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Teodori Massimo - 20 settembre 1977
RADICALI E "QUESTIONE SOCIALISTA"
di Massimo Teodori

SOMMARIO: L'importanza della questione socialista in Italia. L'azione radicale è fondamentale. Con le "vocazioni liberali" della DC e del PCI e con l'immobilismo del PSI si ha la funzione alternativa dei radicali. Craxi segretario del PSI. Compromesso storico tra DC e PCI. Il PR è in fase ascendente, con le sue battaglie è "il partito dell'alternativa" socialista. Il PSI ha tentato un nuovo programma ideologico di differenziazione con il PCI, non riuscendovi. Il PCI tenta di limitare la democrazia modificando la legge referendaria. PSI e PR dovrebbero far convergere le loro posizioni al di fuori del regime "corporativo" dei partiti per creare un "partito del movimento ".

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Agosto-Novembre 1977, n.3-4)

Che oggi più che mai la "questione socialista" (l'esistenza cioè di una adeguata forza socialista in Italia ed il suo ruolo) rimanga essenziale per la democrazia italiana, è una una affermazione che non ha bisogno di essere dimostrata L'essenzialità della forza socialista ha le sue ragioni d'essere sia nelle caratteristiche del sistema politico e degli equilibri tendenzialmente sempre più bipolari che esso va assumendo, sia nei contenuti e, più in là, nei valori di fondo che sono propri, per tradizione e per patrimonio ideologico, al movimento socialista e democratico come diverso e autonomo dalla famiglia politica comunista con le sue valenze notevolmente estranee ad un rapporto partito-stato-società civile non improntato al totalismo gestionario.

L'importanza politica della forza socialista, prima ancora che per il peso elettorale e quantitativo, è dunque cruciale sia per il paese che per le battaglie radicali e l'ipotesi di fondo che queste rappresentano. E ciò pur senza volere identificare necessariamente l'avvenire della democrazia del paese, in un momento come l'attuale, con l'azione radicale: un'identificazione che non sarebbe illegittima anche se potrebbe apparire presuntuosa dal momento che non tiene in considerazione il complesso di fenomeni di antagonismo democratico presenti nella società italiana con movimenti sociali, di opinione, di classe e comunque militanti. E' stato fin troppo scritto e ripetuto da diversi orizzonti che, per il paese nel suo insieme e per il sistema politico che lo rappresenta a livello istituzionale, la combinazione delle vocazioni illiberali della DC e del PCI, insieme alla esplicazione dell'altra vocazione delle due forze convergenti, quella della gestione del potere, può essere, anzi è di già, portatrice di soluz

ioni autoritarie, o comunque consensuali, a tutto scapito della democrazia politica, intesa proprio nel senso classico del termine Di qui - se pure ci fosse bisogno di altri motivi - il ruolo delle forze esterne ai due colossi, come garanzia minima del mantenimento del gioco democratico nel paese. Su questo aspetto si sono soffermati con ampiezza di argomentazioni i grandi organi di stampa che pure non sono ostili agli accordi di potere che si stanno effettuando all'ombra del compromesso storico, come il "Corriere della Sera" e come "La Repubblica" con i suoi rimpianti per l'inesistenza socialista.

Per le battaglie radicali, del resto, è fuor di dubbio che l'esperienza di questo ormai lungo quindicennio (e non si può e non si deve dimenticare che lungo un siffatto arco di tempo si è svolta la guerriglia radicale) ha dimostrato come esse siano state raccolte e fatte proprie da settori del paese ben più larghi di quelli identificatisi con la minoranza radicale; e, tra questi, abbastanza puntualmente si sono ritrovati settori socialisti sensibili ai diritti civili, e più in generale alle proposte di tipo socialista-libertario a cui l'azione radicale è stata improntata. Quando parliamo di settori socialisti intendiamo qui sia l'opinione individuale ed aggregata dei militanti ed elettori socialisti, sia, non di rado, gli atteggiamenti di alcuni elementi dirigenti o preminenti del partito, nonostante le posizioni ufficiali del PSI.

E' per ciò che non è arduo ipotizzare, ancora una volta, nella nuova situazione determinatasi con l'accordo a sei, che l'elemento di maggiore sensibilità democratica nella sinistra storica può venire - ma non necessariamente e automaticamente verrà - dai socialisti come sostegno delle posizioni "radicali" o magari come internaziolizzazione di posizioni di resistenza democratica all'interno del partito. Di ciò parleremo più avanti.

