "dal corpo collettivo del Partito", così come è stata mancata, sia pure contemporaneamente alla grande affermazione nonviolenta del progetto referendario, la mobilitazione sull'informazione per imporre in mezzo ai cittadini i contenuti dei referendum e mettere in crisi il cartello mafioso dei mass-media.
E' probabile che la carenza tra tutti noi radicali di riflessione e dibattito sui problemi della nostra strategia nonviolenta sia una delle ragioni decisive di queste gravi battute d'arresto. Io penso, d'altronde, rispetto ad alcuni compagni, che un lavoro di riflessione e dibattito sul Partito non ha senso se non è costruito omogeneamente ad una pratica quotidiana di azione nonviolenta. Nei partiti locali si fanno meno sit-in e manifestazioni volanti con i cartelli al collo proprio in questi mesi in cui se ne dovrebbero probabilmente fare dieci al giorno: l'identità stessa del Partito e le sue possibilità di radicarsi come riferimento politico indispensabile e di aggregare nuovo consenso, risiedono più che mai ora nella sua capacità di dialogo con la gente per mezzo della mobilitazione diretta.
Prassi e riflessione nonviolenta sono più che mai oggi inscindibili e necessarie, se il Partito vuole candidarsi e progredire come struttura di servizio per il progetto di una politica orizzontale dei cittadini che rilanci l'alternativa socialista contro la sempre più aggressiva verticalizzazione della vita politica e sociale.