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Bettinelli Ernesto - 20 settembre 1977
Referendum: i comunisti 24 anni dopo...
di Ernesto Bettinelli

SOMMARIO: Il Partito comunista che negli anni 1952/53 ha votato contro la "legge truffa", oggi, a seguito dei referendum dei radicali, presenta la legge di riforma dell'art. 75 della Costituzione - duramente contestata da Marco Pannella - per "eliminare la possibilità di un uso distorto e non meditato dell'istituto referendario; ...impedire che esso divenga mezzo per lacerazioni nel paese; ...non consentire il formarsi di fittizie ed esasperate contrapposizioni tra i cittadini e le istituzioni rappresentative che essi si sono date". Si pongono come "complici di Governo". L'entrata delle masse nel circuito decisionale ed il conseguente tentativo di trasformazione dell'istituto del referendum.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Agosto-Novembre 1977, n.3-4)

Nonostante siano trascorsi 24 anni, è ancora vivo il ricordo di una delle vicende più drammatiche ed esemplari della nostra storia repubblicana: quando tra la fine del 1952 e la primavera del 1953 la Democrazia cristiana volle imporre al Parlamento l'approvazione di una riforma elettorale per la Camera dei deputati, tale che l'assegnazione di un premio di maggioranza ai partiti centristi "apparentati" potesse perpetuare o addirittura consolidare nella seconda legislatura il blocco conservatore affermatosi il 18 aprile del 1948.

Chi ha dimenticato il feroce ostruzionismo delle opposizioni - e in prima linea del PCI - le quali reagirono presentando più di 1600 emendamenti nel tentativo di far cadere la proposta? Chi ha dimenticato le invettive dell'on. Paietta e compagni che giustamente parlarono (o più esattamente gridarono) di colpo di stato della maggioranza? Chi ha dimenticato i pugilati di palazzo Madama che costrinsero alle dimissioni dalla sua carica il presidente del Senato, Giuseppe Paratore?

Quel provvedimento, definitivamente approvato il 23 marzo del 1953, fu immediatamente denominato "legge truffa", proprio perché costituiva una violazione della "convenzione proporzionalistica" già pattuita in sede di Assemblea costituente e, quindi, delle "minime" regole del gioco che in quel periodo di paralisi costituzionale consentivano il confronto tra forze politiche decisamente poco omogenee. La sottorappresentazione delle minoranze fu anche valutata dalla dottrina di sinistra come "costituzionalmente illegittima" (in palese contraddizione con il principio della sovranità popolare), nel momento in cui si ridimensionavano le opportunità di azione e di presenza politica dei partiti non governativi.

I pugilatori di ieri, i nuovi puristi di oggi, deprecano le "chiassate" dell'on. Pannella contro la proposta di legge (n. 1578 del 1977) dagli stessi presentata per "modificare" la legge n. 352 del 1970 di attuazione dei referendum previsti dalla Costituzione. Il fine dichiarato del progetto è "addirittura" quello di rivedere le norme oggi in vigore per renderle "maggiormente conformi al nostro sistema costituzionale". Occorre "inoltre": "eliminare la possibilità di un uso distorto e non meditato dell'istituto; ...impedire che esso divenga mezzo per lacerazioni nel paese; ...non consentire il formarsi di fittizie ed esasperate contrapposizioni tra i cittadini e le istituzioni rappresentative che essi si sono date" (dalla relazione alla proposta).

Insomma, una vergognosa truffa.

La truffa

"Vergognosa": perché il progetto in questione non proviene dai settori della destra politica o dalla DC, ma da un partito della classe operaia che negli anni 50 e 60 aveva innalzato i suoi vessilli in difesa della democrazia e per la realizzazione delle garanzie costituzionali, reclamando l'attuazione dell'art. 75, in quanto forma di esercizio della sovranità popolare. Sulla stessa linea il PCI si è attestato fino al 1970 in occasione dell'approvazione della legge n. 352, su cui votò contro, in quanto quel testo fu valutato troppo "restrittivo" e tale da concretare un disconoscimento della sovranità popolare (Malagugini).