II logoramento socialista

Il consumo della posizione socialista - come è ben noto - data dal centro-sinistra, dalla politica condotta dal PSI di acquiescenza all'immobilismo democristiano e, soprattutto, dai comportamenti socialisti in fatto di sottogoverno e dalla configurazione assunta dal PSI, come tratto dominante, di partito clientelare legato alla gestione di fette di sottopotere, centralmente e localmente. Dopo il logoramento del centro-sinistra, con i primi anni settanta, in PSI inventò, ad opera principalmente della gestione De Martino e della sua politica immobilista, la teoria dei cosiddetti "equilibri più avanzati" una formula fumosa e buona per tutti gli usi, ma che in sostanza introduceva il concetto della necessità della partecipazione comunista alla gestione del potere accanto a quella democristiana e socialista, la quale ultima doveva prolungarsi dal centro-sinistra alla nuova situazione. Dell'avanzamento generale della sinistra nelle elezioni regionali del 15 giugno 1975 (oltre 7 punti in percentuale nel complesso)

si giovò anche il PSI che passò dal 9,6% del 1972 al 12,0%: era un indizio che quella liberazione di simpatie e di voti, che si era verificata verso sinistra con la prova referendaria del 1974 su un tema di diritti civili, poteva indirizzarsi non solo sulla forza più corposa e che suscitava più aspettative nel paese (il PCI) ma anche verso il PSI (e verso i gruppi della nuova sinistra allora coalizzati per la prima volta in Democrazia proletaria) purché i socialisti fossero in grado di fornire significativi segnali di rinnovamento politico al paese e di mutamento di quella immagine che si era configurata con il governismo ad oltranza del centro-sinistra. Ma le elezioni politiche del 20 giugno 1976 rigettavano indietro il PSI al 9.6% la percentuale più bassa di tutta la sua storia elettorale considerando anche il fatto dell'enorme avanzata comunista e della sostanziale vittoria della sinistra diversamente da quanto era accaduto nel 1972 con la destra all'attacco.

Subito dopo la sconfitta elettorale ci fu il mutamento del Midas, con il cambio della guardia al vertice del partito, l'accantonamento di De Martino, la presa del potere dei "quarantenni" (Manca, Signorile, Landolfi) l'elezione di Craxi a segretario sull'onda di quella che nei momenti in cui era avvenuta e per la mancanza di scontro politico e programmatico, non poteva che considerarsi come una vera e propria rivolta di palazzo. Se il regime dei vecchi notabili subiva un duro colpo (dopo quelli di De Martino venivano ridimensionati anche l'influenza e il potere di Mancini), la nuova classe dirigente si configurava anch'essa come un nuovo equilibrio di potere di giovani notabili, molto più efficaci e dinamici dei vecchi ma sostanzialmente occupati in operazioni interne senza riuscire a dare al paese un'immagine nuova e comportamenti radicalmente diversi da quelli attraverso i quali la pubblica opinione si era abituata a guardare ed a considerare il PSI. E tutto ciò pur in presenza di alcune significative cont

raddizioni di un partito privo o quasi di un'incisiva presenza nella vicenda nazionale (iniziative nel paese, confronto tra i partiti attività parlamentare) e percorso da sussulti alla base, di cui i due segni più significativi erano il ricambio con il gran numero di giovani nei comitati direttivi delle federazioni e l'insorgenza della base romana con l'occupazione della direzione di Via del Corso come reazione all'atteggiamento di Rumor dalla messa sotto accusa per il caso Lockheed.

La subordinazione socialista al compromesso storico

Con il governo della non-sfiducia di Andreotti i socialisti si erano fatti promotori, all'inizio della primavera di quest'anno, di incontri per passare da equilibri parlamentari instabili ad un governo di emergenza con la partecipazione di tutti i partiti del cosiddetto "arco costituzionale" inclusi i comunisti. Dopo le ben note e snervanti trattative, durate alcuni mesi l'accordo programmatico che ne sortiva in luglio vedeva proprio il PSI in posizione marginale tra i due protagonisti, la DC di Moro ed il PCI di Berlinguer

