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Strik Lievers Lorenzo - 20 settembre 1977
IL "PARTITO DEI PARTITI": TUTTI INSIEME, APPASSIONATAMENTE
di Lorenzo Strik Lievers

SOMMARIO: In Italia domina l'incertezza. Accordo PCI-DC. Non appare chiaro il nuovo sistema politico-sociale. Riconoscimento del PCI come forza di Governo. Pericolo di distacco dell'elettorato. Nasce un "partito dei partiti", senza un confronto interno, il quale si identifica con lo Stato. Il compromesso storico è necessario alla legittimazione del PCI, ma l'alternativa ne risente. Il PR deve essere partito di alternativa attraverso gli strumenti della nonviolenza e del referendum.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Agosto-Novembre 1977, n.3-4)

"La democrazia dei tempi nuovi (...) è di sua natura estremamente decentrata, sottile, penetrata in ogni giuntura più delicata del meccanismo economico. Per ciò stesso esige un potere direttivo politico estremamente accentrato: esige un partito che contenga in sé e disciplini in un ordine unitario quella dialettica, che nella civiltà borghese, a suo tempo mirabile di forza creativa, ma ormai esaurita, s'esprimeva nella molteplicità dei partiti. Il ritorno attuale ai partiti è una reazione momentanea, giustificabilissima. Si tratta di una rinascenza provvisorio che dal suo stesso impulso interiore sarà condotta a processo unitario. Codesto processo sarà qualificato antifascismo. E' evidente: rovesciato il fascismo non si può parlare che di antifascismo. Ma poiché, nella sua degenerazione personalistica, Mussolini aveva finito col realizzare un fascismo al rovescio tutto poggiato sulla sua testa e non sul corpo sociale, è chiaro che rovesciandolo lo si rimette in sesto. Sembra un gioco di parole? Sembra, ma no

n è. I tempi mi daranno ragione".

Giuseppe Bottai

(Da una pagina di diario del 28 maggio 1945, cit. da G.B. Guerri, "Giuseppe Bottai un fascista critico", Milano, Feltrinelli, 1976, p. 253)

Accade spesso, quando si volta una pagina di storia e i contemporanei lo avvertono, che subentri come un'incertezza diffusa: si sente, più di quel che di solito avvenga, che non esiste un senso della storia prestabilito e garantito, che ci si avventura su terreno ignoto e non si sa dove porterà la strada che si imbocca. Se non mi inganno, è un po' questa l'atmosfera prevalente oggi in Italia.

Non c'è dubbio, in effetti, che l'accordo a sei firmato dai partiti dell'arco costituzionale sia un evento di portata storica, da qualsiasi punto di vista lo si consideri.

Il PCI ha raggiunto il proprio obiettivo di un trentennio: la fine della discriminazione a sinistra, la ripresa di quella collaborazione con le forze di centro e di centro-sinistra che si era interrotta nel 1947, in qualche modo riprendendo dal punto in cui ci si era lasciati. (E non era del resto l'accusa capitale di sempre del PCI alla DC, il motivo conduttore della sua opposizione, quella di avere "illegittimamente" rotto il patto resistenziale? Oggi così, caduta in oblio la vecchia tesi del fascismo come parentesi nella storia dell'Italia democratico-liberale, pare quasi profilarsene una nuova versione aggiornata, quella del trentennio democristiano come parentesi nella storia d'Italia popolare e antifascista). Per un altro verso, l'accordo segna un salto di qualità in un processo da lungo tempo delineatosi: se da molti anni il PCI, formalmente all'opposizione, lo era di fatto assai meno di quel che sembrasse - come i radicali hanno sostenuto per un quindicennio - oggi è nato ufficialmente un nuovo equil

ibrio inedito, un regime democratico parlamentare senza opposizione in parlamento Risulta ormai chiaro che questo è stato l'esito della caduta del sistema di regime tradizionale, il monopolio democristiano del potere, sancita dalle elezioni del 1976.

