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Strik Lievers Lorenzo - 15 marzo 1978
La crisi e i radicali
di Lorenzo Strik Lievers

SOMMARIO: Il rapporto tra DC e PCI non è mai stato in crisi. L'incontro è nella creazione del "regime" della discriminazione e dell'eliminazione della divisione dei poteri. Il secondo compromesso storico in parte è già in atto, ma può diventare vero accordo di Governo. In questo contesto il PR si deve fare portavoce delle esigenze della società; l'occasione è il referendum sul finanziamento ai partiti.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Febbraio-Marzo 1978, n. 6)

Nel momento in cui scriviamo la crisi sembra essersi avviata a soluzione. Benché molti elementi del quadro non siano ancora chiariti, è possibile tuttavia cominciare a trarre un bilancio; o comunque svolgere qualche considerazione sul significato che la crisi ha avuto.

Una questione incombe: è mai stata in pericolo l'intesa di fondo tra DC e PCI sancita nel patto a sei? La risposta, per poco che si rifletta, dev'essere negativa. In questa legislatura l'accordo è imposto dai rapporti di forza, tali che né la DC né il PCI-PSI possono governare da soli, avendo l'altro all'opposizione. Tutto induce d'altronde a ritenere che delle elezioni anticipate confermerebbero gli elementi sostanziali usciti il 20 giugno, la duplice vittoria della DC e del PCI e la morte politica delle forze intermedie; ossia la fine del monopolio di regime della DC e l'improponibilità ancora dell'alternativa di sinistra, dati gli equilibri delle forze sul piano internazionale e nella società italiana, prima che in termini aritmetico-parlamentari. La posta in gioco non stava dunque nel sì o nel no all'accordo, ma nei tempi del suo perfezionarsi e consolidarsi - prima o dopo le elezioni.

Nonostante le apparenze, insomma, non c'è molto da modificare rispetto a quanto abbiamo scritto nei numeri scorsi circa l'accordo a sei, sul significato e il valore del regime che esso ha instaurato. Carattere di regime che esce confermato dalla notizia in realtà più clamorosa di questi mesi: quella della sentenza della corte costituzionale che - insieme ad alcuni dei massimi fondamenti dello stato di diritto - ha spazzato via i fattori del gioco politico più di tutti rispondenti oggi allo spirito della costituzione repubblicana, ma non sopportabili dal regime, non compatibili con esso - come dimostra analiticamente il saggio centrale di questo fascicolo. (Non per nulla il PCI, all'aprirsi della crisi, poneva al centro delle sue richieste la rimozione dei referendum "laceranti"). La scomparsa dall'orizzonte di quei referendum che più avrebbero sconvolto la logica dei partiti e dell'accordo a sei, ha segnato una svolta nella crisi, facendo d'un colpo riprendere vigore agli sforzi volti a evitare le elezioni.

Non sta succedendo niente, allora? La crisi è stata in realtà una farsa a soluzione obbligata? Sarebbe assurdo e fin ridicolo dirlo. Sta sotto gli occhi di tutti che se l'"arco costituzionale" si è ormai costituito come il nuovo quadro istituzionale effettivo all'infuori del quale non esistono spazi di legittimità politica reale, al suo interno, all'interno del "regime" si svolgono conflitti anche di notevole durezza. Ed è contesa grossa: scontata ormai la fine del monopolio democristiano del potere, si tratta di impostare i nuovi equilibri di fondo del sistema politico italiano. Attraverso la trattativa in corso, o eventualmente attraverso una prova d'appello elettorale, poi con gli ulteriori svolgimenti di questo braccio di ferro, e comunque mediante un processo non breve, si giungerà a determinare a quale delle due componenti decisive del patto, alla DC o al PCI, che restano radicalmente diverse tra loro, spetterà il ruolo determinante di direzione. Qui sta il senso di questa crisi tormentata. Entrambi i

protagonisti hanno ben chiaro che quello dei due che uscirà perdente vedrà probabilmente scatenarsi lacerazioni disgreganti al proprio interno e nel rapporto con la propria base di forza nel paese; lacerazioni che possono rendere definitiva la sua collocazione subordinata nell'ambito del patto.

