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Teodori Massimo - 15 marzo 1978
PARTITI, SOCIETA', STATO
di Massimo Teodori

SOMMARIO: Con l'accordo dei sei partiti cambia l'assetto istituzionale ed il rapporto con la società. Nasce la democrazia "consociata" o "controllata", priva di opposizione legale. In questo clima i referendum hanno avuto un carattere destabilizzante ed avrebbero fatto votare i cittadini secondo coscienza. Sono stati destabilizzati prima sul campo istituzionale, poi su quello sociale. L'ultima crisi di Governo è stata tutta partitica, ignorando il paese. Sul tema del finanziamento pubblico si scontrerà chi vuole il permanere dell'esarchia e chi si batte per il pluralismo.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Febbraio-Marzo 1978, n. 6)

Parafrasando uno slogan coniato da un acuto gruppo della sinistra francese all'inizio degli anni cinquanta, "socialismo o barbarie", scrivevo nel maggio 1977 su queste colonne ("Argomenti Radicali", n. 2, giugno-luglio 1977) che la alternativa che stava di fronte al paese ed alla sinistra era "o più libertà o più autoritarismo". Non era stato ancora siglato l'accordo di maggioranza dei sei partiti autodefinitisi "costituzionali" che avrebbe segnato dopo qualche mese (luglio 1977) il momento di svolta verso la trasformazione del rapporto tra Stato e società, e tra Stato e partiti in direzione più autoritaria, come hanno poi dimostrato i fatti succedutisi dall'estate 1977 ad oggi. Quel dilemma prospettato un anno fa si è dimostrato particolarmente pregnante giacché, alla mancanza di lotte di libertà da parte della sinistra ed alla sua accettazione di una posizione o difensiva o connivente, ha corrisposto il progressivo realizzarsi della degradazione democratica, con un vero e proprio salto qualitativo negli ul

timi mesi che rende esplicita una tendenza già da tempo presente nel sistema politico italiano.

Il braccio di ferro tra i partiti e la contrapposizione partiti/società

Dopo le elezioni del 20 giugno 1976 che avevano segnato il punto di arrivo di un mutamento negli orientamenti del paese, iniziato nella stagione del '68 con la traduzione elettorale a vantaggio della sinistra dei mutati rapporti di forza già espressisi nella società in una molteplicità di forme organizzate e non, si apriva uno scontro di duplice ordine. Il primo, all'interno del "sistema partitico-istituzionale" che vedeva come protagonista il Partito Comunista teso a guadagnare legittimità di governo ed accesso al potere. Il secondo tra "l'intero (o quasi) sistema dei partiti e la società", con la progressiva assunzione di un carattere totalistico (e totalitario) del primo rispetto alle domande e ai movimenti espressi dalla seconda. Un particolare significato, a questo riguardo, assumeva, al di là del contenuto e delle implicazioni delle leggi per cui i radicali e i loro alleati avevano chiesto i referendum abrogativi, la raccolta delle molte centinaia di migliaia di firme, e complessivamente di circa sei m

ilioni, nella primavera di un anno fa. Era l'espressione, magari approssimativa, di aspirazioni e fermenti esistenti nel sociale a cui il canale referendario offriva la possibilità di aggregazione politica intorno ad un obiettivo di lotta con implicazioni più generali e di diversa qualità da quelle costituite dalla somma delle leggi di cui veniva richiesta l'abrogazione. Non era un caso che un compito così arduo come la raccolta di mezzo milione di firme in condizioni tecniche assai difficili venisse ampiamente superato giusto nel periodo in cui si protraeva per mesi quella trattativa tra i sei partiti che sarebbe sboccata nell'accordo a sei, cioè nel "Superpartito dei partiti" dell'accordo programmatico del luglio 1977. Quel pacco di firme era il segno concreto anche di quelle tensioni del paese - di rinnovamento, di mutamento, in senso lato di alternativa all'assetto di potere - che i partiti della sinistra storica, impegnati in un gioco sempre più interno ai rapporti di forza interpartitici, non davano a

vedere di sapere e volere interpretare, rappresentare e unificare. La massiccia adesione ai referendum era il segno tangibile della potenziale domanda sociale nei confronti dei partiti attivata dall'iniziativa di una minoranza: cioè la manifestazione evidente della contraddizione tra i meccanismi effettivi del sistema politico e i bisogni della società civile.