In un certo senso, allora, il futuro potrebbe parer segnato con chiarezza. Il Partito Comunista potrebbe legittimamente vantare di aver saputo indirizzare, con un lavoro paziente e faticoso di vari decenni, la storia italiana sui binari stabiliti da un lucido progetto politico: riportare il partito della classe operaia al potere attraverso l'accordo con l'altra grande forza popolare, quella cattolica. Diviene quasi naturale perciò supporre che questa sia ormai una direzione obbligata, che un disegno così lucidamente concepito e attuato lungo un arco così ampio di tempo sia destinato, per la forza stessa delle cose, a giungere in porto; ad aver successo anche nella fase ulteriore, chiaramente delineata, di stabilire assai più ampiamente l'egemonia del partito della classe operaia continuando l'opera progressiva di spostamento degli equilibri politici, culturali, economici.

Eppure domina un'incertezza inquieta. Non tanto per le polemiche e i contrasti fra i partiti emersi dopo l'accordo, e che per ora non sono certo tali da incrinare il quadro complessivo: né per gli atteggiamenti e le dichiarazioni di quei democristiani che tendono a presentare l'accordo come un tentativo di "centro - sinistrizzare" il PCI per indebolirlo, come già il PSI, e ributtarlo fra breve all'opposizione - che non sembra, per molte ragioni, progetto facilmente attuabile. La sensazione d'incertezza dipende dal non esser chiaro - probabilmente nemmeno ai comunisti, nonostante il progetto a medio termine - quale potrà essere il carattere di un sistema politico-sociale che esca da un compromesso fra la tradizione leninista e del centralismo democratico e quella democratico-occidentale nella versione lottizzatrice, corporativa e clientelare del regime democristiano, in un paese caratterizzato da fenomeni come quelli di un abnorme parastato parassitario, un forte potere sindacale, uno stato a mezza via fra l'

accentramento napoleonico e uno stento regionalismo. L'unica cosa certa è che si tratta di un esperimento del tutto nuovo (per quanto tradizionale sia in Italia la convergenza trasformistica degli opposti), esperimento per il quale non esistono da nessuna parte precedenti che possano suggerire previsioni attendibili; sicché risulta difficile a tutti, anche a quelli che stanno guidando questo processo, antivedere in che cosa il nostro futuro modo di vivere differirà da quello del passato.

Le ragioni del PCI

Appare sicuro in ogni modo - sempre che per fattori oggi imprevedibili l'accordo non salti - che dei mutamenti ci saranno, anche a breve scadenza; e in parte già si stanno verificando. Quali che possano essere i cedimenti che, da un certo punto di vista a ragione, si rimproverano al PCI, non è pensabile che questo partito, con la sua storia e la sua forza, si rassegni a stare nell'area di governo senza lasciare un segno profondo nella vita italiana. E d'altra parte è difficile immaginare che la nuova, esplicita collocazione del PCI non trasformi i suoi rapporti con il paese.

Ma come si muove la nuova, decisiva forza di governo, il Partito Comunista? E' indispensabile aver ben chiari gli intenti reali che in questa fase esso si pone per non valutarne i comportamenti con un metro inadeguato e improprio. Il valore fondamentale dell'accordo a sei, per il PCI, non sta nei suoi contenuti programmatici, del resto ambigui e modesti; bensì nel riconoscimento che con esso tutto l'arco politico tradizionale gli dà del suo essere un partito democratico, un partito come tutti gli altri, con il quale si possono avere convergenze e divergenze, ma che come qualunque altro è abilitato senza scandalo a governare il paese. E' quella che vien definita la caduta della pregiudiziale anticomunista, la "legittimazione" piena del PCI: all'interno, di fronte a quei settori di opinione pubblica e di classe dirigente che un tempo avrebbero visto un suo accostamento al potere come un passo verso l'apocalisse; e all'esterno, nei confronti degli alleati-controllatori occidentali. Si tratta di una conquista di

