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Bettinelli Ernesto - 20 dicembre 1977
DISORGANIZZAZIONE, DISAGGREGAZIONE, DISGREGAZIONE
di Ernesto Bettinelli

SOMMARIO: La "disorganizzazione scientifica" di Pannella. Del corpo radicale dal proprio leader? Nel 1973 Pannella dichiara di non iscriversi al partito e cosituisce la Lega XIII maggio. Rimane il dilemma radicale fra organizzazione del partito o spontaneità. Al congresso di Bologna si riconferma lo stato già esistente e l'omogeneità è data dal carisma di Pannella.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Dicembre '77 Gennaio '78, n. 5)

Al congresso straordinario di Roma (luglio 1976: quello della vittoria elettorale, per intenderci) Marco Pannella delineò il futuro del Partito radicale e cercò, in parte, di prevederne le prospettive di medio termine. La parola d'ordine fu: "disorganizzazione scientifica".

Lo slogan immediatamente mise in difficoltà i vari esegeti e destò in certa misura anche preoccupazione e il timore di non saper cogliere in maniera "esatta" il senso del discorso del leader-profeta. E, in verità, l'espressione da decifrare poteva rivelare nei due termini che la compongono possibili antinomie. Come può una disorganizzazione essere "scientifica"? E se deve essere scientifica, non si tratterà per caso di una nuova forma di organizzazione? O forse, ancora, il messaggio di Pannella, che indubitatamente era stato l'artefice primo della conquista dei quattro seggi alla Camera, non poteva essere considerato come l'invito a una disaggregazione di tutto il "corpo" radicale dal suo prestigioso leader?

La dissociazione attiva di Marco Pannella

In favore di questa ultima soluzione - la meno legata al significato formale dei due vocaboli su cui si discetta ma, forse, la più fedele alle suggestioni che essi evocano - giocavano alcune considerazioni di tipo storico.

Si rammentava, innanzitutto, che già al Congresso di Verona (novembre 1973) che segnava la ripresa, o forse anche la rifondazione, del nuovo Partito radicale (con l'apertura ufficiale della prima campagna referendaria), Marco Pannella aveva preannunciato e imposto non solo di non essere alla guida del partito come segretario, ma anche di non iscriversi formalmente al PR. La sua posizione sarebbe stata quella di "sostenitore non iscritto", anche se prima di assumere questo nuovo ruolo candidò a segretario del partito Giulio Ercolessi, che venne eletto pressoché unanimemente.

La seconda fase della dissociazione attiva di Marco Pannella fu la costituzione della Lega XIII maggio, che durante la battaglia per la richiesta del referendum per la depenalizzazione dell'aborto si espresse soprattutto attraverso interventi del suo fondatore sulle colonne de "L'Espresso" e in questa attività certamente molto meritò ai fini del buon esito dell'iniziativa. Sulla struttura e sulla composizione della Lega XIII maggio le notizie sono piuttosto avare, anche perché probabilmente con essa Pannella sperimentò nella prassi le sue teorie sulla "non-organizzazione", la sua capacità di rapprendere e di gestire pretese e stati d'animo diffusi nel Paese, senza la necessità di mantenere rapporti formali con i singoli soggetti e, quindi, senza neanche l'onere di dover in qualche sede e in qualche modo "rendere conto".

Per questo aspetto l'esperienza della Lega non può neppure essere qualificata come esperienza "di movimento", nell'accezione comune del termine, proprio perché non si è rivelata in nessun luogo tipico e con un minimo di stabilità (nessuna assemblea, nessuna relazione diretta formativa-informativa con gli aderenti). Tanto che da più parti si è dubitato che Marco Pannella e la Lega siano stati in ultima analisi la stessa cosa: una finzione che gli conferisse una rappresentatività-legittimità per portare avanti, "motu proprio", battaglie radicali al di fuori del corpo radicale. Altri, più sottilmente, si è trovato a concludere che la Lega sarebbe sorta nel momento in cui gli obiettivi che ne giustificarono il concepimento furono perseguiti.

Lo statuto libertario

Ulteriore elemento non trascurabile per la traduzione della formula - nel senso da ultimo precisato - poteva apparire il riferimento allo statuto del Partito radicale, redatto nel 1967, primo documento che affermasse una metodologia libertaria per la prassi di un partito "nuovo".