Da un canto il PCI dichiarava di aver ottenuto un successo: quello cioè di aver fatto cadere la pregiudiziale contro di esso e di essersi seduto allo stesso tavolo con la DC. Tale l'immagine che i comunisti hanno tentato e tentano tuttora di accreditare, pur se ogni giorno è avanti agli occhi di tutti il logoramento progressivo del PCI come partito capace anche di trattare con forza (dalla sua prospettiva) con la DC e il mondo moderato. D'altro canto per il PSI la sconfitta della trattativa con la DC andava ben al di là di quella comunista. Mentre per questi si è trattato di pagare quello che hanno affermato essere un prezzo necessario per l'ammissione nella cittadella del potere, per i socialisti (dalla loro stessa prospettiva e non già dalla nostra) l'aver preso l'iniziativa di muovere le acque per divenire "centrali" in un qualche nuovo accordo di governo, sortiva l'effetto opposto di renderli sempre più "marginali", se non addirittura "emarginati".

Ma per noi a cui non interessa il grado di capacità contrattuale all'interno di una società politica corporativizzata (in cui i partiti che reciprocamente si riconoscono come legittimi misurano la propria forza dai risultati che ottengono rispetto alle altre parti contraenti), ma il rapporto tra forze politiche e società civile ed il grado di innovazione che esse riescono a trasmettere nelle istituzioni per rispondere alla domanda politica e sociale, la chiave per interpretare la crisi socialista (crisi di identità, crisi di strutture, crisi di comportamenti) è un'altra.

L'influenza nel sistema politico e la capacità di attrazione nel paese dei socialisti non solo non sono aumentati dopo il cambio della guardia del Midas, ma hanno continuato a diminuire giacché alle preoccupazioni di una presenza nel sistema corporativizzato e di contrattazione tra i partiti hanno corrisposto mancanza di iniziativa politica e comportamenti timidi e contraddittori su molti temi qualificanti. Ormai il paese ha imparato a valutare, ed a ragione, le forze politiche per quello che fanno piuttosto che per quello che dicono. All'etichetta alternativistica, presentata a ripetizione dagli esponenti socialisti, non hanno corrisposto azioni e comportamenti conseguenti che potessero dare credibilità, almeno in linea di ipotesi, alle parole pronunziate come se si trattasse di presentare con una nuova confezione lo stesso prodotto. Di "alternativo" nel PSI, dopo il congresso del febbraio 1976 che si era unanimemente ed affrettatamente pronunciato in questo senso, non c'è stato granché: né la politica, né

i programmi, né il modo di agire, né i rapporti con la realtà sociale, né quelli con i partiti. E la stessa opposizione al compromesso storico, anch'essa enunciata a ripetizione prima e dopo il perfezionamento dell'accordo a sei (dichiara Craxi a "Le Monde" del 4-5/IX/1977: "il compromesso storico non si realizzerà. Una tale alleanza non sarà sostenuta né dalla DC né dal PCI. Se il compromesso storico si realizzasse, esso costituirebbe una grave minaccia che nessuno avrebbe interesse a sottolineare"), non si materializzava in atteggiamenti concreti.

I socialisti, nella stagione che ha segnato la svolta politica del paese con la fine delle opposizioni e il prender forma della "democrazia consociativa" mostravano sì qualche resistenza al modo (davvero nuovo, questo sì!) di governare con l'astensione sulla legge 382 e sul regolamento di disciplina militare (differenziandosi dai comunisti) ma poi, su temi altamente simbolici oltre che importanti, come quelli della moralità e della lottizzazione, davano irrimediabilmente una prova di sé ancora ispirata al clientelismo di altri tempi. Così accadeva dapprima con quella clamorosa astensione per Rumor sul caso Lockheed, e poi per la lottizzazione delle nomine bancarie (direzione del Monte dei Paschi di Siena e aperta rivendicazione di Signorile dell'intervento centrale dei partiti) e radiotelevisive e, più di recente, con l'episodio dell'assessore ai tributi di Venezia, Mineo (che aveva impostato un'azione fiscale moralizzatrice), revocato a forza dalla delega municipale da parte del locale gruppo socialista di

potere facente proprio capo ad uno degli esponenti di punta della nuova guardia, Gianni De Michelis, boss del Veneto e duro gestore dell'organizzazione di massa del PSI in Via del Corso.