valore inestimabile per il PCI, che da trent'anni la insegue come il suo primo obiettivo. Lo sarebbe per qualunque partito rimasto per decenni confinato all'opposizione, come lo fu negli anni sessanta per la socialdemocrazia tedesca, che dopo aver battuto a lungo la strada dell'alternativa scelse quella di un accordo temporaneo con la CDU-CSU appunto per "legittimarsi" come forza di governo; ma tanto più lo è per un partito comunista, che porta le stimmate di una "scelta di civiltà" profondamente diversa da quella adottata da tutta l'area storico-geografica di cui l'Italia fa parte. (Lo storico delle "civiltà come strutture", Fernand Braudel, individua nel "rifiuto che separa l'Occidente evoluto dal marxismo e dalle soluzioni totalitarie delle repubbliche socialiste" una manifestazione delle strutture profonde della civiltà di questa parte del mondo).

Perché stupirsi o scandalizzarsi dunque che il PCI sia disposto a subordinare al mantenimento e al consolidamento di questo risultato - che ha bisogno di reggere nel tempo per essere reale - ogni altra considerazione? Per quanto i contenuti, le riforme, stiano certamente loro a cuore, i comunisti ragionano sui tempi lunghi: che la loro legittimazione divenga un fatto acquisito definitivamente, che la loro presenza in un governo cessi completamente d'essere un fatto traumatico costituisce una condizione indispensabile perché essi, in una seconda fase, possano usare tutta la loro forza sul piano dei contenuti.

Esiste un solo limite in questa direzione, segnato dal pericolo che in mancanza di successi concreti e palpabili sulle cose la delusione della base e dell'elettorato ne provochi un pericolosissimo distacco dal partito. Per questo i comunisti sentono la necessità di incidere subito in modo visibile; né si può negare che in parte agiscano in questo senso La vicenda della legge 382 è molto significativa da questo punto di vista. Indubbiamente su di essa i comunisti si sono battuti, scontrandosi con il sistema di potere democristiano e clericale, e per quanto il risultato presenti molti limiti e i segni vistosi del compromesso resta probabilmente un fatto di grande rilievo che muta molte cose nello stato italiano (benché poi non sia detto che il trasferimento di tanti centri di potere dallo stato a quelle sedi di sfacciata lottizzazione che sono le regioni comporti tutti gli effetti di democratizzazione che ci si potrebbe attendere). In questa stessa chiave vanno interpretate le resistenze - reali - del PCI sull

'equo canone o su altri terreni. Ma se si vuol capire il PCI nella sua logica e nelle sue necessità - che non sono quelle del PSI, sicché i confronti con l'esperienza del centro-sinistra rischiano di rivelarsi fuorvianti bisogna rendersi conto che queste battaglie rimangono tutte marginali e strumentali rispetto al dato fondamentale di cui sopra s'è detto. Il vero cedimento, la vera incoerenza per il PCI sarebbe mettere in gioco quello.

Il nuovo partito unico

Resta comunque, e perciò, tutto aperto il problema dei rapporti appunto fra il PCI e la sua area tradizionale di consenso, le classi lavoratrici, l'opinione pubblica di sinistra e i ceti variamente subalterni. Anche qui le novità che si prospettano sono radicali - e portano direttamente alla considerazione, più in genere, dei rapporti fra istituzioni e paese.

Da sempre il PCI, in quanto sola, grande forza di opposizione agli occhi dell'opinione pubblica, ha svolto la funzione, essenziale, di canalizzare nelle istituzioni il malcontento e la protesta (si ricordino le polemiche lamalfiane di un tempo contro la disinvoltura con cui esso raccoglieva ogni genere di rivendicazioni, anche inconciliabili fra loro). Oggi il suo volto, definitivamente cambiato, è diventato quello di un partito di governo e appare poco agevole accreditare la formula del "partito di governo e di lotta". D'altronde per i suoi stessi caratteri quali si sono storicamente determinati il PCI difficilmente riesce a farsi espressione dei ceti emarginati che ogni giorno di più si stanno estendendo in Italia, e che sempre di più si trovano chiusi sbocchi e speranze.

