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Panebianco Angelo - 20 dicembre 1977
TERRORISMO, STATO, STRATEGIA NONVIOLENTA
di Angelo Panebianco

SOMMARIO: L'azione dei partiti di Governo si è indirizzata sulla lotta al terrorismo ed alla criminalità facendo leva sull'insicurezza collettiva. Quando il fenemeno si è radicato nella società i tempi di realizzazione dell'azione sono lunghi. Più il terrorismo si fa attore del panorama politico, più aumenta la repressione collettiva. Nella strategia fra terroristi e sostenitori dello stato forte si innestano altre forze politiche. Ai radicali il compito di individuare strumenti nonviolenti per sbloccare la situazione, soprattutto nelle città, essendo questo tipo di violenza urbana. Possibili interventi: ad esempio la battaglia contro le armi da fuoco.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Dicembre '77 Gennaio '78, n. 5)

""E' relativamente semplice fare una diagnosi teorica delle condizioni e delle cause della violenza politica. Molto più difficile è sapere, ai fini dell'azione politica pratica, come si possono evitare i "giudizi di dio" che ancora affliggono la società (...). Si è dedicato assai più tempo e attenzione allo studio delle modalità secondo cui i processi sociali iniziano e si espandono che non all'analisi di quelle per cui essi terminano"".

H. L. Nieburg

Il consistente aumento della violenza politica registrato negli ultimi mesi, l'insediamento - come protagonista stabile - sulla scena politica italiana del terrorismo, hanno modificato in breve tempo molte fra le principali "equazioni" in base alle quali si definiva l'agire politico e si misuravano e si plasmavano i tradizionali equilibri.

Mentre scriviamo (dicembre '77) tutti i segni sembrano indicare che è ormai in fase avanzata un processo, innestato dalla spirale terrorismo-repressione, di un appiattimento, come è stato ampiamente detto in un recente convegno di giuristi della sinistra (cfr. "La questione criminale", N. 2, 1977), della politica "tout court" in "politica dell'ordine pubblico". Sempre più è apparsa evidente, negli ultimi mesi, la tendenza dell'accordo a sei a definirsi non in funzione di una generale politica di governo, ma in funzione prevalente, se non esclusiva, della "lotta al terrorismo e alla criminalità".

Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: una spirale di leggi repressive che già si è abbattuta o sta per abbattersi sul paese (dalle norme peggiorative della Legge Reale ai progetti in discussione di riforma dei codici).

Si è ormai messo in moto un complesso gioco di azioni e reazioni per cui l'azione terroristica viene concordemente amplificata dalle forze politiche e dai "mass media" ai fini di una "politica dell'allarme sociale" - come è stata giustamente definita nel convegno sopramenzionato - che crea uno stato generalizzato di "insicurezza collettiva" e mette i cittadini sulla strada obbligata della richiesta dello "Stato forte". Al fondo del tunnel, lo spettro della "germanizzazione", della distruzione in tempi rapidi delle principali garanzie costituzionali con l'avvallo e l'attiva partecipazione, per una ironia della semantica, dei partiti dell'"arco costituzionale" (sulla attuale situazione tedesca si veda la sintetica ma efficace analisi di C. von Braunmühl, "Diritti civili e repressione in Germania occidentale", Il Mulino, XXVI, 1977).

La "politica dell'allarme sociale", occorre dirlo, è una politica efficace, generalmente destinata al successo. Fa infatti tradizionalmente leva sulle paure, razionali, ma più spesso irrazionali, della piccola borghesia e su quella che tempo addietro Pietro Ingrao ebbe a definire l'"illusione repressiva" ampiamente diffusa fra le classi popolari (cfr. `La questione criminale', III, 1975, p. 508 e ss.): le classi subalterne propendono, nei confronti delle diverse forme di "devianza", per un atteggiamento ambivalente. Da una parte hanno la tendenza, retaggio di una millenaria cultura pauperistica, a solidarizzare col deviante (brigante o terrorista) perché la trasgressione è vista come un oltraggio o un attacco alle classi dominanti e alle "loro" leggi - molti fra gli operai cui Giampaolo Pansa ha dato voce sulle colonne di "La Repubblica" (18/11/77) dopo l'attentato a Casalegno, esprimevano questo atteggiamento.

