SOMMARIO: Il compromesso storico consente da una parte di approvare una mole enorme di leggi liberticide che il Pci, quando era all'opposizione, non avrebbe mai consentito e dall'altra di far sopravvivere la Dc alla sequela di scandali in cui è coinvolta. Marco Pannella nell'analizzare questo quadro deteriorato della vita politica italiana avverte i radicali del rischio di dirottare la conflittualità radicale dalla lotta contro il regime partitocratico alla lacerazione interna.
(Notizie Radicali Gennaio 1978 da " Marco Pannella - Scritti e discorsi - 1959-1980", editrice Gammalibri, gennaio 1982)
Pierpaolo Pasolini aveva chiesto, riprendendolo da richieste ufficiali del Partito radicale, un "processo di regime". Un vero processo. Ne abbiamo invece a dozzine.
Da Trento a Catanzaro, da Brescia a Napoli, da Peteano a Roma, ministri, generali, ex presidenti del Consiglio, salgono e scendono da banchi dei testimoni e degli imputati, vengono arrestati e liberati passando qualche notte nelle infermerie delle carceri. Questo balletto, appena meno frenetico degli incontri "a sei", "a tre", che da un anno sempre più intensamente producono caos sociale e bancarotta economica, riguarda cittadini saltati in aria per difendere equilibri politici dissennati e infami, carabinieri massacrati, assassini assoldati e protetti efficacemente dai loro mandanti, altissimi funzionari di stato addetti ai segreti della corruzione finanziaria della classe politica di regime. La verità comincia a intravedersi, pur soffocata e offesa ogni giorno dalla Rai-Tv lottizzata ma unita, da Barbaro a Selva, così come già era riuscita a farsi qualche breccia col "caso Lockheed".
Tutti gli interlocutori privilegiati e necessari della trentennale politica comunista del 'compromesso storico", dai Moro agli Andreotti, dai Colombo ai Rumor, dai Cossiga a Carli, dagli Agnelli ai Ventriglia, dai Fanfani ai Leone, appaiono e sono come uno stesso, cangiante volto della stessa realtà. I comunisti sono ormai i curatori fallimentari del regime, dal quale e dai cui fasti e nefasti furono a lungo tenuti esclusi e cominciano a essere presi pericolosamente dalla difesa di interessi che non furono e che restano e sono sempre stati antipopolari, oltre che, da qualche anno, decisamente impopolari.
La maggioranza parlamentare dei sei partiti PCI, DC, PSI, PSDI, PRI, PLI vive ora momenti e situazioni di paura e di "ultima spiaggia". Il Paese, la gente, sono stanchi, non comprendono più. Più a Roma sono uniti, più le maggioranze parlamentari sono enormi, e più ordine pubblico, economia, ecologia sembrano precipitare nel caos.
I partiti si chiudono sempre più, anche al loro interno: solamente il PCI sembra avere una qualche attività di base, ma anche qui si tratta del tentativo poderoso ma temerario di condizionare sempre più l'informazione e l'opinione delle grandi masse democratiche, sfiduciate e esasperate, attraverso un gigantesco apparato burocratico, che sta acquistando il carattere di ozio e di vero e proprio para-Stato.
Si temono elezioni politiche, referendum, congressi, amministrative, circoscrizionali, processi, dimissioni di Presidenti della Repubblica e del Consiglio, i pubblici processi: si temono, in realità, tutti gli avvenimenti che possono dare la parola al popolo, alle masse, o possono contribuire a informarli e a far loro prendere coscienza della radicalità della crisi.
Il PCI è l'unico, anche se non del tutto consapevole, baluardo di difesa di una DC in putrefazione. Non ammesso al Governo, nemmeno in cambio dei suoi immondi servigi, non trova via che quella di dare sempre più potere alla DC (col limitarne il deperimento), a un partito che non ha raccolto nemmeno il 40% dell'elettorato e che meno ancora ne raccoglierebbe se non potesse usare tutto il potere romano governativo, da sola, per continuare a nutrire il suo gigantesco apparato clientelare e di corruzione.
Così lo Stato va in sfacelo. Le leggi repubblicane volano a pezzi non certo per il potere di qualche centinaio di brigatisi rossi, in servizio effettivo o di complemento; anche se è molto comodo dar loro la colpa del caos. In Inghilterra, dove imperversa da un decennio, ormai, la guerra civile nelle regioni irlandesi, e la criminalità non è meno agguerrita che da noi, economia e diritto dello Stato si sono raddrizzate spettacolarmente.
Lo Stato di diritto è ammazzato, certo, un po' di più ogni giorno. Ma, come da trent'anni, è il potere a distruggerlo. Le leggi che stiamo votando in Parlamento sono liberticide, non di rado incostituzionali, tecnicamente indecenti. Si scopre che il regime della menzogna democristiana ha truccato i bilanci dello Stato, per ingannare il Paese e i creditori stranieri, franati nel baratro di oltre trentamila miliardi di deficit. Quando saremo arrivati a quarantamila o cinquantamila, se non ci siamo già, la DC darà forse qualche ministero al PCI, per qualche tempo, per portarlo alla lacerazione sociale e alla tentazione efficientistica autoritaria.
