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Panebianco Angelo - 20 settembre 1977
DALLA POLITICA DEI DIRITTI CIVILI ALLA POLITICA DELLE ISTITUZIONI
di Angelo Panebianco

SOMMARIO: La "Grande Coalizione " ha isolato il PR quale partito estremista e fattore di destabilizzazione. Con il successo degli otto referendum vi è il tentativo di criminalizzare la politica del PR. Il PR ha una politica fluttuante di aggregazione di varie forze politiche su battaglie specifiche. Il reclutamento politico ed il forte ricambio interno può portare alla creazione di frazioni. Dopo il fallimento del Centro Sinistra sul tema delle istituzioni statali il PCI si è attrezzato proponendo la creazione di assemblee elettive a tutti i livelli contro la formazione di altri canali di partecipazione politica. Il PR deve agire contro questa "democrazia totalitaria". Bisogna dare vita a contropoteri che riprivatizzino la politica contro la feudalizzazione e la lottizzazione dello stato attraverso progetti reali ed articolati ed una nuova politica delle alleanze. Anche il PSI si interessa alla politica delle istituzioni, ma l'abisso appare incolmabile.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Agosto-Novembre 1977, n.3-4)

Inizio queste note con una sintesi il cui carattere all'apparenza astrattamente politologico dovrebbe essere quanto meno mitigato dalle successive ben più "concrete" osservazioni: l'"immagine" esterna di un partito dipende dalla sua collocazione nello "spazio politico", a sua volta funzione non soltanto della politica effettivamente praticata da quel partito ma anche delle costrizioni, del funzionamento e degli equilibri del sistema politico complessivo. Se non vengono posti in essere adeguati correttivi, l'immagine, che in una fase iniziale può non corrispondere totalmente alla realtà, finirà per trasformare quest'ultima in modo sostanziale: ad esempio, se un partito proietta al suo esterno una immagine "estremista" che inizialmente non corrisponde alla sua reale politica ma che è invece il frutto degli equilibri del sistema, degli atteggiamenti verso quel partito delle altre forze politiche e dei mezzi di comunicazione di massa, esso finirà a poco a poco per reclutare militanti e simpatizzanti prevalenteme

nte dall'area politica ideologicamente omogenea all'immagine proiettata; per conseguenza i militanti più "moderati", legati alla vecchia immagine, abbandoneranno progressivamente il partito o verranno sopraffatti, numericamente e/o politicamente, dai primi: a quel punto, la "reale" collocazione politica del partito finirà per corrispondere alla sua immagine pubblica e i suoi dirigenti non avranno alternative alla gestione di una politica "estremista".

Grande Coalizione, "immagine" del PR e emarginazione sociale

Dopo il 20 giugno la "Grande Coalizione", da occasione di dibattiti "culturali" è diventata una realtà politica: il non ancora avvenuto suggello dell'ingresso del PCI nel governo fa senza dubbio una grande differenza ma soltanto nel senso che la Grande Coalizione, che pure già esiste, è ancora fortemente squilibrata a favore del vecchio partito dominante, essendo il PCI privo di controllo diretto sullo esecutivo. La "fine della opposizione" che ha già prodotto una serie di guasti nel tessuto democratico - spinte verso la costituzione di uno Stato autoritario, attivazione di comportamenti violenti (la famigerata "critica delle armi" di frange di piccola borghesia proletarizzata e il terrorismo organizzato) - è ormai la più importante caratteristica "sistemica" provocata dal nuovo corso politico.