Il terreno dell'intesa

Occorre semmai chiedersi su quale terreno comune si sta realizzando l'incontro. Non quello della mobilitazione per l'emergenza, che quanto meno la DC rifiuta, accettando l'accordo col PCI solo in ragione dello stato di necessità (tutto il dibattito interno alla DC lo dimostra). Non quello del programma, chè quasi su tutti i punti l'intesa, quando poi c'è davvero e riesce a tradursi in pratica, risulta solo da faticosi compromessi tra posizioni divergenti, e non da un confluire spontaneo di idee. L'unica vera convergenza, a partire da presupposti molto lontani, ma poi reale e convinta, si attua nella solidale occupazione di ogni spazio del potere e della società da parte dei partiti in quanto tali. Non stupisce, del resto. La DC, intimamente clientelare (si diceva un tempo che le mancava il "senso dello stato"), si è fatta una ragione di vita della lottizzazione, della spartizione di tutto fra correnti e partiti; e la lottizzazione, si sa, è un meccanismo perverso cui è difficilissimo sottrarsi anche per le a

ltre forze, quando una la mette in moto, se non altro perché diventa un riflesso difensivo automatico praticarla per non farsi schiacciare. Un trentennio di regime democristiano ha così creato "empiricamente" un sistema di potere, abitudini e mentalità tutte indirizzate in questo senso; il PCI, nell'inserirvisi appieno, vi aggiunge la qualità nuova della giustificazione, anzi della rivendicazione ideologica. Come dichiara esplicitamente Cervetti su "Rinascita" (24 febbraio 1978): "'Partito di governo' non significa soltanto essere partito che amministra in questo o quel comune, in questa o quella regione (...). Essere `partito di governo' vuol dire essere e porsi come forza dirigente in ogni luogo della società e delle istituzioni, asse di una politica unitaria e democratica".

Il minimo comune denominatore, la ragione dell'unità, insomma, sta di per sé nella creazione del "regime", che così sorge almeno con due caratteristiche ben precise. La prima: la discriminazione, la messa in stato di minorità civile di tutti gli individui e le forze che non vogliono, non sanno o non possono integrarsi in questa società a una dimensione (e su questo basti rinviare a molte delle cose scritte in questo come nei precedenti numeri della rivista). La seconda: l'annullamento della prima e fondamentale conquista della civiltà liberale, la divisione e l'equilibrio dei poteri, la sola possibile garanzia del cittadino e dei suoi diritti contro la "democrazia totalitaria". A nulla valgono più infatti le garanzie formali derivanti da un quadro istituzionale liberal-democratico quando il costume prevalente e i rapporti di forza fanno sì che tutti coloro che a vario titolo detengono responsabilità e poteri rispondano in primo luogo alla logica del partito, o dei partiti contraenti del patto, riportando in

tal modo a un'unica sede decisionale la disponibilità ultima di tutte le scelte. La ragione di partito, la ragione del "partito dei partiti" - al posto dell'ormai desueta "ragion di stato" - cancella così con l'autonomia sostanziale di tutte le magistrature ogni certezza del diritto.

La sentenza della corte e il progetto radicale

La gravità del quadro impone più che mai ai radicali il rigore delle analisi e delle scelte. La decisione della corte costituzionale di usare come solo criterio di giudizio le necessità politiche dell'"arco costituzionale", calpestando lettera e spirito della costituzione, colpisce al di là dei singoli referendum e dell'istituto stesso del referendum uno dei punti cardinali di riferimento dell'ipotesi radicale.

Il progetto dei referendum "contro il regime e per una repubblica autenticamente costituzionale" aveva il senso di attivare la contraddizione fra il sistema di potere instauratosi in Italia (il "regime") e la carta costituzionale; voleva dire servirsi delle istituzioni per salvarle dalla loro degenerazione, e per questa via mettere in movimento l'alternativa democratica al regime. Ma condizione perché questo progetto si potesse attuare era che gli organi istituzionalmente preposti ad assicurare l'osservanza delle regole formali del gioco democratico (cassazione e corte costituzionale) conservassero ancora, come in passato, quel minimo di autonomia e di rispetto di sé che impedisse loro di stravolgere completamente le norme del diritto. (Che da parte radicale si nutrissero tuttora speranze e fiducia nella sussistenza di questo presupposto lo dimostra l'impegno efficacissimo profuso nel garantire la difesa "giuridica" dei referendum, con i due convegni che hanno condotto pressoché tutta la cultura giuridica it

aliana a riconoscere la fondatezza, in punto di diritto, di quanto i radicali sostenevano; ciò che in altri tempi sarebbe stato più che sufficiente ad assicurare il successo di fronte a giudici che hanno una rispettabilità professionale e scientifica da difendere).