Intanto avrà riempito la Santa Barbara reazionaria di leggi classiste, violente, ultra-fasciste, avrà ottenuto la definitiva liquidazione delle armi repubblicane costituzionali. E potrà usarle contro le masse dei disperati e dei ribelli che a milioni premeranno alle porte del diritto alla vita e al lavoro, alla libertà e alla pace, loro negati per proteggere i meccanismi di profitto parassitario e selvaggio, su cui lo Stato etico e corporativo italiano ormai fonda la sua esistenza.
In questo quadro, l'attacco ai referendum antifascisti e costituzionalisti sta diventando un imperativo categorico. Se il Paese facesse giustizia di tutto l'armamentario di regime, dai codici Rocco e Reale a quelli militari, all'Inquirente, al finanziamento pubblico dei partiti, al Concordato clerico-fascista, non vi sarebbe più altra possibilità di governare, in Italia, che quella fondata sulla partecipazione, la fiducia, la lotta democratica delle grandi masse dei lavoratori, dei ceti medi, del proletariato, del sottoproletariato e degli esclusi (ceti, questi ultimi, non più separati sociologicamente dagli altri: i disoccupati e i sottoccupati, gli emarginati della prima e della terza età, pensionati e disoccupati giovani, emigrati e immigrati di ritorno, la stessa media borghesia già professionale, s'intrecciano sempre più strettamente); sulla loro conseguente capacità di controllo e di autodisciplina, di recupero di interesse e interessi sociali per la gestione democratica dello Stato.
Più libertà nello Stato, significa necessariamente anche più libertà e diritti della classe nella produzione, nel lavoro, nei partiti e nei sindacati, nelle città e nelle campagne, nelle strutture, nelle sovrastrutture, nelle infrastrutture.
Senza le leggi che il movimento radicale, alleato con quello comunista di sinistra, è riuscito a trascinare nel meccanismo dell'abrogazione referendaria popolare (non dobbiamo dimenticare che sono stati impiegati cinque anni interi di lotte e di propaganda per arrivare quest'anno a questo risultato), le leggi Cossiga, Bonifacio e compagni della maggioranza attuale non sarebbero nemmeno proponibili. Senza potere repressivo di classe, senza leggi anticostituzionali, lo scontro sociale vedrebbe rovesciate le attuali prospettive e gli attuali equilibri. Gli stessi meccanismi finanziari e industriali si troverebbero a dover conquistare un carattere democratico, quanto meno fraudolentemente. Il "processo" chiesto da Pierpaolo Pasolini sarebbe a questo punto iscritto anche nelle cose e non nella soggettiva coscienza di pur prestigiosi gruppi o individui destinati alla sconfitta, alla solitudine della profezia o della disperazione.
E' dunque logico, naturale che questo "Stato" si presenti unito e puntuale contro l'appuntamento referendario. Dalla Corte di Cassazione a quella Costituzionale, dal Parlamento alla Presidenza della Repubblica, dall'esercito degli esperti a quello degli amministratori di partito, in particolare quelli dei quarantenni del PSI.
Mentre scrivo questi appunti, non sappiamo ancora cosa le determinanti, conclusive settimane di dicembre e gennaio ci hanno portato sul fronte della difesa della Costituzione e dei referendum.
Si tratta di sapere se siamo riusciti a far esplodere le contraddizioni (che sono anche contraddizioni di classe, immediate) di regime, se non quelle di sistema. Il punto di maggior debolezza della nostra lotta è, soggettivamente, quello di un movimento radicale che coincide nella iniziativa politica e con l'iniziativa e la (straordinaria) capacità di lotta del solo "centro" del partito. C'è infatti del vero negli attacchi che da qualche anno, come un vecchio disco distrutto, va ripetendo un giovane dinosauro liberal-radicale: nel PR troppo spesso non v'è che il "centro", il gruppo "romano". Le lotte si conducono ovunque, a condizione che nascano, siano organizzate, coordinate, proposte, guidate a Roma.
Vi sono Università, giuristi, economisti, "democratici", assemblee elettive, parlamentari, esponenti nazionali dei partiti, in tutte le riunioni italiane; vi sono giornali e centri Rai-Tv un po' ovunque. Ovunque vi sono liberali e comunisti, studenti, disoccupati, drogati, omosessuali, femministe, carceri, tribunali, scuole, prefetti, Seveso più o meno gravi. Se da questo "ovunque", come lo statuto del PR prevede, esige, l'iniziativa radicale, in questo caso quella della difesa e della offesa in tema di Costituzione e di referendum, fosse riuscita a proporsi e affermarsi, la battaglia sarebbe stata vinta, già a ottobre, se non qualche anno prima.