D'altra parte però, scatta sempre di fronte alla criminalità politica o comune la paura di essere accomunati dalle classi dominanti al deviante, in definitiva la paura che la repressione coinvolga anche le classi subalterne: da qui l'"illusione repressiva", la tendenza contraddittoria rispetto alla prima, a prevenire la classe dirigente chiedendo "più repressione". L'esistenza di una maggioranza favorevole alla pena di morte, rivelata da recenti sondaggi, si spiega probabilmente sulla base di questi meccanismi.

In questo nuovo corso le forze (sempre più esigue) che si battono ancora testardamente per una espansione delle aree di libertà devono probabilmente rifare alcuni conti: occorre chiedersi se, in queste condizioni, una politica soltanto garantista, puramente difensiva abbia qualche possibilità di successo; se non occorra, alla difesa intransigente dei residui spazi di libertà, affiancare nuove iniziative politiche in positivo che sappiano contrastare la politica dell'allarme sociale modificando quella che rischia di diventare una posizione di retroguardia destinata ad essere travolta dagli eventi e al massimo a risolversi in una testimonianza morale.

La spirale terrorismo-repressione

Abbondano oggi, come è facile verificare con la semplice lettura dei quotidiani, le interpretazioni del fenomeno terroristico e più in generale della violenza politica. Tuttavia non sembra possibile sfuggire alla spiacevole impressione che anche le più intelligenti riflessioni, anche le analisi dei giornalisti e degli esperti più seri comincino a girare a vuoto: a non cogliere le dimensioni più rilevanti del fenomeno. Disponiamo di un gran numero di diagnosi sulla nascita, quindi sui "perché" della violenza politica: dalle teorie strutturali che si rifanno a vario titolo al marxismo alle interpretazioni sociopsicologiche che propongono i modelli della "privazione relativa" o della "frustrazione-aggressione" (vedine un'ampia rassegna in R. Moscati, "Violenza politica e giovani", "Rassegna Italiana di Sociologia", III, 1977) alle analisi politologiche che spiegano la violenza come il prodotto della incapacità del sistema politico a funzionare come canalizzatore delle tensioni per cui tanto più ridotto è il con

flitto interpartitico tanto più probabile è l'esplosione della violenza (la tesi che da tempo Giorgio Galli va sostenendo).

Tutte queste interpretazioni, in misura maggiore o minore, possono aiutarci a capire quali sono le condizioni, economiche politiche ecc., o meglio quale data combinazione di fattori politici, economici, culturali, determina o può determinare l'esplosione del fenomeno. Tuttavia, se possono spiegare la genesi della violenza, nulla o molto poco ci dicono su che cosa accade nei momenti successivi, quando la violenza si è radicata nella società e comincia a manifestare "stabilmente" effetti sul sistema politico, sui rapporti fra i partiti e fra i partiti e l'opinione pubblica.

Intendiamoci, non si vuole minimamente affermare che queste analisi e interpretazioni sono inutili. Tutto il contrario: l'individuazione di una giusta diagnosi è sempre la condizione indispensabile di una terapia adeguata. Solo che le terapie, soprattutto quelle che incidono sull'assetto strutturale di una società (ad esempio, ricostituzione del nesso tra mercato del lavoro e istituzioni scolastiche) richiedono almeno due cose: condizioni politiche idonee e tempi non brevi di realizzazione.

"Le condizioni politiche": è possibile, almeno in astratto, che sulla base di una buona diagnosi un governo di alternativa di sinistra possa predisporre una serie (complessa) di provvedimenti che finiscano per eliminare il fenomeno rimuovendo le condizioni, strutturali e psicologiche, della violenza. E' possibile per esempio la ricostituzione di un rapporto fisiologico fra sistema politico e società civile tale per cui, aumentando il livello del conflitto interpartitico, le tensioni tornino a canalizzarsi nel sistema politico e che questo ricominci a funzionare come strumento di risoluzione pacifica dei conflitti sociali.

Ma una Grande Coalizione "imperfetta" come quella attuale (o domani perfetta con l'ingresso nel governo del PCI) è di per sé una condizione politica che rende difficile, se non del tutto improbabile, l'adozione tempestiva di terapie adeguate.