Questa condizione ora è caduta. Il problema che emerge è perciò questo: venuto meno l'interlocutore indispensabile rappresentato dalla corte costituzionale, mancando ormai qualsiasi garanzia di rispetto, da parte del potere, della propria legalità formale, conserva ancora qualche possibilità e qualche senso l'"estremismo della legalità" dei radicali? Quale punto d'appoggio gli rimane? Non sono messi in forse i fondamenti stessi di una strategia che si fonda sulla lotta nonviolenta in nome e nell'ambito di una convivenza rigorosamente democratica, affermandone la superiore efficacia?

I radicali, e non solo loro, se lo chiedono, non possono non chiederselo. Ma sarebbe un errore grave per loro fermarsi soltanto a sollevare questi interrogativi che, se non vengono collocati in una visione ampia delle cose, comportano il rischio di sfociare in una confessione di impotenza; la quale in ultima analisi lascerebbe la strada sgombra alla logica maniacale e suicida di chi non vede altri spazi per l'opposizione se non quelli della clandestinità e della lotta armata.

Fin dove arriva il compromesso storico?

Certo, i dati più vistosi della situazione suggeriscono la sensazione di una "chiusura" definitiva e irreversibile del regime; e può anche darsi che una simile sensazione finisca per rivelarsi corrispondente al vero. Ma fermarsi qui senza scavare a fondo nei termini della questione sarebbe semplicistico e deformante: e non solo in base al principio, comunque aureo, che la realtà è sempre più complessa e aperta a sviluppi molteplici di quel che le formule sintetiche suggerirebbero. La stessa cronaca politica di queste settimane richiama a una riflessione più articolata.

Ha accompagnato la crisi il dibattito sulla pseudo-questione se e perché i comunisti stiano abbandonando la strategia del compromesso storico: pseudo-questione se non altro perché sarebbe assurdo supporre che il PCI, dopo aver perseguito per trent'anni quel disegno, lo abbandoni nel momento in cui sta raggiungendo il successo solo perché scopre qualche residua riluttanza nella DC. Ma gli spunti che hanno fatto sorgere quell'ipotesi meritano la massima attenzione.

Può essere opportuno rammentare che nel lanciare per la prima volta la celebre formula Enrico Berlinguer proponeva a democristiani e socialisti un »secondo compromesso storico, dopo il primo che, negli anni successivi alla liberazione, aveva prodotto il patto costituzionale (e, si potrebbe aggiungere, almeno in parte anche i successivi equilibri dell'Italia repubblicana). Se il primo compromesso aveva garantito la "legittimità" della presenza in Italia di una forza rivoluzionaria e prosovietica come il PCI, il secondo - era il senso profondo del discorso - dovrebbe assicurare l'accettazione come cosa non traumatica del PCI alla direzione dello stato, e possibilmente con funzioni di primo dirigente.

Aspetto fondamentale del compromesso, allora, deve essere la comune accettazione da parte delle forze maggiori di valori, scelte e limiti nell'azione che le rendano reciprocamente compatibili; e si noti che da questo punto di vista tutti i sistemi politici che sono basati sull'alternanza, come quello americano, inglese o tedesco occidentale, si reggono su un "compromesso" fra i partiti che contano, il cui succedersi al governo non presenta mai i caratteri di una rottura rivoluzionaria. In quest'accezione, i radicali lo dicono non da oggi, il secondo compromesso storico può ritenersi per molta parte già in vigore, e sicuramente in tempi brevi riceverà tutte le necessarie sanzioni formali. E le voci che dall'interno del PCI hanno autorevolmente prospettato uno sviluppo del quadro politico italiano basato sull'alternanza testimoniano probabilmente l'emergere dell'ipotesi in quel partito che molto più in là di così, sui tempi lunghi, non si potrà andare. Molti, presumibilmente non tutti, nel PCI hanno coltivato