Il mutamento del quadro politico ha posto e pone al Partito Radicale una serie di sfide di grande portata. Un evidente effetto della nascita della Grande Coalizione è stato infatti la progressiva collocazione del PR al polo estremo dello spazio politico italiano: da gruppo politico che con le sue proposte riusciva a tagliare "orizzontalmente" lo schieramento di sinistra, allargando e sfruttando le contraddizioni fra vertici e basi dei partiti, e trovando in questo modo alleanze in quasi tutta l'area di sinistra, il PR si è trovato a rappresentare dopo il 20 giugno, spinto dagli equilibri del sistema, isolato in quanto "fattore di destabilizzazione" dai partiti del cosiddetto arco costituzionale, il principale oppositore di sinistra, con il progetto degli otto referendum al compromesso storico. Questo nuovo dato di schieramento, effetto del rimescolamento generale dei ruoli politici, è stato ulteriormente rafforzato dall'operare simultaneo di due processi, la disgregazione che ha colpito l'area politica racco

lta intorno al cartello elettorale di Democrazia Proletaria e la netta chiusura dei socialisti - dopo aver mancato, con l'operazione Midas, una possibile occasione di rinnovamento - nei confronti del PR.

La riduzione progressiva degli spazi di agibilità politica all'interno del blocco dei partiti di sinistra si manifestava così in una serie di scelte obbligate sul terreno delle alleanze politiche e sociali. Il mutamento dei rapporti interni alla sinistra italiana, le nuove aggregazioni e i nuovi allineamenti che questo mutamento ha suscitato, non potrebbero essere meglio esemplificati che dal confronto fra il referendum sull'aborto condotto dal PR nel 1975 insieme a "L'Espresso" e sostenuto non a parole dai socialisti, e la campagna degli otto referendum gestita insieme a Lotta Continua e ad altri settori della sinistra extraparlamentare.

Tutto questo finiva per incidere a fondo sulla "immagine" esterna del PR. Oggi lo stesso successo degli otto referendum appare destinato ad accreditare il PR come il principale oppositore di sinistra alla Grande Coalizione, ben al di là del suo peso numerico.

Questo dato, di schieramento e di immagine, potrà piacere o non piacere, tuttavia appare indubbio che la nascita e domani, forse, il consolidamento della Grande Coalizione non lasciano al PR altro spazio se non quello che, più o meno deliberatamente, ha finito per occupare.

Ciò pone però una serie di interrogativi sul futuro del PR e della politica radicale che non possono essere lasciati senza risposta. Esistono molti rischi inerenti alla nuova collocazione e fra questi tre sembrano prevalenti. Innanzitutto, la tendenza da parte degli altri partiti a sospingere il PR verso un deterioramento della sua immagine pubblica tutte le volte che se ne dà l'occasione: i fatti del 12 maggio, il tentativo di "criminalizzare" il PR e la sua politica, piuttosto che in una chiave, sempre più o meno sterile, di teoria cospirativa, vanno letti come il frutto dei nuovi equilibri del sistema. Una opposizione costituzionale di sinistra alla Grande Coalizione, obiettivo fattore di destabilizzazione dell'attuale assetto dei regime, non può essere tollerata da un sistema dei partiti che non ammette più l'opposizione: da qui al tentativo di collegare l'immagine pubblica del PR ai gruppi che praticano la violenza politica antisistema il passo è stato brevissimo. Il successo della campagna dei referend

um ha quasi certamente annullato la manovra ma non è da escludere che tentativi in questo senso si ripresenteranno in futuro: anche ogni minimo errore di valutazione del PR verrà sicuramente sfruttato in questa direzione dall'attuale regime e dai "media" che lo appoggiano.

Il secondo rischio consiste nella possibile perdita di consenso da parte di quei settori molto più ampi del ristretto numero di votanti radicali del 20 giugno, che hanno fino ad oggi dato fiducia ai radicali e alle loro battaglie ma che difficilmente potrebbero seguirli ove il PR si trasformasse nel polo di aggregazione stabile dell'area politica e sociale alla sinistra del PCI. E' noto che la dimensione ideologica, il continuum sinistra-destra, è una delle principali "mappe" utilizzate dallo elettorato per orientare le proprie scelte politiche. Fino a tempi molto recenti il PR ha mantenuto nel sistema politico una posizione che potremmo definire "fluttuante" determinata dalla sua capacità di spostarsi lungo l'arco politico e di contrarre di volta in volta alleanze temporanee su singoli progetti con le più diverse forze politiche, dai liberali ai socialisti, dai repubblicani alla sinistra extraparlamentare. Oggi il passaggio da una posizione fluttuante nel senso sopra indicato a una collocazione spaziale sta

bile (al polo di estrema sinistra del continuum) farà forse guadagnare nuovi consensi ma, senza correttivi adeguati, ne farà certo perdere altri. E non è detto che in questo modo i vantaggi siano necessariamente destinati a superare gli svantaggi.