"Truffa": perché la proposta comunista (quasi simbolicamente depositata alla Camera il 30 giugno del 1977, giorno in cui i radicali hanno consegnato in Cassazione il pacchetto di 700 mila firme per ognuna delle otto richieste di referendum), ove passasse, comporterebbe nella migliore delle ipotesi (data la sua efficacia retroattiva) lo slittamento dei referendum al 1979 Stefano Rodotà ha osservato come "si tratterebbe di un cambiamento delle regole del gioco a partita iniziata: un modo di procedere costituzionalmente discutibile che darebbe la sensazione sgradevole di una sopraffazione del più forte a danno del più debole ("Paura dei referendum", Panorama, 13 settembre 1977, 39). Proprio la stessa logica del 1953.

Ma vediamo analiticamente i punti principali, i più gravi, del testo comunista, atti a colpire a morte il diritto costituzionale dei cittadini di richiedere il referendum abrogativo e, quindi, di pronunciarsi attraverso questo strumento di democrazia diretta: 1. Si toglie ai promotori la facoltà di scegliere, una volta comparso sulla "Gazzetta Ufficiale" l'annuncio dell'iniziativa, l'arco di tempo (tre mesi) utile per la raccolta delle firme;

2. Non è possibile chiedere referendum abrogativo di leggi ove non siano decorsi tre anni dalla loro entrata in vigore;

3. Si ritardano le operazioni di indizione del referendum - che può scivolare anche di un anno - quando vengono depositati alle Camere provvedimenti legislativi riguardanti le materie oggetto delle richieste di referendum;

4. Il referendum non viene indetto, e se è già stato indetto lo si congela, nel caso il Parlamento decida di sospendere l'efficacia della legge oggetto del referendum stesso;

5. Il referendum non ha più corso se la legge cui esso si riferisce viene non più solo abrogata, ma anche semplicemente "sostanzialmente modificata" (al limite in senso peggiorativo). E sono le sezioni unite della Cassazione che in via definitiva decidono quando l'ipotesi si verifica.

Nel malaugurato caso il referendum riesca a superare uno degli sbarramenti sopra descritti (ma sarebbe cosa diabolica) si vogliono introdurre tutta una serie di cautele idonee alla conferma della legislazione vigente. Infatti:

a) in sede di computo di voti le schede bianche vengono equiparate ai "no";

b) la consultazione popolare si svolge in una sola giornata;

c) l'eventuale abrogazione ha effetto solo a decorrere dal 90º giorno successivo a quello in cui è stato pubblicato sulla "Gazzetta Ufficiale" l'esito della votazione.

Una democrazia limitata

Pare inutile, anche in questa sede, riprendere il discorso tecnico-giuridico a dimostrazione della palese illegittimità di queste innovazioni che si vorrebbe introdurre con legge ordinaria. Giova piuttosto soffermarsi sul significato politico dell'iniziativa del PCI, nel momento in cui questo partito diffonde il suo "programma a medio termine" per il rinnovamento della società italiana e, quindi, da "complice di governo" ambisce a divenire `protagonista' di governo. Quale è il contesto istituzionale e costituzionale entro cui i comunisti vogliono assumere un ruolo dirigente, anche sul piano formale? Il sistema di democrazia progressiva, partecipata, diffusa, mista, semidiretta, come lo si preferisce definire, è ancora adeguato alla strategia comunista?

Ritorna in altri termini il tema dell'"egemonia". E questa volta non tanto con saggi o con altre dotte elucubrazioni teoriche, "ma con le cose": con questo progetto di legge. Direi che Norberto Bobbio comincia finalmente ad avere delle risposte "concrete" ai suoi interrogativi. Proprio perché il rapporto tra maggioranze e minoranze, il problema del controllo e delle garanzie di cui queste devono poter disporre, nella prospettiva di un'alternanza o di un ribaltamento di governo, è il nodo che il PCI dimostra di non aver sostanzialmente sciolto. Ma non basta il Parlamento, non bastano i partiti, non bastano le elezioni assicurate ogni cinque anni? No, non bastano. I tempi della democrazia liberale (quando al limite era corretto parlare di "classe politica", data la sua identificazione con il ceto che in via esclusiva deteneva le risorse economiche) sono irrimediabilmente superati. Oggi - come amano ripetere gli esegeti neomarxisti - sono entrate le masse nello stato. E sono entrate con i loro bisogni di partec

ipazione e di contrapposizione non precostituite, con le loro esigenze di alternative (al plurale).