La forza socialista quindi, nella materialità del suo modo di essere e di agire dell'ultimo anno in cui si sono succeduti eventi così cruciali per il partito e il paese (cambio della guardia alla testa del PSI, nuovo assetto di potere nel parlamento e nelle istituzioni) si presenta in una posizione di stallo, di politica contraddittoria e sostanzialmente subordinata, e quindi con un'influenza calante. Insomma sia la realtà che l'immagine del PSI (un dato significativo è il netto declino delle iscrizioni nel 1977) non permettono di prevedere per il momento inversioni di tendenza, rinnovamenti, riprese o, come si diceva qualche tempo fa, "rifondazioni". Il corso politico del PSI, se è possibile formulare scenari per il prossimo futuro, è destinato ad un declino, o al massimo ad una stabilità marginalizzata ben lontana da quella ipotesi di "riequilibrio della sinistra", ritenuta necessaria per invertire il destino subordinato della sinistra ed il suo abbraccio suicida con la DC.

A che punto è il Partito Radicale?

E' qui che si propone con forza la "questione radicale": capire cioè con chiarezza in che misura ed entro quali limiti la emergente forza radicale può farsi carico dello spazio socialista, e come tale processo possa avvenire. Non si tratta di formulare ipotesi propagandistiche e tantomeno ipotesi fantapolitiche, ma di individuare possibili scenari per il prossimo futuro, che diano luce all'azione radicale ed alla prospettiva democratica, socialista e libertaria nel nostro paese, senza essere racchiusi nella tattica e nell'urgenza dell'azione immediata o essere rinviata ai futuribili di un tempo tanto lontano quanto mitico. Si possono intanto schematizzare alcune tendenze difficilmente contestabili.

"Primo", il Partito Radicale è in fase ascendente per peso politico, per capacità di attrazione, per dimensione di consensi. E' questa una semplice constatazione avvalorata dal numero degli iscritti, dalla campagna per la raccolta delle firme per gli otto referendum e dal numero dei militanti in essa coinvolti. Non è questo il luogo per un'analisi dettagliata delle ragioni del successo radicale, ma certamente la validità del metodo, il contenuto delle battaglie e la fine delle opposizioni della sinistra tradizionale sono tutti fattori che convergono nel determinare la crescita radicale, malgrado lo strangolamento che la democrazia consociativa sta mettendo in atto nei confronti delle forze e delle posizioni non allineate.

"Secondo", come già nel recente passato, i radicali sono in grado di aggregare intorno a singole battaglie schieramenti popolari e politici a dimensione molto più grande e comprensiva del loro peso e della loro influenza politica organizzata. A breve scadenza il prossimo terreno di confronto in cui si misurerà una tale capacità sarà la battaglia in difesa della Costituzione, condotta attraverso la difesa dell'istituto referendario e di ciò che esso rappresenta nella concezione della democrazia italiana.

"Terzo", la capacità di espansione della forza radicale, in quanto tale, ha dei limiti storici. Non è realistico pensare che a breve scadenza il Partito Radicale divenga "il partito dell'alternativa" socialista, o della forte componente socialista della sinistra, mentre è prevedibile che rafforzerà il suo ruolo di "partito dell'opposizione". Poco importa se il suo peso organizzato ed elettorale sarà dell'ordine di alcuni punti in percentuale, giacché il suo peso politico sarà determinato proprio dal ruolo che esso impersonerà, e cioè di forza minoritaria e dinamica capace di far vivere in concreto i valori ed i contenuti della posizione socialista, democratica e libertaria, in una situazione nella quale il socialismo non comunista e non gestionario tende ad essere schiacciato e con esso tutti i residui liberali della democrazia italiana. Pur ipotizzando che il PR consegua alle prossime elezioni un 3 o 4% dei voti (e l'ipotesi non è poi così fantastica) con un salto mai fatto da nessuna altra forza politica i

taliana, ciò non è certo sufficiente a farne il nuovo partito socialista della alternativa.

Il nodo di fondo della riqualificazione della sinistra nei suoi sbocchi partitico-istituzionali in una strategia di alternativa al blocco moderato-conservatore resta quindi non solo la presenza dinamica e crescente di una forza minoritaria (che è condizione necessaria ma non sufficiente) ma la presenza/formazione di una nuova forza socialista con peso, dimensione, capacità di gestione alternativa che comprenda ed erediti appieno il patrimonio del movimento socialista e di ciò che esso ha rappresentato in termini di politica democratica di classe. Il Partito Radicale può aspirare ad essere la forza che mette in moto processi di ampia portata ed effettua un'azione di supplenza alla dimensione socialista soprattutto nella situazione consociativa d'oggi (anzi è la funzione che di già in questi tempi svolge al massimo delle proprie capacità e possibilità data la forza che esso rappresenta), ma non può realisticamente pensare a breve scadenza di divenire esso stesso la forza sostitutiva dell'intera famiglia social

ista del movimento operaio italiano.