Quest'ultima osservazione merita di essere sviluppata e ci introduce al terzo, forse più serio motivo di rischio inerente alla nuova collocazione del PR. Molto si è detto e scritto in questi ultimi mesi sulla "seconda società", sull'Italia della emarginazione crescente, della disoccupazione cronica, della disgregazione sociale, l'Italia insomma, secondo uno slogan del movimento degli studenti, dei "non garantiti" sacrificati dalla sinistra del compromesso storico in un sistema economico e sociale sottoposto a un processo (temporaneo?) di caduta del livello delle forze produttive, agli interessi dell'Italia sindacalizzata, politicamente protetta, "garantita". Anche se non sono affatto mancate esagerazioni e improvvisazioni nell'analisi dei fenomeni di emarginazione e di disgregazione sociale che stanno colpendo il nostro Paese, è un fatto che questa Italia esiste e che sembra destinata ad allargarsi con il procedere della crisi e con la (fino ad oggi) totale assenza di risposte politiche adeguate da parte del

la sinistra.

Ora, è indubbio che non mancano nel PR settori che non disdegnerebbero di facilitare l'incontro e una alleanza stabile con quest'area sociale. L'argomentazione con cui viene giustificata questa ipotesi è, all'apparenza, suadente: oggi soltanto il PR - si dice - può recuperare alla democrazia tutta quella fascia, prevalentemente giovanile, abbandonata dalla sinistra storica e destinata, se non trova sbocchi politici costituzionali, a rappresentare la base di massa del terrorismo organizzato. A me sembra però che quando ci si orienta in questa direzione non si soppesino quasi mai, come invece andrebbe fatto, i costi che in questo caso il PR sarebbe probabilmente destinato a pagare e che, in definitiva, non si valuti a sufficienza che tipo di trasformazioni la politica radica e dovrebbe subire.

Una prima fonte di equivoco che non giova alla chiarezza della discussione consiste nella non distinzione, da parte dei sostenitori di questa ipotesi, fra interessi emarginati dalla politica passata e attuale della sinistra italiana e area sociale della emarginazione. Non c'è coincidenza, anche se esiste ovviamente una certa sovrapposizione, fra gli agenti portatori di interessi e di bisogni emarginati, fino ad oggi dal regime democristiano, domani dal compromesso storico, e i protagonisti dello attuale processo di emarginazione sociale. Il PR ha sempre difeso e rappresentato i primi, facendosi in questo modo portatore di proposte e di lotte che tagliavano il corpo sociale. La sua grande capacità di aggregazione su battaglie specifiche dipendeva dal fatto che con quelle battaglie il PR assumeva la difesa di "interessi diffusi" che si rivelavano puntualmente maggioritari nel Paese, interessi che la "politica ufficiale" non era in grado di prendere in considerazione.

Ma tra l'emarginazione politica di domande specifiche e l'emarginazione come fenomeno economico e sociologico corre una grande differenza. Difendendo la prima si suscitano battaglie maggioritarie; mettendosi in sintonia con la seconda, e soltanto con questa, ci si trasforma in un partito-ghetto, politicamente minoritario, sempre più incapace di agire sulle contraddizioni dei partiti di sinistra e quindi, di fatto, incapace "anche" di dare spazio e soddisfazione alle nuove domande rappresentate. Di più: la tendenza, impercettibilmente ma sicuramente, sarebbe quella all'espressione di una domanda globale, ideologica di mutamento (dalla quale fino ad oggi il PR è giustamente rifuggito), di per sé strutturalmente e culturalmente omogenea all'area sociale che si vorrebbe organicamente rappresentare mentre si ridurrebbe, anche drasticamente, la capacità che ha fatto il successo del movimento radicale, di aggregare su singole, specifiche tematiche di libertà settori anche molto eterogenei del corpo sociale. E' infa

