di Stefano RodotàSOMMARIO: Due questioni vengono essenzialmente affrontati nel corso del convegno, quella dell'istituto del referendum che progetti di legge comunisti, socialdemocratici, democristiani sottopongono a revisioni più o meno decise e il disegno di legge governativo in tema di ordine pubblico. Questi due temi vengono affrontati in relazione ai principi stabiliti dalla Carta Costituzionale.
("REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE", Rispondono i giuristi. Atti del convegno giuridico organizzato dal gruppo parlamentare radicale - A cura di Ernesto Bettinelli e Luca Boneschi - Tascabili Bompiani, marzo 1978)
Mi voglio soffermare su un punto che mi pare emerso con molta nettezza dalla discussione. In tutte le proposte relative la referendum e negli accenti fatti sul funzionamento della Corte costituzionale, credo che ci sia un elemento comune: dare più tempo al Parlamento per lavorare.
In questo modo, però, l'esigenza della centralità del Parlamento rischia di risolversi in una sorta di ingiustificato e pericoloso protezionismo parlamentare. Valerio Onida ha già messo in guardia contro i rischi altissimi di incentivare ulteriormente la propensione al rinvio, all'aggiramento e all'accantonamento dei problemi, che è diventata una delle caratteristiche perniciose del nostro sistema politico. In via di fatto la richiesta di dare alle Camere più tempo per decidere non è sostenuta da ragioni convincenti.
Consideriamo, ad esempio, le leggi cui si riferiscono le richieste del referendum. Il Parlamento ha avuto, in certi casi, più di trent'anni per intervenire e risolvere le questioni che oggi, drammaticamente, i radicali propongono. E' questo un argomento retorico? Forse, ma anche la politica ha la ``giusta'' retorica.
E non diverse sono le considerazioni che ispira la proposta di moratoria delle sentenze costituzionali, che non dovrebbero produrre immediatamente i loro effetti per consentire al Parlamento di intervenire e di non essere preso in contropiede dalle decisioni della Corte. Francamente credo che questa sia una richiesta ingiustificata. Chiunque abbia pratica di ciò che è avvenuto nel campo della giustizia costituzionale, sa che in molti casi la Corte informalmente si è preoccupata di informare il Governo e le Camere del fatto che stava per essere emessa una sentenza che dichiarava costituzionalmente illegittime alcune norme, sì da consentire al Parlamento stesso di intervenire in modo da evitare l'insorgenza delle temute lacune legislative. In rarissimi casi tutto ciò è stato avvertito come un segnale da parte del Parlamento; in altri casi questi inviti informali non sono stati raccolti.
Ma guardiamo ancora una volta ai dati formali. Nel 1968, con la sentenza n. 55, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittime talune norme della legge urbanistica del 1942: ci sono voluti quasi dieci anni perché il Parlamento intervenisse, e lo stesso è accaduto in materia di equo canone o di monopolio radiotelevisivo, per fermarci ai casi più noti.
Chiedere quindi sei mesi o sessanta giorni di moratoria per le sentenze della Corte è una ipocrisia o una mistificazione che nasconde altri obiettivi che non quello della funzionalità del Parlamento. La verità è che, a mio giudizio, anche in questo proibizionismo parlamentare si incarna la tendenza a una semplificazione autoritaria del nostro sistema politico e istituzionale. In altri termini, non è il Parlamento che guadagna per forza propria capacità di intervento o di regolazione complessiva della vita sociale ed economica: è il Parlamento che cerca di impedire che gli altri possano intervenire in settori determinati.
Né credo che serva a molto tirare in ballo la questione della legittimazione democratica della Corte, poiché questo è un problema posto da decenni per la Corte suprema negli Stati Uniti, senza che ciò abbia comportato reali distorsioni nel funzionamento del sistema politico di quel Paese. Qui sta il punto ed è questa la chiave per valutare le stesse ``interferenze'' della Corte: possiamo forse ignorare che la sentenza chiave sulla Rai-Tv fu emanata quando già si stava per varare una riforma che contraddiceva precedenti (e modestissime) indicazioni della Corte?
Non voglio fare difese d'ufficio di nessuno: affermo che lo stesso fenomeno delle supplenze non può essere riassorbito con interventi legislativi che formalmente deprimono i poteri della Corte. Questo, infatti significherebbe chiudere uno dei canali di trasmissione delle domande politiche, che in questi ultimi anni sono serviti anche come ammortizzatori di tensioni presenti nel sistema e non mediate dalle Camere, governo, partiti.
Mi pare che Gustavo Zagrebelsky ponesse un problema: non siamo forse alla vigilia di un più forte allineamento della Corte costituzionale sulla politica della maggioranza? E' possibile, sia perché alcuni partiti hanno curato meglio la scelta delle persone nominate come giudici della Corte, sia perché quest'ultima - come ha segnalato Zagrebelsky - oggi si occupa prevalentemente di leggi recenti, mentre negli anni passati si era occupata di leggi vecchie. Giocherebbe, quindi, un ovvio riflesso psicologico, per cui la legge più lontana è una legge sulla quale si interviene più facilmente, mentre i ``cani da guardia'', dentro e fuori la Corte, farebbero sì che questa cominci a misurarsi con difficoltà con la recente legislazione parlamentare. Dunque non si tratta più di supplenza, si tratta di verificare se la Corte è capace di tener fede al proprio ruolo. Si sostiene che la sorte ``naturale'' delle Corti costituzionali sia quella di allinearsi alla maggioranza di governo. Questa è però una generalizzazione impr
opria di una tesi che uno scienziato politico americano, Dahl, ha enunciato alcuni anni fa. Eppure qualche indagine più recente, più accurata, proprio sul funzionamento della Corte suprema degli Stati uniti, ha dimostrato come ciò non sia sempre vero. Si può anzi rilevare che nei momenti in cui c'è una forte tensione, una forte dinamica sociale, le corti costituzionali si comportano in modo non omogeneo rispetto alle maggioranze di governo, proprio perché si determina la necessità di avere una pluralità di canali in cui le domande politiche si scaricano. E' un tipo di allineamento diverso, su esigenze generali del sistema, piuttosto che sulla maggioranza di governo. Se non teniamo conto di tutto questo, appiattiamo tutta la nostra analisi su alcune istituzioni soltanto.
Ho scelto il caso della Corte costituzionale per mostrare come i rischi di produrre pericolose manipolazioni del sistema invocando la ``centralità'' del Parlamento. E questo può essere un cattivo servizio reso allo stesso Parlamento, se esso diventa l'unica sede alla quale devono essere rivolte tutte, indistintamente, le domande emergenti nella collettività.