Che accadrà ora, visto che le forze della residua, marginalissima opposizione di sinistra sono troppo esigue quantitativamente e qualitativamente, per povertà di idee, di gruppi dirigenti, di quadri intermedi, perché ci si possa illudere che in tempi brevi possano sostituire il Partito Comunista nel ruolo che esso sempre meno è in grado di esercitare? Pesa in modo via via più sinistro sulla vita italiana, così, l'ombra di un'opposizione sociale che non riesce a trovare nelle istituzioni un partito che possa esprimerla; di un'opposizione tuttavia che esiste, cresce, e che in qualche modo deve pur esprimersi... Si rischia sempre di apparire monotoni ripetitori di formulette stantie, di vecchi schemi liberali ottocenteschi quando si richiama la necessità, fisiologica per una democrazia, dell'alternanza e della contrapposizione fra i partiti, fra le maggioranze e le minoranze. Ma come non ritornarvi, non insistervi, quando si profila il rischio che il blocco di tutti i partiti istituzionali crei un'opposizione n

on contro il governo, bensì contro le istituzioni e la democrazia?

Si giunge così a un altro nodo essenziale della situazione: alla trasformazione sostanziale in corso nella natura della vita politico-istituzionale. Si va creando in modo ormai esplicito, senza più veli, un nuovo sistema politico; sorge un superpartito, un "partito dei partiti" al cui interno esiste certo una dialettica politica (partito unico non significa obbligatoriamente partito monolitico), ma in cui la lotta politica avviene necessariamente solo per contrattazione, e mai per confronto aperto di alternative chiare. Fatale allora che, non per la malvagità degli uomini, ma per la logica di un simile sistema, si verifichi la prevalenza su tutto e su tutti dei partiti soci del patto in quanto tali; giacché essi, per assicurarsi punti di forza nel gioco delle contrattazioni, devono occupare tutti gli spazi possibili. E' la lottizzazione universale: del resto balza all'occhio con sempre più eloquente evidenza dell'esperienza quotidiana che per contare, per esercitare un ruolo nella società, ormai spesso anche

solo per lavorare (ombra della tessera del pane!) occorre essere iscritti o solidamente collegati a una delle sei branche del "partito dei partiti".

Che un portato necessario dell'intesa a sei sia questo prevaricare dei partiti su ogni istanza della società civile, peraltro, appare logico e conseguente quando si consideri che i due preminenti membri dell'esarchia hanno sempre avuto, ognuno a suo modo, una tendenza di questo tipo fra i cardini della loro impostazione: la DC cinicamente, senza luce d'ideali, per la sua trentennale pratica di spartizione e sfruttamento della cosa pubblica a fini privati e di fazione; il PCI per la sua visione gramsciano-leninista del partito come avanguardia, moderno principe, intellettuale collettivo cui spettano compiti di guida e di rigorosa direzione dello sviluppo sociale. La traduzione di questo processo profondo anche in termini direttamente istituzionali (se n'è già parlato nei numeri precedenti della rivista, e se ne parla altrove in questo) è già ampiamente in corso: basti rammentare il decadimento del ruolo non del parlamento di fronte al governo, ma del parlamento e del governo di fronte ai partiti coma tali; e

al tentativo gravissimo di soffocare l'unica istituzione, il referendum, in cui il cittadino si esprime in prima persona e non attraverso la mediazione obbligata del partito.

Il compromesso, l'alternativa

Il "partitone" così si identifica senz'altro con le istituzioni, con lo stato, che diventa uno stato-partito; l'intesa fra i sei diventa un nuovo articolo chiave della costituzione, o addirittura il fondamento primo della "costituzione materiale" non scritta che regola la vita delle istituzioni. Talché non appare privo di una certa bieca validità nella sua ironia involontaria l'uso invalso sui giornali e soprattutto alla TV di definire "tout-court" "i partiti costituzionali" quelli che fin qui si chiamavano "partiti dell'arco costituzionale" - intendendosi che chi non fa parte della loro coalizione è perciò stesso fuori dalla costituzione.