tti la natura stessa della domanda rappresentata a determinare il carattere pragmatico o, all'opposto, ideologico dello stile politico. Per fare cessare l'aborto clandestino, per conquistare il divorzio, per ottenere l'obiezione di coscienza ecc., occorre mettere a punto progetti "ad hoc", mobilitare forze politiche e sociali, imporre una nuova normativa. Invece, per difendere gli strati sociali emarginati occorre chiedere niente meno che la "abrogazione" del capitalismo (se si sceglie la via "rivoluzionaria") o proporre le "riforme di struttura" (se si sceglie la via "riformista"). E queste sono precisamente le modalità tradizionali (ideologiche) di fare politica della sinistra italiana sempre criticate in passato dai radicali perché del tutto incapaci di produrre tanto la "rivoluzione" che le "riforme".

E' vero che la tentazione di collegare il PR all'"area dell'emarginazione" corrisponde anche a una esigenza confusa ma presente di dare al partito una base e un insediamento sociale stabili (tanto più forte dopo il 20 giugno e l'ingresso in Parlamento, mentre la dimensione "partito" tende a rafforzarsi rispetto alla dimensione "movimento"). Ma anche questo sarebbe sicuramente un calcolo sbagliato perché, per sua natura, quest'area sociale non è in grado di rappresentare la base di massa stabile di un movimento politico: al massimo, può essere la base di una effimera anche se magari spettacolare crescita politico-elettorale destinata a spegnersi in un momento successivo con altrettanta rapidità.

Tutto ciò non significa, ovviamente, che il PR non deve farsi carico anche degli interessi dei socialmente "esclusi", significa però che non deve cedere, come taluni vorrebbero, a tentazioni peraltro illusorie, di ricercare in questi gruppi e quasi-classi la propria area di "insediamento" stabile sommando gli effetti negativi di una emarginazione politica (da parte degli altri partiti) a una ghettizzazione sociale.

D'altra parte, se accettiamo che l'ipotesi di trasformare il PR nel polo di aggregazione di quest'area è da rifiutare energicamente, si apre però una contraddizione di grande peso: infatti la posizione che il PR occupa oggi nel sistema politico - alla estrema sinistra del continuum - e che è un dato di schieramento da ritenere per lungo tempo immutabile, è di per sé un potente incentivo che spinge in quella direzione. Senza interventi adeguati, gli effetti negativi, che ipotizzavo in apertura, di un mutamento profondo di "immagine", ad esempio, sul versante per molti aspetti cruciale, del "reclutamento politico", non tarderebbero a manifestarsi facilitati anche dall'alto tasso di ricambio interno di cui soffre tradizionalmente il PR: il rischio è quello del passaggio da un partito con una forte coesione "ideologica" dei suoi militanti a un partito molto più eterogeneo, quindi molto più soggetto alle spinte centrifughe e alle tentazioni di costituire "frazioni" interne organizzate che troverebbero un fertile

terreno in una base sociale e culturale altamente frammentata. Da qui a una perdita anche drastica, di capacità di intervento politico sul piano esterno il passo sarebbe brevissimo.

La domanda cui occorre trovare urgentemente una risposta diventa quindi: come rimanere alla opposizione da sinistra dello schieramento politico senza perdere i caratteri che hanno fatto fino ad oggi il successo della politica radicale; il che significa mantenere una sufficiente coesione politico-culturale sul piano interno (che è una condizione del successo politico) e continuare ad aggregare su battaglie maggioritarie settori sociali di diversa identificazione partitica, contrastando attivamente la tendenza alla "ghettizzazione" cui spinge il consolidamento della Grande Coalizione.