In un periodo come questo, di larghe coalizioni (la maggioranza astensionista sfiora il 90 per cento), anche se l'indirizzo politico non nasce da un disegno coerente ed omogeneo concordato tra le forze consociate, ma piuttosto pare la somma di schizofreniche transazioni, il referendum è uno strumento fondamentale di controllo sull'attività o sull'inattività della maggioranza parlamentare. La quale, data la sua consistenza e data la natura del compromesso (l'emergenza o l'impossibilità di altre formule) facilmente può evadere - come la cronaca parlamentare quotidianamente ci conferma - da tutti i controlli ispettivi "interni" alle sedi rappresentative. Né la struttura degli organi di informazione pubblica e privata è oggi tale da poter colmare concretamente un tale vuoto. Dunque, come si è già altrove scritto, l'unica sostanziale opportunità per le minoranze, per le opposizioni, di entrare nel "circuito decisionale e politico" consiste nella libertà di attivare i controlli "esterni" che non permettono di escl

udere il confronto.

Per questo il referendum non piace, o meglio non piace più. Lo si vuole trasformare: ha da essere semplicemente uno "stimolo" nei confronti del legislatore (cioè della maggioranza). L'iniziativa abrogativa popolare non deve in nessun caso compromettere l'equilibrio tra le forze di governo che, sole, devono avere il potere, eventualmente, di decidere i tempi e i modi per un rimescolamento delle carte. Quindi, un pluralismo "condizionato".

Non è un caso che i comunisti (e, va da sé, gli altri consociati, con l'endemica incertezza dei socialisti) siano sconvolti dai referendum proposti dai radicali sulle leggi repressive o autoritarie ereditate dal regime fascista, su quelle conseguenti prodotte dal regime democristiano e sulla legge introduttiva del finanziamento pubblico e diretto dei partiti politici (la cui approvazione "concordata", nel 1974, ha segnato l'entrata formale del PCI nel sistema). Un simile ventaglio di referendum mette in discussione tutto: dalla concreta gestione del potere in questi trent'anni di esperienza repubblicana, all'attuale indirizzo istituzionale. Più in particolare: il PCI dovrebbe ad esempio spiegare agli elettori (meglio, alle masse) perché nel 1975 ha votato contro la legge Reale e nel luglio di quest'anno ha consentito all'emanazione dell'incredibile legge di "integrazione" 8 agosto 1977 n. 535 che ha reso ancora più odiosa la normativa sull'ordine pubblico.

Certo, l'abrogazione di testi come i codici militari di pace, la legge manicomiale, le norme sui reati d'opinione, le norme concordatarie etc. crea delle "smagliature" in un ordinamento a "democrazia limitata". Ma è una premessa necessaria per la costruzione di una società socialista e libertaria.

Si ritorna, in ultima analisi, al '45-'47 , al dibattito sulla "rottura" o sulla "continuità" che vide da una parte gli azionisti e dall'altra i comunisti di Togliatti. Ed è un dibattito che inevitabilmente conduce alla drammaticità delle scelte (quando oggi i comunisti propongono per le elezioni amministrative di novembre una campagna "senza asprezze") e alla evidente necessità di schieramenti alternativi. Ciò che sul piano teorico comporta la riconquista dell'idea della democrazia come "sistema di alternanze".

Il ruolo e la risposta dei radicali, in questa situazione, caratterizzata dai tentativi in atto di chiusura istituzionale, è evidente. Aggrapparsi alla Costituzione, riproporre il modello di un sistema di libertà e di garanzie. Appropriarsi di istituti marginali, di "scampoli", come le petizioni, rivalutarli, trasformarli in strumenti di informazione e di mobilitazione di massa per la difesa della Costituzione e dei referendum. Raccogliere in un mese un milione di firme.

Sta a vedere che il topolino riesce a ricordare all'elefante che il 1952-53 è stato proprio un brutto inverno!

 
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