Significato e limiti del "programma socialista"

In queste settimane alcuni socialisti stanno preparando una nuova carta programmatica quasi per ridefinire il ruolo e l'identità del PSI. Il tentativo di una piattaforma programmatica non è del partito, ma del segretario Craxi che ha affidato ad un gruppo di lavoro la stesura del programma socialista. E' ancora incerto, nel momento in cui scriviamo, se tale tentativo andrà in porto e se il partito riuscirà ad accettare, al di là delle perduranti lotte interne per il controllo del partito, l'iniziativa craxiana di dare un nuovo volto formale alla casa socialista. Un tale tentativo programmatico è tuttavia diverso, nelle intenzioni e nel modo in cui viene attualmente realizzato, dalla richiesta che una parte della pubblica opinione qualificata ed attenta alle vicende socialiste ha avanzato nei mesi scorsi, e di cui la voce più autorevole è stata quella di Giorgio Galli, che dalle colonne di "La Repubblica" ha chiesto un programma socialista come base di trattativa per un programma delle sinistre: cioè di quel

47% che dovrebbe pretendere di contare, sulla base di una piattaforma comune, più del 38% della Democrazia Cristiana. Galli e i sostenitori di un programma comune della sinistra si riferiscono ad un programma di azione (e non di principi e di posizioni teoriche) rivolto al paese per contrastare su basi chiare il predominio democratico-cristiano; Craxi, invece, lavora probabilmente sull'ipotesi di dare un volto socialdemocratico-europeo al PSI al fine di impiantare una polemica con il Partito Comunista, per mezzo della quale riguadagnare un'identità differenziata a sinistra. Che queste siano del resto le intenzioni del segretario socialista lo si comprende appieno dal tipo di polemica con i comunisti che in queste settimane di settembre sono apparse ripetutamente nella stampa e che sono enunciate proprio nella significativa intervista a "Le Monde" apparsa il 5 settembre. In risposta alla domanda se fosse in corso una polemica con i comunisti, Craxi ha affermato: "Facciamo polemica soprattutto su dei "problemi

ideologici" (corsivo nostro) che possono parere astratti, ma che nei fatti influenzano direttamente la vita politica, sociale e culturale... Noi siamo necessariamente molto esigenti nei confronti della evoluzione dei comunisti. Proponiamo un'alternativa strategica per la sinistra, ma una tale strategia non avrebbe alcuna possibilità di successo se non si facesse il massimo di chiarezza sui "principi"..."

Polemica ideologica, quindi, differenziazione sui principi: un terreno che potrebbe essere certo un risvolto importante e qualificante se, accanto ad esso, anzi prima di esso, ci fosse una reale autonomia di iniziativa e di atteggiamenti politici socialisti, portatori questi di una carica polemica e critica, nei confronti della strategia consociativa e gestionaria del PCI a partire da atti significativi nelle istituzioni e nel paese. Invece, come non mai, appare chiaro che, pur in presenza di una buona volontà che si manifesta appunto nel tentativo craxiano di manifesto socialista, la realtà politica socialista rimane quella della piena partecipazione ad atti di governo e di parlamento, ad una presenza sindacale e sociale che non riescono a distinguersi significativamente da quelle comuniste e dall'accordo unanimistico con la DC in qualcosa che - è ormai ben chiaro - non ha neppure la dignità e la forza del "governo di emergenza" proposto all'indomani del 20 giugno 1976.

Un programma, o meglio un manifesto socialista che, come dice Craxi, dimostri che i socialisti "non sono né ragionevoli né unitari come lo intendono i comunisti" è pura "sovrastruttura" rispetto al fatto centrale della politica d'oggi delle forze della neo-esarchia, ed in particolare, al suo interno, della DC e del PCI. Che in nome e sull'onda della spinta francese e della tradizione socialdemocratica centro e nord-europea, Craxi polemizzi con i comunisti sui diritti umani nell'Est Europa non muta una virgola del fatto che il PSI non è presente ed attivo sulla violazione dei diritti civili nel nostro paese e sulla lenta trasformazione in senso autoritario e consociativo delle istituzioni della democrazia italiana. Che Craxi reintroduca nell'agone politico la polemica del revisionismo socialista rifacendosi a Kautsky e Bernstein e si faccia forte della lezione della storia nei confronti dei fallimenti leninisti e bolscevichi in occidente non ha alcun peso se poi, in parlamento o negli enti locali, nelle parte