Al dilemma si sfugge, probabilmente, in un solo modo: accentuando, non diluendo le caratteristiche e le modalità di azione che sono state e sono proprie del PR, qualificando sempre più e sempre meglio l'opposizione al compromesso storico come una opposizione che si incardina su proposte specifiche, sia pure collegate a un disegno generale di trasformazione della società, rifuggendo dalla domanda astrattamente ideologica di mutamento che, per sua natura, stanti gli attuali equilibri del sistema, sarebbe destinata a rafforzare ancora di più l'isolamento del PR. Perseverare nel metodo passato, nella nuova congiuntura politica, significa però fare un grosso sforzo di qualificazione delle proprie proposte, significa alzare il tiro, portare l'attacco alla Grande Coalizione aprendosi anche a temi in passato non toccati o poco toccati dalla politica radicale facendo leva su tutte le contraddizioni che si aprono all'interno dei partiti di sinistra.

Centro-sinistra, compromesso storico e politica delle istituzioni

E' maturata oggi la consapevolezza negli ambienti più responsabili della sinistra che l'esperienza del centro-sinistra fallì nei suoi intenti riformatori - le riforme di struttura, la programmazione - non soltanto per le resistenze democristiane ma anche perché i settori che parteciparono a quella esperienza con un più genuino interesse al mutamento della società dovettero scontare la propria impreparazione e disattenzione sul tema cruciale della "riforma dello Stato".

Il vizio ideologico dei riformatori socialisti di allora, e che fu di notevole aiuto per agevolare gli interessi di conservazione della DC, fu quello di ritenere che se si riusciva ad imporre una serie di riforme sul terreno socio-economico (case, servizi, investimenti) il mutamento delle istituzioni statali sarebbe seguito in modo automatico, per il naturale adeguamento delle "sovrastrutture" ai mutamenti di "struttura". Invece fu proprio sul piano delle istituzioni, punto di forza della DC come partito-regime, che la sinistra del centro-sinistra subì la sua principale e più pesante sconfitta. Anziché sovrastrutturale, il terreno istituzionale si rivelò, agli stessi occhi di una cultura politica di sinistra che solo a fatica e mai completamente andava liberandosi degli stereotipi e delle formule ideologiche desunte da filosofie della storia ottocentesche, come il principale terreno ove si giocava (e si perdeva) lo scontro per il rinnovamento radicale della società italiana.

Oggi, mutati radicalmente gli equilibri politici, le istituzioni dello Stato sono il principale banco di prova ove si va saggiando e sperimentando l'incontro fra democristiani e comunisti. Certamente il partito comunista ha riflettuto a lungo sulla esperienza del centro-sinistra e, infatti, arriva attrezzato all'appuntamento col potere "anche" sul versante istituzionale. Si può, anzi si deve, non mitizzare più di tanto la famosa "preparazione" comunista ma bisogna comunque ammettere che il PCI su un arco molto ampio di temi che investono le questioni istituzionali è oggi molto meno sprovveduto e impreparato di qualsiasi altro partito, a cominciare, ovviamente, dal PSI. E tuttavia questa accurata preparazione, questa accumulazione di proposte di modifica istituzionale di parte comunista, è stata ed è finalizzata alla costruzione di una "democrazia senza opposizione", a un disegno il cui carattere autoritario sta già oggi dispiegando i suoi effetti. La rivitalizzazione delle assemblee elettive, a tutti i livel

li, dal Parlamento ai comitati di quartiere, punto di forza qualificante del progetto comunista sulle istituzioni, si sta dimostrando funzionale alla imposizione di una egemonia dei partiti che non deve lasciare alcuno spazio a movimenti e ad aggregazioni di forze della società civile che scelgano altri canali di partecipazione e di comunicazione politica. I probabili effetti di questo disegno sono stati lucidamente intravisti e sintetizzati da Giuliano Amato: "Attraverso la rete delle assemblee elettive si costruisce una democrazia consociativa a latente vocazione totalitaria che può sortire due effetti: o di essere paralizzata dalla consociazione, che consente un equilibrio di tenuta fra gli interessi in gioco, ma minaccia di rompersi ad ogni tentativo di sintesi davvero trasformatrice (...); o di sfruttare la vocazione totalitaria per spingersi oltre l'equilibrio di tenuta. Questa seconda alternativa potrebbe portare, a sua volta, o a un soffocamento delle diversità in un sistema senza autonomia, o a una

rinnovata esplosione delle stesse diversità sotto forma di forze centrifughe"; (G. Amato, "Riforma dello Stato e alternativa di sinistra", in "Mondoperaio", 7/8 (1977), p. 52)