L'esarchia come nuova legalità repubblicana

La fine delle opposizioni in parlamento era soltanto l'aspetto più propriamente politico del nuovo assetto costituitosi con l'esarchia. La forma e la sostanza dell'accordo parlamentare tra DC. PCI, PSI, PSDI, PRI e PLI erano tali per cui tutta la dialettica politico-sociale non si poteva e non si doveva esplicare che "dentro i partiti" e "tra i partiti" stessi reciprocamente riconoscentisi legittimi, codificando di fatto una nuova concezione di legalità repubblicana. E tra i sei partiti, garantiti in tal modo l'uno con l'altro come gli esclusivi interpreti di istanze degne di rappresentazione nelle istituzioni, il PCI svolgeva e svolge la parte trainante in ragione del suo peso sociale, della intima adesione ideologica e della strategia politica. Anche la consolidata tendenza di un particolare tipo di rapporto partiti-società con l'occupazione sociale da parte delle strutture partitiche subiva un ulteriore rafforzamento.

Così con l'accordo a sei i partiti divengono sempre più i veicoli dello Stato legale nella società attraverso la propagazione dal centro alla periferia del nuovo ordine per cui organizzano il "consenso". I numerosi comitati unitari nel paese, in primo luogo quelli antifascisti, sono costituiti come una rete funzionale alla raccolta e canalizzazione dell'adesione alle scelte e ai provvedimenti - e prima ancora alla "filosofia" - dei sei partiti in sede nazionale. Lo ha scritto con precisione Federico Stame ribattendo alla critica mossagli dalle colonne di "Rinascita" secondo cui la nuova sinistra assumerebbe indiscriminatamente tutte le spinte antagoniste della società, in funzione di anti Stato: "Il nuovo Stato che sorgerà sarà un sistema di decisioni politiche assunte da un blocco di partiti gestiti autoritariamente, che al vertice si proclamerà rappresentante della "legalità repubblicana", le garanzie dei cittadini e dei gruppi di opposizione saranno sottoposte al controllo della loro compatibilità alla le

galità fondante la Repubblica, decisa dai grandi partiti di massa. L'ordine pubblico "è la nuova costituzione materiale" dello Stato" ("La seduzione della democrazia autoritaria", "Quaderni Piacentini", n. 64, luglio 1977, p. 3). Se si elencano i provvedimenti legislativi adottati a partire dall'estate 1977 si constata che la previsione di Stame sull'ordine pubblico come dato fondante del blocco dei partiti si è avverata e che l'immobilismo andreottiano ha avuto solo un aspetto di dinamismo, quello appunto riguardante questo settore con le proposte di legge o le leggi in materia penale e di prevenzione, sull'ordinamento penitenziario e il doppio regime carcerario, sulla custodia preventiva, sulla procedura penale, e infine con l'aggravamento della legge cosiddetta Reale e l'istituzione del confino contro i sospetti politici.

Il consenso nella democrazia consociata

Sono scomparsi i dubbi che ancora si potevano avere sul fatto che la particolare forma che la nostra democrazia va assumendo, alla quale alcuni (Bobbio, Amato) hanno dato il nome di "consociata" o "controllata", è fondata non già sulla classica funzione dei partiti di mediazione tra pubblica opinione e istituzioni rappresentative, ma sulla loro pretesa esclusività di canalizzare l'intero universo sociale ammesso alla rappresentanza istituzionale. Una tale tendenza, che approssima il nostro paese ad un regime caratterizzato dalla dittatura burocratica dei partiti (va detto, per inciso, che uno dei limiti di tutta la sinistra italiana è l'indifferenza alla polemica contro la partitocrazia e il suo abbandono ad alcuni settori della destra, non volendo o non sapendo comprendere quanto di innovativo e di liberante potrebbe venire dalla critica antiburocratica), sembra essere divenuta oggi qualitativamente più profonda e radicale proprio con la scomparsa della dialettica politica determinata dal patto a sei nelle

sue forme esplicite ed ancor più in quelle implicite. Si tratta infatti di un patto realizzato molto più in ogni branca civile, sociale ed economica con un'ulteriore lottizzazione della società che non di un accordo nell'arena politica con i meccanismi espliciti della democrazia politica in cui, avrebbe pur potuto essere giustificato con il carattere di "emergenza".