Altre volte si è scritto sui contenuti quasi rivoluzionari nel loro anticonformismo di questa Carta, né si può ora riprendere il discorso in maniera puntuale e articolata (volentieri rinvio al saggio di Angelo Panebianco sul n. 3/4 di questa rivista: "Natura e ruolo del Partito radicale: alcune ipotesi interpretative"). Si vuole semplicemente ricordare il programma dello Statuto radicale in alcune delle sue invenzioni più qualificanti.

Partito di servizi per la gestione più tecnica che politica (in senso stretto) degli obiettivi annuali approvati dal Congresso a maggioranza dei 3 quarti; partito più confederale che federale, data la larga autonomia dei partiti regionali e degli altri movimenti federati: tutti a loro volta espressione di associazioni diffuse, rigorosamente autogestite e liberamente federate tra di loro. Nel contesto di questa struttura "volutamente disaggregante", più che convergente con il centro, si spiegano alcuni capisaldi dell'ipotesi organizzativa radicale: l'autofinanziamento e il Congresso per delegati.

L'autofinanziamento: non come traguardo, ma come strumento minimo per la realizzazione dei servizi finalizzati a disposizione anche di tutte le singole entità radicali (e sulla capacità dell'autofinanziamento così come sulla sua prevedibilità, quale dovrebbe risultare da una rigorosa redazione di bilanci preventivi, si misura la possibilità e la probabilità d'azione politica del partito e la sua stessa effettiva esistenza). L'autofinanziamento è, poi, quasi una delle manifestazioni più clamorose di un fondamentale postulato libertario: l'utilizzazione di tutte le risorse (materiali ed umane) e, quindi, di tutte le attitudini, liberamente rese disponibili dagli iscritti (liberamente, cioè senza il ricorso a quelle forme di coazione burocratica e morale vigenti in altri organismi associativi). In altri termini: un perentorio rifiuto del professionalismo politico.

Il Congresso per delegati

Nel modello statutario il Congresso per delegati non è una contraddizione, ma - anche se a prima vista può sembrare paradossale - l'affermazione sostanziale della partecipazione e della concezione di democrazia diretta e autogestita che dovrebbe far vivere le comunità radicali. Giacché se le istanze periferiche, disaggregate e autonome rispetto al centro, sono i veri soggetti politici, portatori di proposte e di mobilitazioni civili, è in quelle sedi che gli iscritti esprimono le loro opzioni e concorrono in un dibattito formativo.

l delegati delle singole associazioni, in questo quadro, si presentano al Congresso non come "rappresentanti", ma come "rappresentativi" e in grado "effettivamente" di adottare le decisioni e i programmi vincolanti per l'intero partito. Il quorum dei tre quarti richiesto per la loro immediata validità si spiega anche nell'ambito di questa complessa previsione strutturale (che, collegata all'ipotesi fondamentale del partito progettuale, costituisce un decisivo contrappeso ai tentativi di correntismo, frazionismo e di degenerazione burocratica, difetti endemici dei partiti di massa tradizionali).

Il dilemma radicale

Angelo Panebianco nel suo saggio già citato aveva illustrato i termini del dilemma che i radicali si sarebbero necessariamente trovati a fronteggiare nel Congresso di Bologna: "rafforzare l'organizzazione oppure preservare, sia pure con i necessari adattamenti, il carattere spontaneo del partito".

Questo schema calato nella realtà del microcosmo radicale significava in pratica scegliere tra l'ipotesi tracciata dalla Carta del partito (quella disaggregazione per soggetti politici autonomi e decentrati di cui si è appena fatto cenno), oppure il consolidamento della prassi vigente, in cui la "spontaneità" è l'assoluta indifferenza nei confronti del partito come fatto associativo (e quindi nei confronti del problema della "qualità" dei rapporti tra gli aderenti). Nella spontaneità è prevalente la tensione generosa e a volte incondizionata verso l'obiettivo, in una relazione che non sopporta filtri o mediazioni e che talora cade (o sale) anche in manifestazioni di misticismo e alienazione.

Che al Congresso di Bologna ci fossero sufficienti presupposti per sciogliere questi nodi era provato da un certo numero di novità rilevanti.