Il risultato più generale delle dislocazioni a livello istituzionale determinate dall'incontro fra gli interessi di conservazione democristiani e il progetto comunista è ciò che è stato definito un "nuovo patto sociale", di cui già si intravvedono i contorni, di carattere marcatamente autoritario, di segno "organicistico"; in altre parole una "democrazia autoritaria", fondata sul consenso di massa manipolato e sul soffocamento delle minoranze dissenzienti (F. Stame, "Il senso dello Stato (autoritario)", in "Il cerchio di gesso", 1 (1977), p. 10)

E' a questo livello e su questi temi che può aprirsi oggi un grande spazio di intervento politico per il Partito Radicale. Portare l'attacco alla Grande Coalizione sul terreno delle istituzioni è infatti tutt'uno con la lotta contro la democrazia autoritaria; mobilitare forze su progetti specifici di riforma istituzionale, significa, oltre che spezzare la spirale che conduce all'isolamento del PR, contrastare le spinte verso la formazione di uno Stato autoritario.

Naturalmente, proporre di qualificare sempre più la politica radicale come "politica delle istituzioni" significa, almeno in parte, sfondare una porta già aperta: dal progetto degli otto referendum all'attività del gruppo parlamentare radicale, la tematica istituzionale è infatti già oggi al centro della politica del PR La stessa "politica dei diritti civili", nonostante i tentativi interessati delle altre forze politiche di relegarla in un ambito speciale e a se stante, direttamente ispirata a quella concezione etica della democrazia che consiste nel rivendicare la libertà come "autonomia" del cittadino (dallo Stato e dal potere) ha sempre contenuto in sé un inevitabile risvolto istituzionale. Una rilettura, anche superficiale, del programma elettorale del PR, la "Carta delle Libertà", può essere sufficiente per mettere a fuoco questo stretto legame.

Oggi la nuova congiuntura politica impone però una ulteriore qualificazione del progetto radicale sulle istituzioni e uno sforzo di approfondimento e di intervento su una gamma amplissima di problemi. Il modello di una democrazia correttamente funzionante finalizzata alla costruzione di una società socialista si contrappone efficacemente alle aberrazioni della "democrazia senza opposizione" se si ha la forza e la capacità di aggregare forze sociali ampie intorno a progetti che investano tutti i principali nodi istituzionali: dai meccanismi della rappresentanza parlamentare al funzionamento degli organi esecutivi, dalle partecipazioni statali (ove il conflitto fra potere politico e tecnocrazia apre spiragli di intervento) agli enti locali, dai corpi separati alla università.

La feudalizzazione della sfera pubblica

Occorre rendersi conto - ciò vale soprattutto per quei settori sia interni che esterni al partito che ritualmente domandano al PR un impegno sulle "questioni economiche" - che in una società "regolata statualmente", ove lo Stato condiziona con la sua azione tutte le fondamentali dimensioni dell'agire sociale, non ha alcun senso ripercorrere strade già battute da tutti i gruppi e gruppuscoli della diaspora sessantottesca, si è visto peraltro con quale successo, per riscoprire magari la "realtà della fabbrica" e riproporre le teorizzazioni astratte della "vulgata" marxista. In un sistema economico e sociale ove lo Stato controlla direttamente il cinquanta per cento dei mezzi di produzione esistenti ed interviene, come regolatore del ciclo produttivo, con politiche di stabilizzazione di breve e medio termine, nello stesso settore del capitalismo privato, è sui meccanismi istituzionali che bisogna incidere per ottenere mutamenti radicali "anche" sul terreno economico.