"I tempi di realizzazione": appare chiaro che, una volta che la violenza si è radicata in una società, anche l'eventuale adozione di terapie adeguate, condizioni politiche permettendo, non garantisce affatto una "immediata" cessazione del fenomeno. Occorre comunque scontare un certo tempo che intercorre fra il momento della elaborazione delle decisioni, il momento della esecuzione e il momento in cui le decisioni cominciano a produrre effetti "visibili" sulla società e sulle "percezioni" dei diversi gruppi sociali. In altre parole: se per ipotesi la disoccupazione intellettuale e lo stato di disgregazione del Mezzogiorno fossero le due principali cause socioeconomiche della violenza, anche il migliore governo di questo mondo non potrebbe rimuoverle dalla sera alla mattina e inoltre, ammesso che dopo un certo periodo e un certo numero di sforzi ci riesca, non è detto che questo incida immediatamente sugli atteggiamenti e sui comportamenti dei gruppi sociali che oggi, per disperazione, si avvicinano alla lotta

armata. Nel frattempo la spirale di "escalation", continua a produrre i suoi effetti secondo un andamento (circolare) di questo genere: violenza -> politica dell'allarme sociale -> aumento dell'insicurezza collettiva -> introduzione di norme più repressive -> aumento generale della repressione -> probabile ulteriore aumento della violenza.

Come nei processi di "escalation" fra due Stati che, a partire da un certo punto, si impegnano in una corsa agli armamenti che termina con la guerra (anche al di là della volontà dei protagonisti) così questo tipo di "escalation" può condurre, come sbocco naturale, allo Stato autoritario. A meno che, naturalmente, non si introducano "nel breve periodo" misure che consentano una "de-escalation", cioè una inversione di tendenza, una nuova e progressiva riduzione dei livelli di tensione sociale e di violenza.

I limiti del garantismo

Lasciamo stare la tesi pessimistica secondo cui la società tardocapitalistica, a causa del suo stesso funzionamento e delle contraddizioni che contribuisce ad accumulare, richiede l'abbandono dello Stato di diritto, non più funzionale, a differenza dell'epoca del capitalismo liberale, al suo nuovo assetto e, al suo posto, l'adozione di forme sempre più autoritarie di gestione del potere (è la tesi, ispirata alle riflessioni della Scuola di Francoforte, che in Italia ha il suo più convincente sostenitore in Federico Stame). E' una tesi che va considerata attentamente ma che tuttavia non sembra lasciare altro spazio se non a posizioni neo-garantiste, certo indispensabili (e non saranno proprio i radicali a negare l'importanza del garantismo!) ma che, come già si è detto, rischiano di risolversi, se il processo sociale in atto è stato correttamente individuato, in una probabile sconfitta. Se non altro perché proprio i partiti di massa della sinistra, che dovrebbero farsi carico del garantismo, sono in realtà su

ben altre posizioni: co-gestiscono insieme alla DC la politica dell'allarme sociale e non si oppongono alla introduzione delle misure repressive.

Dal momento in cui il terrorismo (quali che siano le complicità che lo hanno messo in moto e che contribuiscono ad alimentarlo) si radica in una società, cioè trova condizioni favorevoli di espansione e di riproduzione, da quel momento in poi occorre guardare al complesso gioco politico che si sviluppa, ai processi di azione e reazione che si innescano: il gruppo o i gruppi terroristici diventano attori stabili che partecipano al gioco politico con proprie "strategie" che si intersecano, si scontrano o convergono con le strategie di altri attori politici.

In una fase acuta di de-legittimazione del potere politico che può produrre il livello del consenso interno, la tendenza è all'aumento del grado di repressione complessiva. Infatti le società, fino ad oggi, si sono sempre rette su una combinazione di consenso e di repressione: diminuendo il consenso, il potere politico, se è in condizione di farlo, aumenterà la repressione. E in una fase acuta di delegittimazione del potere politico un meccanismo classico cui si fa ricorso è quello della "identificazione del capro espiatorio", il nemico "esterno" (guerra) o "interno" sul quale e contro il quale canalizzare le tensioni e rinsaldare, così, un consenso generale vacillante. Il meccanismo del capro espiatorio, sia detto per inciso, è molto più diffusamente suscitato in politica, nelle grandi come nelle piccole cose, di quanto abitualmente si creda: il "nemico" viene continuamente creato tanto dalle classi dirigenti all'interno delle società quanto, per esempio, dai gruppi dirigenti all'interno dei partiti per sup

erare eventuali difficoltà dirottando l'attenzione e rinviando la soluzione non gradita di determinati problemi. L'obiettivo è sempre il medesimo: rinsaldare il consenso intorno al potere per mezzo di un diversivo più o meno di comodo.

Attori politici, tattiche, strategie

Tutto ciò significa che il terrorismo è funzionale, all'interno del gioco politico, alla strategia di determinati attori: serve a distogliere l'attenzione dai problemi della gestione del potere nella società, consente di ricostituire una parte almeno del consenso perduto, permette di puntellare ulteriormente il potere politico per mezzo di un aumento del livello di repressione.