Il successo, prima di tutto, della prima fase dell'avventura referendaria: la raccolta delle firme necessarie per la richiesta abrogativa di tutte e otto le leggi autoritarie, fasciste, corporative contro cui i radicali avevano promosso la campagna; il successo di un'organizzazione che si era fatta gradualmente e consapevolmente anche a livello di base, di associazioni locali; il minor peso che, rispetto ad altre battaglie, ha avuto Marco Pannella (occupato "full time" in Parlamento). Nonostante l'impegno quasi totalizzante per portare a buon fine il progetto referendario e a partire da luoghi differenziati rispetto al "centro romano", collettivi radicali hanno tentato di aprire nuovi fronti: la lega per l'energia alternativa, importanti iniziative editoriali, quale quella di "Argomenti Radicali" (la volontà di coniugare la prassi e le lotte radicali nella prospettiva dell'alternativa socialista).

Lo stesso consiglio federativo - seppure a fatica e in non molte occasioni (ma il confronto è con il niente di prima) - si è trovato a scoprire la sua potenziale politicità. E forse si potrebbe continuare con altri dati e con altri sintomi.

La ricchezza radicale

Dunque il Congresso poteva essere l'occasione per un censimento di tutte le nuove disponibilità radicali, per un arricchimento e quindi un rafforzamento del partito come comunità. Oltretutto una simile esigenza era anche imposta dalla seconda fase della battaglia referendaria. Nel momento in cui tutti i tentativi di manipolazione delle regole del gioco da parte di alcuni partiti dell'esarchia (in primo luogo del PCI), per far "rinviare" la convocazione dei comizi elettorali, previsti per la primavera del 1978, sono stati sventati da pronte risposte radicali (la petizione popolare, interventi stampa sui maggiori quotidiani nazionali, il Convegno giuridico di Firenze), all'ordine del giorno dell'assemblea di Bologna figurava inevitabilmente il punto centrale: quali iniziative politiche per vincere con l'abrogazione i referendum. Quali iniziative, al plurale. E, in effetti, una campagna di questo tipo richiede una mobilitazione massiccia, ma anche diffusa e articolata, seppure condotta in una linea corrente e i

l cui presupposto indispensabile è la crescita o, se si preferisce, la trasformazione della prassi del partito (secondo il metodo statutario).

Occorreva (e occorre) impostare le basi per il "partito dei cittadini", il quale organizza i propri servizi (con particolare riguardo agli strumenti di informazione e di formazione) proprio in loro funzione. E se "i cittadini" non sono una categoria astratta, ma davvero i cittadini che vivono non solo a Roma, ma in tutte le località della penisola e svolgono attività e coltivano interessi differenziati, ecco che il discorso della disaggregazione radicale assume un preciso significato: i partiti regionali; il Consiglio federativo rappresentativo (e centro di elaborazione politica); l'utilizzazione di tutte le risorse e di tutte le attitudini; il rifiuto dell'integralismo della prassi (quello che ispira invece Adelaide Aglietta quando, in un'intervista su "La Repubblica" del 3 novembre 1977, rimprovera ai compagni di A.R. di essere "latitanti" sui digiuni).

Il ruolo del leader

In una simile prospettiva verrebbe nella sostanza a cambiare il rapporto tra il "corpo radicale" (che a questo punto magari avrebbe una sua testa) e il leader esterno, carismatico, storico o comunque lo si voglia chiamare: insomma, Marco Pannella. Il quale, in una situazione così articolata e così ricca, potrebbe svolgere la sua attività politica più liberamente, senza quelle grandi responsabilità che - come Panebianco rilevava nel suo saggio-gravano sui capi carismatici: "in primis" la necessità di un eroismo non solo ad uso esterno, ma ad uso anche interno (che consente al capo carismatico di ricomporre il coro, appena i solisti escono dal mucchio).

Nel contesto di questa ipotesi di crescita libertaria e laica del partito radicale, anche il tema spinoso di come "non utilizzare direttamente i fondi del finanziamento pubblico" si sarebbe naturalmente sdrammatizzato e pure la scelta di conferire al gruppo parlamentare la responsabilità della sua gestione poteva essere una soluzione non avvilente (come invece è parsa), proprio nel momento in cui si riusciva a mettere in chiaro (nella sostanza e non solo nella forma) che il gruppo è "cosa altra" rispetto al partito (che è in quanto prende coscienza dell'insieme delle proprie identità).