cipazioni statali o nelle banche, alla rai-tv ed in qualsiasi altro ganglo della società italiana, gli atti socialisti sono della stessa qualità di quelli comunisti: finiscono cioè per essere entrambi improntati alla occupazione lottizzante e partitico-gestionaria del potere a tutto scapito dei maggiori gradi di espressione di una società pluralistica di cui pure, da parte socialista, vengono riaffermate caratteristiche diverse dalle concezioni organicistiche del PCI. Comunisti e socialisti sono oggi concretamente simili nella gestione burocratica del rapporto stato-società e istituzioni-partiti riconducibile per ambedue i partiti alla (pur grande) tradizione burocratica centralizzatrice che nel momento in cui diviene maggioritaria e si incontra con l'occupazione del potere democristiana e con essa divide la gestione politica dello stato e del governo, inevitabilmente assume connotati totalistici

Una stagione determinante: l'istituto del referendum

La stagione politica di questo autunno 1977 presenta scelte cruciali alle forze della sinistra, banco di prova della possibile trasformazione dell'accordo a sei in un vero e proprio regime, tendente a chiudersi in se stesso e ad assumere connotati formali sottilmente autoritari. Un autoritarismo che non è certo quello dei "gulag" su cui si fanno facili quanto sterili esercitazioni da parte degli intellettuali nostrani e d'oltralpe ma di tipo assai più pericoloso ed insidioso: quello cioè delle trasformazioni istituzionali e legislative che restringono progressivamente i margini della democrazia liberale e tendono sempre più a schiacciare il dissenso e l'opposizione sulla sponda criminale. Sappiamo che il PCI è disponibile ad andare in fondo sulla strada della "democrazia controllata", come ha dato più di una prova da qualche tempo in qua. I socialisti finora sono stati prigionieri della logica dei "quadro politico" e ad essa hanno subordinato l'opposizione, chiara e netta, a provvedimenti che si muovono in q

uesta direzione nel campo dell'ordine pubblico (carceri, detenzione di armi, estensione dei reati dalla responsabilità singola a quella delle organizzazioni di appartenenza, arresto di polizia...), ed in quello, parallelo e complementare, delle istituzioni. A quest'ultimo terreno appartiene il progetto di revisione delle norme in materia di referendum (vedi editoriale di Ernesto Bettinelli) proposta dai comunisti ed appoggiata da democristiani e socialdemocratici e sul quale i socialisti non si sono ancora pronunciati. Rivedere la legge referendaria per abrogarla di fatto così come vuole il PCI, significa stravolgere la Costituzione abolendo il controllo popolare sull'attività (o inattività) parlamentare, abolendo i margini di democrazia diretta che in essa sono previsti e, con un effetto ben più grave e immediato, "cambiare le carte in tavola mentre si sta giocando", a proposito degli otto referendum radicali insieme con il referendum pendente sull'aborto. Ciò costituirebbe davvero un "colpo di stato", ed u

n passo qualitativamente di grande portata sulla strada del regime partitocratico e controllato.

Ci si deve allora domandare che cosa farà il PSI. Nelle sue mani riposa il destino prossimo della democrazia italiana, in ragione del sostanziale "diritto di veto" che come partito della esarchia ha nei confronti delle trasformazioni concordate dalla maggioranza parlamentare. Ad oggi, non sappiamo se esso sarà acquiescente ed accetterà definitivamente la logica del regime del compromesso, per convinta adesione o anche per inerzia ed omissioni di intervento, oppure se reagirà e si farà parte attiva di un movimento di opposizione.

Su questa prova i radicali chiamano i socialisti a uscire allo scoperto. Non già per salvare i "propri" referendum, ma per salvare, insieme con questi, le residue possibilità di iniziativa democratica della società civile, di quello che retoricamente si chiama il "movimento".

Sceglieranno i socialisti il "partito del movimento", cercando di riprendere i contatti con le sue spinte, pur diversissime le une dalle altre, o accetteranno il ruolo di gestori del nuovo ordine?

Tale scelta non sarà "una tra le tante" ma "la" scelta determinante sul terreno su cui probabilmente la stessa sorte del PSI si giocherà, sia nel rapporto di partito con le aree liberali e le spinte riformatrici del paese, sia di forza ormai minoritaria che accetta o meno di assolvere un ruolo definitivamente subordinato.