Il potere decisionale reale su tutti gli aspetti vitali del funzionamento della società risiede oggi in sedi "pubbliche" (tralasciamo per ora il significato ambiguo di questo termine), in una miriade di "comitati", più o meno lottizzati, che agiscono entro le istituzioni, una parte ristrettissima dei quali, è bene rammentarlo, è di origine elettiva: apparati e tecnostrutture incontrollate, entro le quali piccoli gruppi prendono decisioni fondamentali che incidono sulla vita di tutti. Questo sistema di governo, autocratico e de-responsabilizzante, che agisce sotto la copertura e la legittimazione di istituzioni rappresentative a loro volta svuotate di buona parte del potere decisionale giuridicamente sanzionato, non risponde neppure a criteri di "efficienza" e di "razionalità" burocratica. La feudalizzazione ormai compiuta della sfera pubblica, la spartizione dello Stato fra feudi politici e/o burocratici con reciproco potere di ricatto e di veto, nessuno dei quali capace di esercitare una egemonia, ma tutti

in grado di paralizzarsi a vicenda, ha comportato almeno due conseguenze vistose: da un lato, un processo che potremmo definire di ri-privatizzazione della politica (il modello è lo "Stato patrimoniale" ove un ceto burocratico designato dall'alto amministra la cosa pubblica come proprietà privata del sovrano) e, dall'altro, la dispersione del potere e la polverizzazione del processo decisionale. Il risultato è una macchina che funziona a livelli bassissimi di rendimento e di efficienza ove una miriade di comitati contrattano e si scambiano favori politici e producono decisioni scoordinate che si sovrappongono e spesso si annullano a vicenda. La decadenza politica del sistema ha anche questa origine.

I comunisti, si è visto, propongono come rimedio la gestione consensuale e totalizzante da parte dei partiti, attraverso la rete delle assemblee elettive, della intera macchina statale. Spetta a chi non crede nel significato democratico di questo disegno proporre alternative che riconducano al controllo dei cittadini il potere usurpato dagli apparati e dalle tecnostrutture di Stato a mezzadria con gli apparati di partito. Le strade da battere sono probabilmente due: le proposte puntuali per democratizzare pezzo per pezzo il complesso delle istituzioni, e la stimolazione di nuove forme di partecipazione politica dei cittadini che, crescendo al di fuori dei tradizionali canali partitici, diano vita a reti di "contro-poteri" in grado di sviluppare una dialettica conflittuale con lo stesso sistema dei partiti e con le oligarchie di vertice che la controllano. E tanto più numerosi e articolati sono i canali di comunicazione e di partecipazione politica che si riesce ad attivare, sia detto per inciso, tanto minori

sono le probabilità di esplosione della violenza politica che rappresenta quasi sempre il sintomo e la conseguenza di una sclerosi del sistema politico, di una chiusura pericolosa alle domande di partecipazione di certi gruppi sociali.

Tematiche tradizionali del PR possono trovare una ridefinizione in questo quadro. Si può pensare, ad esempio, a un rilancio dell'attività antimilitarista ma collegandola, per non cadere in un massimalismo sterile, a un progetto articolato e graduale di modificazione degli istituti tradizionali della politica estera (oltre che di ridefinizione degli stessi "fini" della politica estera italiana).

Anche la battaglia, ritenuta oggi giustamente prioritaria, per una informazione democratica che è strettamente legata alla possibilità di favorire nuove forme di partecipazione politica, appare destinata all'insuccesso se non si salda a un insieme articolato di interventi che abbiano come oggetto la riforma dello Stato. I mezzi di comunicazione di massa, fondamentali strumenti di manipolazione e di riproduzione del consenso, sono oggi, nel senso letterale di una famosa espressione del filosofo marxista Althusser, "apparati ideologici di Stato", controllati direttamente e/o indirettamente (pubblicità, sovvenzioni) dal potere politico e da tecnostrutture cosiddette pubbliche. La democrazia della informazione, l'accesso libero ai canali di comunicazione per tutti i cittadini sono destinati a restare utopie astratte se non si individuano e si impongono soluzioni durevoli che modifichino drasticamente il rapporto fra sistema delle comunicazioni di massa (oltre al loro assetto interno) e le istituzioni dello Stato

.