La riconferma dello stato esistente

Il Congresso di Bologna ha voluto riconfermare lo "stato esistente" del partito, ha congelato qualsiasi ipotesi di crescita; il "Centro romano" si è arroccato sotto la campana della tradizione (o del conformismo) della prassi e dei ritmi finora sperimentati (e vincenti) e ha chiamato a raccolta i "fideles fidelium", mettendo in conto la disgregazione del partito, nel rifiuto - per richiamare un'immagine suggestiva - di qualsiasi "vento del Nord". Vediamo perché.

Paradossalmente il "pieno" nel perseguimento degli obiettivi (gli 8 referendum) fissati nel precedente congresso ordinario di Napoli, ha generato la paura del "vuoto".

La classe dirigente radicale ha temuto, in ultima analisi, la possibilità e la probabilità di uno scollamento del partito, nel momento in cui i militanti non potevano essere "tenuti" e "impegnati" in un progetto altrettanto totalizzante-stressante-appagante come quello della raccolta delle firme. Si è pensato che dovesse essere a tutti i costi preservato quel patrimonio di omogeneità e di abitudini mentali comuni e di tensione che si era costruito intorno al "centro". No, quindi, a qualsiasi ipotesi di reale disaggregazione, di conquista da parte di ciascuna componente della famiglia radicale di un suo ruolo, sia pur concorrente e complementare: il partito non è (non può essere) quello tracciato dallo statuto, ma quello che è "vissuto" fino ad oggi.

Quanti nel congresso hanno proposto che la tensione comune si trasformasse nel "ragionamento" comune sono stati (e riferire il come mi pare un dettaglio su cui volentieri non mi soffermo) "correntizzati". La "leadership" ha preteso (e in una certa misura - bisogna riconoscerlo - c'è riuscita) lo scontro con i "distraenti", facilitata in questa operazione dall'andamento di un Congresso troppo caratterizzato da episodi marginali, quali la folle denuncia della infiltrazioni fasciste nel partito radicale sulla quale Caputo ha avuto la soddisfazione di una certa eco di stampa, che ha perfino considerato seriamente la sua "scissione".

Il risultato di questa chiusura a riccio di Gianfranco Spadaccia e compagni è stato il mancato conseguimento (data l'alta percentuale di astensioni) del quorum dei tre quarti sulla mozione programmatica (successivamente ratificata a maggioranza dei due terzi dal Consiglio federativo, eletto dal Congresso stesso, e quindi divenuta vincolante per tutto il partito).

L'esigenza di omogeneità

In linea teorica, quello che poteva sembrare uno smacco per chi aveva voluto a tutti i costi imporre una rottura nel partito in verità non lo è. In primo luogo perché il contenuto progettuale della mozione politica maggioritaria è generico e ovvio nei suoi punti focali (certo, bisogna continuare a difendere i referendum; ma attraverso quale partito radicale, come, e con chi, questo non è sicuramente argomentato in modo entusiasmante) e in altri punti è un semplice rinvio del dibattito su temi che non avrebbero dovuto essere considerati procrastinabili (da qui il Convegno sul Partito radicale e il Congresso straordinario sui problemi statutari). In secondo luogo perché l'obiettivo di una disgregazione del partito per garantire l'omogeneità di tutto il gruppo dirigente è un fine voluto razionalmente. E anche questo si spiega.

In assenza di un progetto politico per l'immediato futuro occorre individuare un surrogato unificante e questo non può essere che la personalità, il carisma di Marco Pannella. Colui che fondatamente è ritenuto capace, con le sue iniziative e intuizioni non programmate e non programmabili, di supplire e di creare nei momenti più opportuni le grandi mobilitazioni, la chiamata a raccolta della massa radicale. Da qui anche la coerente e conseguente decisione del deferimento a Pannella della responsabilità della gestione dei fondi pubblici, proprio perché il cervello motore delle iniziative radicali viene riconcentrato nella testa (che forse è anche la sua sede più naturale) chiamata a riassorbire il corpo.