e coltivano l'idea del compromesso storico come di un patto ferreo di governo, una coalizione permanente praticamente fra tutti i partiti. Ci si va però rendendo conto che, salvo trasformazioni istituzionali di tipo est-europeo, la grande coalizione - come si diceva all'inizio - comporta forti probabilità di mettere in crisi alcuni dei contraenti e quindi di indurli o a scindersi, con la comparsa perciò di nuove consistenti forze politiche avverse alla coalizione stessa, oppure a uscire dall'accordo. Lo stesso partito che da sempre punta tutte le sue carte sul compromesso, insomma, considera seriamente l'eventualità che una qualche dialettica fra maggioranza e opposizione si ricostituisca, sia pur nel quadro nuovo e con i limiti, appunto, fissati dal secondo compromesso storico.

Il nuovo regime e lo spazio dei radicali

Come escludere allora che il possibile riaprirsi di queste dinamiche consenta il recupero di spazi effettivi di autonomia anche per gli organi garanti? Certo, quando tutti i centri del potere premono concordi in una data direzione è ben difficile che la virtù e il senso dello stato della magistratura, lasciati soli a combattere, non cedano le armi; ma esempi innumerevoli, anche nella storia italiana, insegnano che le cose stanno diversamente in presenza di una conflittualità tra le forze politiche. Probabilmente anche oggi sarebbe bastato che uno solo dei partiti che contano si fosse opposto alla scandalosa soppressione dei referendum perché la corte costituzionale non osasse un'operazione spudorata come quella che ha condotto.

Il problema vero, allora, per i radicali è quello di trovare i modi per intervenire nelle tensioni e contraddizioni vistose che percorrono la classe politica, per affrettare uno sviluppo nell'insieme non improrogabile della situazione. E questo discorso rinvia subito all'altro, del conflitto fra questo sistema dei partiti, questa società politica e la società civile (conflitto i cui termini di fondo sono analizzati più oltre nella rivista); giacché è poi questo l'aspetto davvero decisivo della situazione, i cui sviluppi e i cui riflessi paiono destinati, in un senso o nell'altro, ad esercitare sul lungo periodo il ruolo di maggior rilievo.

Che il conflitto o almeno la non corrispondenza fra i due piani sia un dato sempre più accentuato è confermato del resto da alcuni fenomeni singolari e vistosi emersi in queste settimane di crisi.

Non può non colpire, infatti, che si stia realizzando quella che comunque resta una eccezionale svolta a sinistra come l'accesso esplicito del partito comunista al potere nella più totale mancanza di entusiasmo e perfino di tensione a sinistra; anzi - ed è un fatto salvo errore storicamente inedito - cavalcando un vistoso riflusso moderato e conservatore dell'opinione pubblica. O, per altro verso, mentre tutto il dibattito sul governo si svolge ufficialmente all'insegna dell'emergenza, non si avverte certo nel paese quel clima di generale mobilitazione per l'emergenza da cui nascono in genere i governi di unità nazionale. Ma in ogni modo, al di là di questi sintomi pur significativi, è l'esperienza quotidiana a mettere in luce la crescente perdita di prestigio e di credibilità ideale dei partiti nel loro complesso e l'insofferenza della "gente" per la loro invadenza soffocante.

Il PR, come hanno ben messo in luce Teodori e Panebianco ne "I nuovi radicali", per la sua stessa natura, la sua tradizione e la sua prassi è portato e impegnato a far esprimere direttamente sul piano politico, più che farsene esso stesso portavoce, esigenze e richieste della società civile, orientandole in senso democratico e riformatore. E' dunque particolarmente qualificato, se così ci si può esprimere, per assumere un ruolo di grande importanza nella stagione politica che si sta ora aprendo, potendo esso solo forse dar voce e forza a bisogni che i modi d'essere della "politica" tradizionale dei partiti di regime non sanno strutturalmente raccogliere, perché loro estranei e antitetici.