Quello che si va stabilendo e assestando è dunque un nuovo tipo di democrazia consociata e controllata. E perché poi non ricordare - senza voler forzare all'assurdo il paragone - che esistono regimi nell'Europa dell'Est, come quello della Germania orientale, dove formalmente sussiste una pluralità di partiti che convivono, ognuno con un ruolo politico-sociale e una forza numerica rigidamente prefissati, nell'ambito di una grande coalizione sotto l'egemonia del partito della classe operaia stabilita dalla costituzione - coalizione all'infuori della quale ogni dialettica politica è vietata?

Si può obiettare e si obietta a chi per queste o altre ragioni critica il compromesso storico in atto che questa è comunque una via obbligata per la sinistra italiana e per la sua forza decisiva, il Partito Comunista; che altrimenti l'indispensabile sua "legittimazione" è impossibile; che qualsiasi altro suo tentativo di conquistare e gestire il potere incontrerebbe invincibili reazioni di tipo cileno; e che pertanto anche ogni eventuale prospettiva di alternativa di sinistra presuppone un passaggio di questo tipo. In parte - inutile nascondersi dietro un dito - si tratta di argomenti validi, o almeno non facilmente confutabili né confutati. Ma ciò non toglie che i rischi cui si è fatto qui cenno siano gravissimi, incombenti, e che si corra il pericolo di un processo degenerativo - autoritarismo non tanto per repressione poliziesca quanto per soffocazione - che risulti irreversibile, tale da stravolgere definitivamente lo spirito laico e garantista della costituzione repubblicana: e tale da trasformare anche

una possibile futura alternativa di sinistra in altra cosa che nella grande occasione di crescita di libertà per tutti in cui abbiamo sperato.

Ne risulta evidente quale sia il compito oggi dell'opposizione radicale. Di certo essa non può, illudendosi di avere una forza che non possiede, caricarsi dei compiti caratteristici delle "normali" opposizioni operanti nei regimi liberal-democratici, dei partiti che, in minoranza, possono porsi realisticamente l'obiettivo di rovesciare i rapporti di forza sottraendo consensi alla maggioranza. Non può insomma supplire all'opposizione che manca. N é ovviamente, finché è possibile, deve limitarsi alla testimonianza e al puro auto - rafforzamento, come è fatale tentazione e talora necessità di ogni esigua minoranza che sia esclusa dalla legittimità sostanziale (non occorre pensare solo agli antifascisti degli anni trenta; si possono ricordare, con più immediata analogia, i repubblicani e i primi socialisti italiani di un secolo fa).

L'opposizione radicale deve invece riuscire a rendere politicamente efficaci e incisive le resistenze che larghi settori della società civile, e numerosi singoli o gruppi anche nella società politica interna all'area del super-partito, cercano e sempre più cercheranno di opporre ai fattori degenerativi che il patto a sei comporta. Deve attivare, con gli strumenti nonviolenti della democrazia, la resistenza dello "spirito delle leggi", delle dinamiche proprie dello stato liberal-democratico, laico, di diritto contro il loro stravolgimento nella logica dello stato - partito.

Lo può? La partita sarebbe probabilmente persa per sempre se non si fosse acquisito lo strumento fondamentale delle 700.000 firme per gli otto referendum. Inutile insistere qui sul valore di questo dato, e sull'importanza vitale della battaglia per difenderli, i referendum: se ne parla altrove nella rivista. Ma è bene ripetere, non lo si farà mai abbastanza, che sono essi gli antidoti più efficaci, forse i soli, contro l'involuzione partitico-consociativo-autoritaria della repubblica; e che attraverso di essi la minoranza radicale può essere l'opposizione che, ancora una volta e più che mai, svolgendo fino in fondo la sua funzione, consente alle grandi maggioranze di governare: senza tutori.

 
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