In questa scelta c'è chiaramente la rinuncia cosciente al partito-comunità (così come prefigurato dallo statuto), per avere assicurata una presenza politica non aleatoria e costante nella società civile. Si tratta, in sostanza, di una valutazione assolutamente pessimistica (ma questo non toglie che possa essere considerata plausibile) della situazione radicale: la costruzione del partito-nuovodisaggregato della sinistra italiana valutata oggi come fattore antitetico e recessivo rispetto all'esigenza di avere uno strumento fluido (magari molle), però sempre pronto e capace di incisione nella società civile e nei rapporti conflittuali con le altre forze politiche.

Pannella nel partito

Come si colloca Pannella in questa strategia? Sicuramente ne è l'artefice primo. Troppi elementi concorrono a suffragare questa affermazione.

Già lo scorso anno in un'intervista a "Prova radicale" (n. 3, ottobre 1976), Marco Pannella aveva dichiarato testualmente: "E possibile per quanto mi riguarda che nel 1978, lasciando il Parlamento, torni ad occuparmi "per alcuni anni" del partito" (corsivo mio). Ed è chiaro che se Pannella si propone di impegnarsi ufficialmente nel partito per "occuparsene", occorre spianare la strada - anche a colpi di ruspa - per un simile evento.

I ritmi, i tempi e i modi che Pannella impone alla sua azione politica non possono dunque che essere quelli del partito: un partito unito da forti tensioni, in cui se il dubbio critico può coabitarvi deve, in ogni caso, essere sempre successivo rispetto alle mobilitazioni. Insomma il partito come strumento flessibile, il partito che "nasce e poi muore e muore per poi rinascere": il modello potrebbe essere riferito in una certa misura a quello che avrebbe dovuto essere la Lega XIII maggio (qualcosa che c'è, si sente, ma non si vede).

Convegno e congresso straordinario

In questa prospettiva la funzione delle due iniziative vincolanti approvate a Bologna, il Convegno sul partito e il Congresso straordinario sulla "attualizzazione" (e non attuazione!) dello statuto, dovrà essere abbastanza precisa: conferire una identità ufficiale al partito radicale attraverso la teorizzazione della prassi (al singolare) delle sue componenti egemoni, rivedere formalmente alcune norme della carta fondamentale ed eliminare, in particolare, la disposizione inattuata che contempla il congresso per delegati, al fine di razionalizzare la consuetudine dell'assemblea-happening aperta a tutti gli iscritti. A questo punto dovrà però essere chiaro che è un modello di riferimento, un'intera ipotesi di articolazione comunitaria ad essere cancellata.

Sarebbe comunque errato in un simile contesto parlare di partito monocratico o tanto meno autocratico, perché non esiste il problema di un'autorità che si impone, ma la semplice presa d'atto di una volontaria e totale adesione (in questo è lo spontaneismo) non di soggetti politici, ma "di massa".

La disgregazione

Funzionale a questa ipotesi è in questo momento, salvi auspicabili "ripensamenti", la volontà di disgregazione del partito radicale in ciò che di autonomo ha saputo esprimere. Siccome la prassi radicale non prevede il rituale delle espulsioni formali delle frange distraenti, si ricorre al comunicato-messaggio: "un fraterno augurio a Caputo e al suo movimento radicale di sinistra e a quanti finalmente si decidessero a fare anche loro un movimento radicale di destra, dopo quello che nel 1963 creò, per un paio di mesi, Leone Cattani". E "Il Giornale" che conosce (e in ogni caso sa informarsi sulle interpretazioni autentiche) i codici linguistici del leader carismatico radicale ci riferisce (3 novembre), che l'allusione è all'ingenuo Massimo Teodori ("un intellettuale lacerato dal contrasto tra slanci e dubbi"). Massimo Teodori, però, proprio perché non è Leone Cattani, ha deciso assieme agli altri compagni "correntizzati" di continuare responsabilmente la sua militanza nel Partito radicale per proseguire con l'

ottimismo della volontà a lavorare attorno alla ipotesi del "partito nuovo della sinistra italiana": il partito dei cittadini.

Il sottoscritto, invece, molto irresponsabilmente, ma con il pessimismo (relativo) della ragione, non ha rinnovato la tessera; eppure, come cittadino e come radicale si aspetta che all'orizzonte, e a dispetto dei profeti, ci sia "finalmente qualcosa di nuovo".

 
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