Il referendum sul finanziamento: un'occasione cruciale

In particolare poi oggi il PR si trova a portata di mano - perché se l'è costruita - un'occasione di eccezionale valore da questo punto di vista: il referendum sul finanziamento ai partiti, il quale di per sé può diventare un momento fondamentale nell'evidenziare e chiarire il senso del conflitto fra società civile e apparati di partito. Per la loro qualità di promotori del referendum e di unici avversari del blocco compatto di tutti i partiti di regime i radicali in questa occasione avranno - se davvero il referendum si terrà - concentrata su di sé e sul proprio modo di impostare il problema un'attenzione dell'opinione pubblica quale mai hanno avuta in passato. Ed è evidente che nel corso di questa battaglia essi non si limiteranno ad affrontare il tema circoscritto della legge sul finanziamento, ma solleveranno quello generale del rapporto fra apparati di partito, istituzioni e società, o insomma quello appunto del conflitto fra società politica e società civile quale si pone oggi nel nostro paese.

Il modo, i toni e gli argomenti che verranno adottati nella campagna referendaria risulteranno perciò decisivi nello stabilire l'immagine del PR relativamente al grande nodo politico che formerà l'oggetto principale della sua azione nei prossimi anni; e dunque nel determinare il tipo di consensi che esso potrà raccogliere, la sua funzione, la sua possibilità di continuare ad essere una minoranza che consente di esprimersi politicamente e di pesare alle grandi maggioranze alternative. Senza pretendere qui di affrontare una questione tanto complessa, potrà essere però opportuno segnalare alcuni dati riguardanti gli argomenti di cui s'è discorso, che in ogni modo andranno tenuti presenti.

Contro un regime di sinistra?

Nonostante tutto, il regime instaurato in Italia presenta molti aspetti che paiono rispondere, e forse davvero rispondono, a motivi, riflessi e stereotipi tradizionali della sinistra; a cominciare dal ruolo dominante dei partiti. Non si può trascurare infatti che la classe operaia e gli altri ceti subalterni hanno avuto storicamente nei partiti, oltre che nei sindacati, i loro soli strumenti di forza e di potere, mentre i ceti dominanti trovavano altrove i loro; e che appunto perciò la polemica contro la partitocrazia in Italia ha avuto prevalentemente un segno di destra - nonostante eccezioni illustri e significative. Più in generale, poi, l'idea di un ruolo dirigente del partito in quanto tale si accompagna a quella di uno sviluppo della società programmato in vista di finalità generali, non affidato al caso o all'anarchia dei singoli interessi; si collega dunque all'ipotesi di una trasformazione della società perseguita consapevolmente. Né si può chiudere gli occhi di fronte al fatto che lungi dall'andare

verso un maggiore accentramento, il sistema politico italiano vede crescere ogni giorno il potere e le competenze delle regioni - accogliendo dunque un'altra antica rivendicazione della sinistra. E così si potrebbe proseguire parlando dell'autorità raggiunta dai sindacati, magari del maggior peso del parlamento rispetto all'esecutivo, o del diffondersi di istituti partecipativi e assembleari di base, e così via.

Impostare una campagna contro il "partito dei partiti" e contro il suo regime senza tener conto di tutto ciò, limitandosi a denunciare genericamente il nuovo fascismo e la sua corruzione, vorrebbe dire probabilmente per i radicali perdere molta della loro credibilità a sinistra, se non farsi addirittura espellere dal contesto culturale e politico della sinistra; e quel che è peggio, significherebbe avvilire nell'impotenza quella che si profila potenzialmente come la grande battaglia riformatrice e di libertà dei prossimi anni. Occorre invece riuscire a trasmettere la nozione che ormai questi partiti non possono più incarnare, per la loro costituzione e struttura, quelle speranze; che le autonomie regionali, il potere sindacale, gli assemblearismi di varia natura, da quelli di base a quelli parlamentari, sono sempre meno luoghi di democrazia, autonomia e partecipazione autentiche, e sempre più sedi di manipolazione, controllo capillare e lottizzazione da parte delle burocrazie di partito. Se i radicali riusci

ranno a imporre questa tematica nella campagna referendaria, essa diverrà il punto di partenza di un processo che potrà andare molto lontano, e potrà davvero riaprire, sotto un segno di progresso e di liberazione, molti degli spazi che oggi paiono irrimediabilmente chiusi.

 
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