Ma le cose non sono così semplici. Perché anche i terroristi hanno una loro strategia, puntano anch'essi a un aumento della repressione (i terroristi di destra perché vogliono ovviamente lo Stato autoritario, i terroristi di sinistra perché lo ritengono la "condicio sine qua non" per spingere le masse alla ribellione e alla insorgenza rivoluzionaria). Si delinea così un'obiettiva "convergenza strategica" fra terroristi e sostenitori dello Stato forte: gli uni e gli altri vogliono la stessa cosa, il perfezionamento dello Stato autoritario. I primi, i terroristi, lo vogliono come obiettivo "tattico" (lo Stato autoritario come anticamera della rivoluzione) e i secondi, ovviamente, come obiettivo "strategico" (in questo assecondati anche dalla violenza della destra neo-fascista).

Ma il gioco è ancora più complesso perché vi partecipano, oltre ai terroristi e ai sostenitori dello Stato forte, anche molti altri attori con strategie diverse e perché lo stesso attore modifica o può modificare, al mutare delle situazioni, la propria strategia.

Il caso italiano è emblematico: per esempio, posto che tutti i partiti dell'arco costituzionale, alcuni attivamente, altri recalcitranti, contribuiscono alla "politica dell'allarme sociale", sarebbe semplicistico e sbagliato sostenere che vogliono tutti la stessa cosa. In realtà si tratta di attori diversi la cui parziale convergenza cela divergenze strategiche anche profonde. Così certi settori democristiani, contrari al compromesso storico, sperano che l'appiattimento della politica in "politica dell'ordine pubblico", serva ad usurare le posizioni e la credibilità del PCI per respingerlo infine, sulla base di rapporti di forza elettorali più favorevoli, alla opposizione. Altri partiti, favorevoli all'ingresso del PCI nel governo, operano perché questo avvenga nei termini di una stabilizzazione sociale garantita da alti livelli di repressione e con la rinuncia a qualsiasi velleità riformatrice. Altri ancora, come il PSI, contrari al compromesso storico, ma incapaci di proporre alternative, vanno a rimorchio

delle iniziative dei due maggiori partiti sulla base del calcolo, poco lungimirante, che mostrandosi recalcitranti potranno apparire agli occhi della opinione pubblica come il partito che fino all'ultimo si è "battuto" per impedire l'introduzione di misure repressive. Ancora, all'interno dello stesso PCI si confrontano più linee: dalla posizione di chi vuole andare al governo "a tutti i costi" e pagando qualsiasi prezzo alla posizione di chi cerca di reagire contro una politica ritenuta suicida.

E, naturalmente, nessuno ha soltanto un asso nella manica, non mancano le strategie di ricambio. All'evolversi della situazione anche i settori oggi contrari all'ingresso del PCI nel governo potrebbero accettare questa soluzione come il male minore se la sinistra si dimostrasse ancora più disposta di quanto non sia già oggi a pagare il prezzo di misure più repressive (e sempre che nel frattempo non si sia verificato un riflusso elettorale di una qualche entità a destra).

Il punto da fermare però, se si accetta l'interpretazione proposta, è che la spirale terrorismo-insicurezza collettiva-repressione o viene disinnescata in qualche modo oppure tende a produrre comunque un perfezionamento dello Stato autoritario (nel caso italiano, "con" o "contro" il PCI). Se il processo di "escalation" descritto corrisponde alla realtà, i commenti dei giornalisti e degli intellettuali democratici (oltre che di molti dirigenti dei partiti di sinistra sinceramente contrari alla continuazione della spirale repressiva) rischiano di risolversi nella testimonianza impotente di un processo che non si è in grado in alcun modo di arrestare.

Una sfida alla nonviolenza

Se la situazione descritta è anche solo minimamente plausibile, ai radicali spetta oggi un compito arduo, tanto più arduo perché, almeno per certi aspetti, è innegabile che la nuova congiuntura li trova non del tutto preparati. I radicali hanno da sempre scommesso sulla maturità della società civile e hanno costruito tutta la loro azione politica sulla idea di una inadeguatezza e incapacità del sistema politico italiano, a causa del suo funzionamento e delle caratteristiche degli attori politici, ad esprimere politicamente questa maturità. La battaglia del divorzio, occorre rammentarlo, vide solo i radicali, all'interno dello schieramento divorzista, pienamente convinti che bisognava andare al referendum e che il referendum si sarebbe vinto perché la società italiana era molto più matura e "moderna" di quanto credessero o fossero disposti ad ammettere i dirigenti degli altri partiti di sinistra, PCI in testa.