Rileggendo ora quello che avvenne nel 1948 in Cecoslovacchia, così come lo descrive ed interpreta Jiri Pelikan, il più autorevole dissidente della primavera di Praga, ci viene fatto di associare alcune tecniche di controllo e di consenso allora messe in atto per arrivare al regime autoritario comunista con quelle oggi assunte dai partiti consenzienti e convergenti almeno per ciò che riguarda il rapporto partiti/società. Scrive Pelikan:

"Così nasce dopo la liberazione nel 1945 il governo di Fronte nazionale, composto da sei partiti, che sono gli unici autorizzati ad esistere. Il sistema rimane parlamentare e pluralistico, ma di quelli "sui generis", perché privo di opposizione legale: tutto si decide nell'ambito del Fronte nazionale, cioè dei leader dei partiti politici di governo: il parlamento e altre istituzioni sono solo una cornice formale del funzionamento dello Stato. Con il 65 per cento dell'industria nazionalizzata, insieme a banche, società finanziarie, miniere e tutto il settore energetico, la Cecoslovacchia segue la via nazionale verso il socialismo, mantenendo la libertà e la pluralità politica, anche se con certe limitazioni... il PCC voleva cambiare la formula del Fronte nazionale, trasformandola da un summit dei partiti in una piattaforma delle forze politiche con la presenza dei sindacati, di rappresentanti della Resistenza, della gioventù, etc." (Jiri Pelikan, "Così morì trent'anni fa la democrazia in Cecoslovacchia", "Il

Corriere della Sera," 16 febbraio 1978).

Non siamo certo così approssimativi da equiparare la fine della democrazia cecoslovacca nel 1948 alla trasformazione della democrazia italiana oggi, né l'instaurazione della dittatura staliniana di allora con i tratti autoritari che si stanno approfondendo a casa nostra. Quello che vogliamo mettere in rilievo con la citazione è che alcuni strumenti e procedure ricordate da Pelikan tendono ad essere usate anche qui, oggi: i partiti che divengono "autorizzati" (i partiti dell'arco costituzionale); la trasformazione di accordi politici in un fronte compatto; la creazione di una rete di organismi o l'utilizzazione di quelli esistenti come canali di trasmissione e di consenso per il fronte costituitosi al vertice del sistema politico; la delegittimazione e l'emarginazione delle forze o delle istanze non previste nel quadro politico riconosciuto legale. E' questa la filosofia di fondo, prima ancora che il risultato di un determinato rapporto di forze, che porta di questi tempi ad espellere dall'area legale ogni co

nflittualità sociale che possa turbare la marcia di accorpamento dei partiti e a ritenere le proposte politiche esterne elementi di turbativa e di destabilizzazione.

Il carattere "destabilizzante" dei referendum rispetto ai negoziati partitici

E' perciò che la classe dirigente dei partiti ha avvertito come un fatto traumatico i referendum che provenivano dal di fuori del nuovo ordine senza la possibilità di essere controllati con le procedure e gli strumenti di negoziazione propri dell'accordo interpartitico. Se il referendum ha in generale il valore di complemento in negativo dell'attività legislativa rappresentando l'unico istituto di democrazia diretta previsto dalla Costituzione, nella particolare situazione determinatasi con l'esarchia, gli otto referendum radicali hanno messo in atto un "pericolosissimo" meccanismo "altro" da quello controllato e controllabile dal sistema partitico-istituzionale. Lo svolgimento di una verifica popolare, nel momento in cui tutto il potere di decisione si concentra nei vertici dei partiti, ed in particolare nelle mani della DC e del PCI, avrebbe potuto smentire le loro decisioni dando corpo ad indirizzi e orientamenti contrastanti con quelli che si dicono rappresentare la larga maggioranza del paese perché esp

ressi dalle linee ufficiali dei partiti di massa.

Di qui il carattere "destabilizzante" più e più indicato dalla classe dirigente con evidente riferimento non già alla fisiologica aggregazione e rappresentanza istituzionali, degli interessi del paese, ma all'equilibrio dei partiti stessi tendenti a identificarsi con tutto lo Stato e con tutta la società nello Stato.

E' vero in tal senso quello che è stato da alcuni paventato, che cioè gli otto referendum avrebbero potuto assumere un "carattere alternativo" al cosiddetto quadro politico. La consultazione popolare infatti avrebbe ricondotto in primo piano l'intervento della società civile aggregandone interessi e volontà esterne alle regole segnate dalla via maestra della politica italiana tutta racchiusa nel gioco di muscoli tra i partiti. Prima ancora del timore delle posizioni da assumere rispetto alle singole leggi sottoposte a richiesta abrogativa e del timore di mettere il paese di fronte a scelte elementari (con il "si" e il "no") non soggette a negoziati, i comunisti, che sono stati e sono i maggiori artefici della strategia di affossamento delle procedure referendarie, hanno contrastato nei referendum lo strumento attraverso cui potevano esprimersi volontà autonome non integrate nello Stato dei partiti e nel partito-Stato.