Una politica delle istituzioni, rigorosa e coerente, imporrà probabilmente al PR di ripensare anche la sua politica delle alleanze: occorrerà, sulla base di singoli progetti di modifica istituzionale, andare alla ricerca di convergenze e alleanze con forze fino ad oggi trascurate e che possono facilmente trovarsi in rotta di collisione con i partiti che presiedono alla formazione, o meglio, al perfezionamento della democrazia autoritaria, da certi settori del sindacato (la UIL di Benvenuto) alle organizzazioni che fanno lavoro politico entro le istituzioni (ad esempio, e tipicamente, Magistratura Democratica). Per ritornare al punto da cui si era partiti, infine, la politica delle istituzioni che già si è espressa negli otto referendum ma che richiede oggi di arricchirsi di nuovi contenuti, è anche la scelta che può consentire di "riequilibrare" l'immagine del PR ed impedire che la sua attuale collocazione politica lo trasformi in un partito-ghetto svuotato di capacità di intervento politico.

Questione socialista e politica delle istituzioni

La politica delle istituzioni, nel senso sopra indicato, è anche oggi l'unico strumento a disposizione per lasciare aperto, come prospettiva strategica, quel disegno che il PR ha inseguito per anni e che, sia pure come ipotesi di lungo periodo, non deve essere abbandonato: la costruzione, insieme a ciò che resta della parte sana del PSI, ma anche col concorso di nuove forze "liberate" dalla decadenza e dalla disgregazione del vecchio assetto politico, del partito del socialismo libertario.

Occorre riconoscere che nel PSI e nell'area socialista non mancano in questo momento attenzioni e sforzi in direzione di una politica delle istituzioni qualitativamente diversa da quella dispiegata dal compromesso storico. Tuttavia, appare ugualmente difficile che i socialisti siano recuperabili, nel breve o nel medio termine, a una politica realmente alternativa. Anche i progetti che in quel partito o nelle immediate vicinanze vengono elaborati, e che hanno molti punti di contatto con il progetto radicale complessivo, sono probabilmente destinati a restare per lungo tempo lettera morta secondo una forma di divisione del lavoro politico ampiamente collaudata: di qua, le proposte degli intellettuali che si collocano nel segno dell'alternativa e che danno lustro al partito, di là le mediazioni che umiliano e vanificano completamente quelle proposte piegandole agli interessi di conservazione dell'apparato e delle reti clientelari. In definitiva, l'abisso fra il PR e il PSI, cioè fra un partito che la politica d

ella alternativa "la pratica" e un partito che "ne parla" soltanto ma fa in realtà altre cose (ad esempio, sottoscrive un accordo sull'ordine pubblico che si muove nel senso dello Stato autoritario, certo non della alternativa) appare al momento incolmabile. La lotta sul terreno istituzionale è anche quindi un modo per mantenere aperti dei canali di comunicazione e di collegamento, che altrimenti si chiuderebbero irreparabilmente, con quei settori socialisti che si muovono effettivamente nella prospettiva della alternativa e che sono politicamente e culturalmente i più vicini al Partito Radicale. Su questo terreno esistono possibilità di convergenze e alleanze e, soprattutto, si agisce e si aprono contraddizioni nell'anello più debole della "catena" del compromesso storico, il partito socialista appunto.

Lungo questo solco è probabilmente possibile al PR svolgere il suo ruolo di oppositore costituzionale di sinistra al compromesso storico senza trasformarsi nell'ennesimo partitino "gauchiste", velleitario e impotente, continuando ad essere il catalizzatore di battaglie capaci ancora di mutare in senso progressivo i rapporti di forza nella società e nel sistema politico.

 
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