Anche la battaglia per l'aborto e oggi quella degli otto referendum sono la conseguenza di questa "scommessa" di fondo: che occorresse dar voce, attribuire più peso politico alla società civile, ricca com'è al suo interno di spinte progressiste, prima che un sistema dei partiti immobilista e fondato sul malgoverno potesse distruggerne le possibilità di espressione. Questa scommessa resta tutt'ora valida e non può non continuare ad essere, come è sempre stata, l'ipotesi di fondo su cui prende corpo, di volta in volta, la strategia radicale.

Tuttavia occorre ammettere che possono darsi situazioni cui contribuiscono i partiti che vogliono impedire una espressione "non mediata" della società civile per conservare sempre e a tutti i costi il proprio "monopolio della rappresentanza" (rinvii elettorali, tentativi di bloccare i referendum ecc.) in cui una "congiuntura" sfavorevole mette in forse, se non compromette; almeno nel breve periodo, la possibilità/capacità della società civile di esprimere e dispiegare dal proprio interno le spinte progressiste che pure contiene: una "politica dell'allarme sociale" incontrandosi e combinandosi con una strategia terroristica può dare luogo a una simile congiuntura.

Occorre chiedersi, in primo luogo, se non convenga individuare, accanto ai tradizionali metodi di azione, anche nuovi strumenti. Ad esempio, la nonviolenza radicale è sempre stata intesa come un efficace strumento che la società civile o settori di essa potevano contrapporre alla "violenza dello Stato". Ma in presenza di una violenza che proviene anche da settori della società civile, contro "questa" violenza, la strategia nonviolenta è ancora efficace? Probabilmente sì, ma in questo caso occorre però letteralmente "inventare" nuovi metodi di applicazione di questa strategia (perché ciò che vale nei confronti dello Stato può non valere, negli stessi termini, nei confronti della società civile). E' questo un nodo teorico, ma non soltanto teorico, che i radicali devono affrontare.

Più in generale: al prodursi di una situazione generalizzata di insicurezza collettiva, occorre al più presto individuare gli strumenti idonei perché questo "stato" dell'opinione pubblica non si risolva secondo le aspettative di chi contribuisce ad alimentarlo. Infatti la grande forza della "politica dell'allarme sociale" sta tutta nel fatto che, costretti in una situazione di paura, i cittadini, per totale assenza di alternative, chiederanno "più repressione". In tale situazione diventa allora necessario andare all'offensiva e non semplicemente "giocare di rimessa" (come si fa abitualmente quando ci si limita a protestare per la "chiusura dei covi" ecc.). Diventa indispensabile offrire almeno una speranza di uno sbocco diverso alla insicurezza collettiva mettendo in atto tutte quelle iniziative che consentano l'allentamento della tensione e la riduzione degli spazi aperti alla violenza.

La carta su cui puntare è ancora, come sempre quando ci si batte per una espansione delle aree di libertà, una intensa "mobilitazione" dei cittadini su battaglie politiche specifiche; il che, sia detto per inciso, è molto diverso dagli appelli del PCI alla "vigilanza" contro il terrorismo che possono innescare processi controproducenti aumentando anziché diminuendo l'insicurezza collettiva, alimentando un clima di caccia alle streghe (è ancora lo spettro del modello tedesco che ritorna) e di delazioni collettive.

Una mobilitazione contro l'insicurezza collettiva

I radicali, ovviamente, già da tempo si sono mossi sulla strada della mobilitazione dei cittadini con la raccolta delle firme prima e con la difesa dei nove referendum oggi: una azione che è lo strumento essenziale, la pre-condizione indispensabile, per dare corpo anche a molti altri progetti di intervento. Perché sempre in queste condizioni il ricorso alla volontà dei cittadini è, di per sé, un potente strumento che canalizzando direttamente il dissenso e/o il consenso sociale "in forma pacifica" può contribuire alla "de-escalation" dei processi del tipo qui descritto.