La profonda avversione comunista ha radici sia ideologiche che politiche: "ideologiche", perché con il ricorso sia pure marginale ad uno strumento di democrazia diretta si mette in questione - per un momento - la mediazione del partito e il suo carattere totalistico, quale è concepito dal PCI al di là di tutte le dichiarazioni di fede pluralistica; "politiche", in quanto il rapporto integratore società-Stato di tipo organicistico si è sempre più realizzato dal 1976 in poi con la proposta alle grandi forze organizzate dello "stare insieme" come valore in sé: una situazione attraverso cui potesse esplicarsi l'egemonia burocratica comunista con il peso della grande organizzazione in grado di controllare ogni piega della società e delle istituzioni.

Le forze politiche lascino ai cittadini la gestione di specifiche iniziative

Quali dunque le ragioni che hanno fatto percepire l'iniziativa referendaria, in sé e nello specifico pacchetto delle diverse materie su cui pronunziarsi, come un fatto dirompente?

In altri paesi - e mi riferisco non tanto alla Svizzera che è un caso particolare, quanto agli Stati Uniti - interpellare i cittadini a pronunziarsi su proposizioni referendarie ha un senso del tutto normale. In alcuni Stati americani non è raro il caso in cui l'elettore debba scegliere, insieme con i candidati a determinate funzioni pubbliche anche tra molti quesiti generalmente richiesti con iniziative popolari non-partigiane, cioè non promosse da gruppi partitici e rispetto a cui i partiti in quanto tali rimangono estranei. Ma evidentemente altrove ci si trova in un ben diverso contesto senza l'occupazione dei partiti sulla società dell'entità, qualità e profondità dell'Italia. Anche da noi i referendum non sarebbero stati percepiti come un trauma se il PCI in prima linea, e dietro di esso gli altri partiti, avesse un atteggiamento sostanzialmente rispettoso della pluralità di espressione della volontà politica dei cittadini, tale da non pretendere di ricondurre necessariamente ogni cosa all'interno della

propria mediazione unificatrice. L'ossessivo timore dei referendum è stato perciò prova di debolezza e non di forza da parte comunista e della mancanza di una sua reale egemonia sulla società, oltre a costituire ulteriore segno di quella tendenza ad identificare società civile e società politica che contraddistingue davvero una linea burocratica in contrapposizione ad una libertaria o semplicemente democratica.

Questo nodo del rapporto istituzionale tra società e sistema dei partiti e del ridimensionamento della funzione partitica in Italia è stato recentemente accennato da Giuliano Amato in una conversazione con Pietro Ingrao, di cui sembra opportuno citare qui un passaggio tanto più significativo in quanto il costituzionalista socialista prende le distanze dal contenuto dei referendum. Dice Amato: "Il problema... è se non dobbiamo trovare il coraggio, per facilitare lo stesso ruolo di mediazione che spetta ai partiti, di predisporre una società che abbia già una serie di momenti istituzionali suoi accettati e organizzati allo scopo di allentare la tensione sulla mediazione partitica, che altrimenti rischia di drammatizzarsi... Prendiamo la questione dei referendum. Io prescindo dalla mia personale opinione, che è di totale dissenso con il fatto di organizzare otto referendum in un colpo solo, su argomenti tanto diversi tra loro. Ma perché non lasciamo che la società in qualche modo, queste cose le gestisca dirett

amente? E' proprio necessario che i partiti si accingano ad affrontare una campagna referendaria come se fosse una campagna elettorale, come se dovessero essere loro a sovrintendere, dal primo all'ultimo, ai pensieri che gli elettori potranno esprimere ai fini del loro voto sul referendum? Non sarebbe meglio sdrammatizzare? Non sarebbe meglio se i partiti, che sono estranei a questa consultazione, chiesta dal movimento, si limitassero ad esprimere la loro opinione agli elettori lasciando che la iniziativa abbia una sua gestione autonoma? Questo è solo un esempio, ma indica la strada, appunto, per consentire processi di autogestione e di controllo sociale".