Lo scandalo soffocato e silenzioso del sabotaggio e della violenza contro la Costituzione, contro i referendum, è tale che nelle facoltà di giurisprudenza, fra operatori del diritto e intellettuali, gente del movimento e vecchi democratici, è individuabile, a Trieste non meno che a Catania, a Ancona o Firenze, Milano o Bari.
Le dichiarazioni e le manifestazioni, le iniziative di lotta di ogni tipo, sembrano esistere nel movimento radicale solamente se "centralizzate" a Roma. Gli intellettuali, i giuristi, gli alleati vengono alla luce se da Roma, da via di Torre Argentina, li si cerca, con il Diogene della Segreteria o di Notizie Radicali, del Comitato per il referendum o della Presidenza del Consiglio federativo. Ci sarà dunque, certamente, qualche verità nelle accuse surricordate; ma meno di quanto non vi sia di impudicizia e di commiserabile irresponsabilità.
La logica di regime sarà vincente fino a quando le intuizioni che sono dietro le norme statuarie del PR non troveranno in tutto il Paese una moltiplicazione delle centralità radicali di lotta e di scontro: questo Stato DC ha bisogno di partiti giacobini e non libertari, di fronti "romani", esclusi e centralizzati, monocefali, strutturalmente omogenei, simili alla sua morfologia.
Ormai, il movimento radicale ha prodotto tutto quanto era immaginabile per occupare ogni luogo di scontro, istituzionale e no, all'interno della dimensione "romana" dello Stato. Resta invece scoperto, o quasi, ogni altro luogo che non sia "romano". Com'è immaginabile condurre la lotta contro le nuove leggi sull'ordine pubblico, sul fermo di polizia, sulle intercettazioni telefoniche, o quelle per l'amnistia, contro la legge sull'aborto, se quotidianamente non v'è una sola iniziativa di rilievo, mai o quasi mai, nella stragrande maggioranza delle città italiane, delle regioni?
Si comprende quindi assai bene se la conflittualità dei tanti compagni viene dirottata da quella per la quale si è radicali (almeno lo si presume), a quella "interna". E' questo il riflesso tipico di forze e gruppi isolati e battuti politicamente: i movimenti sociali e politici di opposizione si lacerano, si dilaniano nella ricerca delle responsabilità, di sconfitte vere o temute, quando sono ormai fuori gioco per motivi oggettivi, perché sconfitti dall'avversario, che così può meglio volare verso la vittoria finale.
Dobbiamo dunque stare tutti molto attenti a questa sorta di fatale pseudo-dinamica di gruppo, e, tutti insieme, cercare di superarla senza impazienze, intolleranza, irresponsabilità. Ma anche e soprattutto senza attardarsi in polemiche distraenti e destinate a vivere e sopravvivere nell'esatta misura in cui diventano mera maschera di attacchi esterni: senza La Repubblica, Il Messaggero, Paese Sera, specialisti in provocazioni e vittime di viscerale anti-radicalismo, le cieche reazioni, al Congresso di Bologna, spesso appassionate e dolorose quanto più immotivate e superficiali, non sarebbero durate più di qualche ora. Se soggettivamente sono queste alcune delle maggiori difficoltà che il movimento e il Partito radicale devono tener presente e riuscire a superare, ve ne sono altre, oggettive, sulle quali non v'è molto da dire, ma solo da ricordare e precisare.
Il punto di forza centrale, determinante e massiccio, della politica e degli interessi del regime, è da individuare nel momento dell'informazione, cioè nel momento costitutivo della stessa possibilità della lotta politica. Non abbiamo alcun dubbio che se vi fosse una informazione politica seria, leale, obbiettiva, non esisterebbero ormai in Italia che quattro forze politiche e alcune frange: DC, PCI, PSI, PR. E, in tali condizioni, non si potrebbe non giungere all'unificazione socialista fra PSI e PR. Da Democrazia Nazionale al Partito liberale, dal PRI al PSDI, a parte dello stesso MSI, si può ormai esser certi che non si tratta che di meccanismi prodotti dalla lottizzazione dell'informazione, con l'aggiunta del finanziamento "pubblico". Non sono forze politiche autonome, né idealmente, né concretamente. Il PDUP-Manifesto sta al PCI come DN alla DC.
Ma questa informazione leale e onesta non esiste. Si tratta, certo, di conquistarla, prima che si sia distrutti dalla sua assenza. A volte temo che se i compagni radicali avessero, o meglio, creassero, una rete informativa interna e militante più regolata e estesa, e cessassero dalla tormentosa, obbligata, quotidiana ricerca di un'oncia di informazione alla Rai-Tv e sulla stampa su quanto più direttamente li interessa (ma che interessa anche la generalità dei cittadini, almeno al pari di quanto non li riguardi le cronache di incontri di Corte nel Palazzo fra i baroni, valvassori e valvassini dell'esarchia), sarebbe ulteriormente indebolita la lotta vitale per assicurare a tutti, e non a se stessi, il diritto di conoscere per poter scegliere e deliberare...