Se le forze disponibili lo consentono, occorre però che il Partito Radicale sappia contemporaneamente giocare anche sugli altri tavoli. La violenza politica è oggi prevalentemente, se non esclusivamente, "violenza urbana". E' chiaro il perché: come il brigantaggio è una forma di violenza (organizzata) propria di una società agricola, così quella urbana è una forma di violenza propria della società industriale perché è nella città e attraverso la città che si svolgono i suoi processi sociali fondamentali. Occorre allora mettere a punto una strategia di intervento sulla città e sulle sue contraddizioni: più "contro-poteri" si suscitano nella città, tanto più si può restringere lo spazio della violenza. E i contro-poteri sono aggregabili intorno a una pluralità di temi, dalla difesa dei consumatori alle lotte per la casa (requisizione degli alloggi sfitti), chiusura dei centri storici al traffico automobilistico, lotte per i servizi di assistenza ai bambini e agli anziani e molti altri temi sui quali, in divers

e zone e fra difficoltà tremende (e senza sufficiente coordinamento) già oggi lavorano varie associazioni radicali.

Si tratta quindi di puntare, in collaborazione con forze sindacali e altre formazioni politiche della sinistra disponibili, attraverso una costante mobilitazione politica, alla ricomposizione del tessuto urbano. E la mobilitazione pacifica dei cittadini che sfrutti l'attivazione di tutti i possibili canali extrapartitici e extraistituzionali inoltre appare oggi tanto più necessaria mentre si sfilacciano, si logorano e perdono credibilità le arene istituzionali della partecipazione "protetta e subalterna" (vedi tutto l'iter delle recenti elezioni scolastiche).

Alcune indicazioni di intervento

Occorre naturalmente affiancare a queste iniziative tutte le battaglie tradizionali del Partito Radicale per la democratizzazione, smilitarizzazione e sindacalizzazione dei corpi di polizia (problema per il quale rinvio alla analisi di Ernesto Bettinelli: cfr. "Argomenti Radicali", N. 2, pp. 122-138) e per la più completa e immediata informazione a tutti i cittadini sui capi di imputazione degli arrestati per reati politici (perché l'informazione è il pre-requisito indispensabile di un controllo democratico reale e non fittizio).

Ai fini della ricomposizione del tessuto urbano è possibile, ma nel quadro di una lotta per una vera democratizzazione della polizia, formulare proposte volte a ristabilire condizioni di sicurezza e di ordine democratico (che è tutt'altra cosa rispetto al cosiddetto "ordine pubblico"). E' possibile pensare ad istituzioni che hanno dato buona prova di sé nei paesi anglosassoni come, ad esempio, il "vigile di quartiere", stabilmente assegnato a una ristretta area della città, quindi "conosciuto" dagli abitanti della zona che possono rivolgersi rapidamente a lui in tutti i casi di necessità.

Va valutata anche in questo contesto l'opportunità di avviare una grande campagna con modalità da definire (leggi di iniziativa popolare, al limite referendum): contro le armi da fuoco - ritiro dei porto d'armi, riconversione delle fabbriche d'armi, lotta alle complicità che favoriscono il traffico clandestino ecc. - senza illudersi, ovviamente, di poter bloccare in questo modo la violenza ma cercando piuttosto sbocchi alternativi (alle richieste di repressione) per l'insicurezza collettiva. E contando sugli effetti psicologici di questo o di altri tipi analoghi di campagne.

Una campagna contro le armi da fuoco può incontrare le resistenze di certi strati sociali - ad esempio, certe categorie di commercianti - ma può però essere accolta con favore da larghissimi settori della popolazione e, per un altro verso, può esprimere e rilanciare pacifismo e nonviolenza radicale sul terreno della "politica interna".

Nell'ormai famoso rapporto della "Trilaterale" su "La crisi della democrazia" Samuel Huntington e gli altri autori del rapporto concludono optando per una ricostituzione dei modelli di autorità ovunque erosi in Europa negli ultimi anni. La tesi di fondo, che ha trovato una impressionante eco nei più recenti avvenimenti politici in Europa e nel clima di restaurazione che essa sta vivendo, è che "troppa" democrazia è pericolosa per il buon funzionamento dello stesso sistema democratico. I radicali hanno sempre ispirato la loro azione all'ipotesi esattamente contraria: che la democrazia si difende e si rafforza allargando anziché restringendo gli spazi esistenti di democrazia e di libertà. Anche per questo, in collegamento con altri settori della società civile e della società politica (ad esempio, certe forze sindacali), i radicali possono oggi, mobilitando la propria fantasia politica e le proprie capacità, contribuire ad imporre nel paese una battaglia, non necessariamente perduta in partenza, contro le tend

enze autoritarie in atto.

 
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