Lo "spazio" socialista è nel movimento

Abbiamo all'inizio osservato come la "questione socialista" sia cruciale per la democrazia e la sinistra italiana: e quest'ultimo riferimento al referendum ed alla prova imminente da affrontare lo conferma, passando da un discorso generale di schieramenti e rapporti di forze ad uno più puntuale ed immediato di comportamenti politici. Nel panorama che siamo andati tracciando abbiamo svolto alcune argomentazioni non accidentali: la prima che il Partito Socialista, per il modo in cui è concretamente costituito, per la sua classe dirigente e per i suoi comportamenti, attraversa una fase, forse irreversibile, di declino o, nella migliore delle ipotesi, di stabilità tendente alla marginalità politica in presenza dei due maggiori partiti dominanti e convergenti.

La seconda constatazione riguarda il ruolo del Partito Radicale che è in fase ascendente ed in grado di compiere larghe specifiche aggregazioni, per le caratteristiche politico-strutturali e per il metodo di azione che lo contraddistingue, ma che probabilmente è destinato a giocare il ruolo di minoranza dinamica in sviluppo con cruciali funzioni di opposizione ma non è in grado oggi, di per se stesso, di divenire il "partito dell'alternativa".

La "questione socialista", dunque, deve essere esaminata anche a partire da questo duplice punto di partenza, che spesso gli osservatori non tengono in considerazione, pur se i militanti e l'opposizione di base socialista e democratica del paese vivono intensamente, drammaticamente e, magari, con una carica di schizofrenia queste realtà. Certo, il problema non è quello di fantasticare imminenti convergenze, o comunque operazioni "déja vu" e tutte racchiuse nel sistema dei partiti. Esse sarebbero irreali ed irrealistiche, destinate al fallimento, pur se qualcuno le volesse, e ben sappiamo che nessuno le vuole, né dalla sponda socialista né da quella radicale. Partito Socialista e Partito Radicale sono e rimangono due realtà diverse, incommensurabili, e per tanti versi per le loro caratteristiche storiche e strutturali, in conflitto. Tuttavia sono le stesse esigenze della democrazia italiana che richiedono una riflessione sull'"area socialista" (una espressione ormai anche questa così abusata e logorata) di cu

i i radicali ad ogni diritto fanno parte.

La strada quindi sembra oggi essere quella dell'immersione nei movimenti vivi nel paese: sia nel raccordo con quelli che esistono, sia nell'organizzazione di quelli che non sono ancora tali e vanno individuati nei comportamenti collettivi ed allo stato esigenziale. Ed è lo stesso stato del compromesso storico, (ben esistente nelle strutture anche se opinabile sul piano politico-formale-governativo) e la sua espansione quotidiana in ogni piega della società e delle istituzioni che suscitano nuovi conflitti, e sociali e politici. Del resto l'opposizione al compromesso storico appare comunque perdente - ammesso che alle dichiarazioni del PSI seguissero degli atti - se fosse condotta all'interno del terreno "legittimo" del rapporto tra i partiti e non venisse portata al di fuori di esso. A noi pare che sia proprio su questo terreno esterno al regime "corporativo" dei partiti che diventano oggi possibili quelle aree di intesa tra radicali e socialisti che non avrebbero senso alcuno in rapporti diplomatici tra par

titi. Le "rifondazioni" socialiste e le "trasfigurazioni" radicali o trovano il modo di realizzarsi, ognuna con un percorso autonomo e secondo le proprie cariche e i propri patrimoni, sul piano del "partito del movimento" - movimento del mutamento, delle riforme, dell'espansione delle libertà, della maggiore eguaglianza sostanziale, della resistenza allo stato corporato... -, oppure sono comunque destinate a fallire di fronte al compito generale di difesa democratica che richiede sostanziali salti di qualità, la riapertura cioè di uno spazio liberale e socialista nella società e nello stato.

La difesa costituzionale dell'istituto referendario sarà il primo banco di prova di un possibile movimento in questa direzione: poi altre, molte altre possibilità e necessità saranno ogni giorno offerte dall'attualità politica La questione dello "spazio", del "ruolo", dell'"identità" socialista passa oggi solo e soltanto nell'azione e nelle iniziative di movimento per riportare il discorso dalle direzioni e segreterie centrali ai luoghi in cui il conflitto sociale e politico si manifesta.

 
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