Perché l'affossamento dei referendum

L'affossamento referendario è dunque innanzitutto l'affossamento di una modalità di sviluppo democratico che avrebbe agito in direzione di un ridimensionamento dell'esclusività dei partiti e della loro pretesa totalizzante. E ci pare che l'ostinata avversione dei comunisti, e di chi si è a loro adeguato, sia stata provocata dal fatto che l'accorpamento delle diverse leggi abrogande non avrebbe consentito il rigido controllo della pubblica opinione da parte dei partiti. Le negative conseguenze per gli interessi particolaristici dei partiti si sarebbero verificate sia nel caso di una presa di distanza dai referendum con il lasciar libero di dispiegarsi del voto popolare, sia al contrario con indicazioni precise e tassative di voto. Esaminando i diversi casi che si sarebbero potuti verificare ci si accorge che il pacchetto di referendum radicali avrebbe comunque avuto un effetto che al di là delle questioni di merito avrebbe rimesso in discussione il rapporto tra i partiti e società ed avrebbe aperto nuove pros

pettive di espressione democratica, introducendo un elemento di controtendenza all'attuale regime. Vediamo i diversi scenari e le relative implicazioni politiche.

"Primo caso". L'elettorato viene lasciato libero di votare secondo coscienza nei singoli referendum (nel caso degli otto, o comunque di un pacchetto) senza un impegno massiccio e un intervento diretto dei partiti. E' probabile che si sarebbe sviluppato nel paese un dibattito assai libero sui contenuti delle singole leggi con la conseguenza almeno di una campagna di informazione su specifiche questioni. Quale che fosse stato il risultato in termini di voto - magari con orientamenti disparati e contrapposti sui diversi referendum - certamente la società sarebbe cresciuta in termini di maturazione civile. Questo caso avrebbe contraddetto il patrimonio politico-ideologico del PCI che non ha mai ammesso l'orientamento secondo coscienza dei propri seguaci, rinunciando per un momento alla funzione direttiva del partito. Questo caso inoltre avrebbe comportato per tutti i partiti l'ammissione di una possibilità di pronunziamento politico individuale al di fuori di essi con l'apertura di un orizzonte opposto a quello

praticato in questi anni.

"Secondo caso". I partiti maggiori - e segnatamente il PCI - fanno una campagna per l'astensione dal voto. Non potendo né schierarsi a favore di alcune abrogazioni per non creare "conflitti laceranti", né difendere il mantenimento di leggi palesemente di origine fascista, le formazioni di massa danno la parola d'ordine di non andare a votare per non raggiungere quel 50 per cento degli aventi diritto al voto previsto dalla Costituzione come condizione necessaria per la validità dei risultati. Questo caso avrebbe comportato il rischio - assai probabile - di una smentita delle direttive partitiche con la partecipazione massiccia, e comunque al di là della metà del corpo elettorale, da parte dei cittadini. Conseguenza politica: perdita di credibilità dei partiti; sviluppo di un comportamento autonomo degli elettori nei confronti dei consueti canali partitici attraverso i quali sono abituati (e costretti) ad esprimersi nelle elezioni di ogni ordine e grado; apertura di un orizzonte di possibile sviluppo di movime

nti specifici con sbocchi istituzionali e non solo come manifestazione di rivolta.

"Terzo caso". I partiti della sinistra si impegnano dando indicazioni di voto specifiche ma diversificate e intervenendo massicciamente ognuno con proprie direttive nella campagna elettorale. Le indicazioni del PCI sono, a titolo di ipotesi esemplificativa, "no" all'abrogazione del finanziamento pubblico, "sì" agli articoli del codice penale riguardanti i reati di opinione, "no" alla modifica dell'inquirente, "sì" all'abrogazione dei codici militari in pace.

In questo caso il PCI, che è la forza quantitativamente rilevante nel campo progressista, avrebbe corso il rischio di non essere seguito dalla totalità dei propri elettori nello spettro delle indicazioni date. La strategia diversificata di "si" e di "no" avrebbe comportato allora la possibilità di verificare, calcolando le differenze di voti tra i diversi referendum, quanti hanno seguito le indicazioni d el partito e quanti non; avrebbe cioè permesso un controllo della forza di orientamento del partito rispetto alla propria opinione elettorale. Conseguenze politiche: verifica con possibilità di smentire sulla base di temi specifici del rapporto partito-elettorato; rottura, anche se parziale, del legame tra linee prevalenti nei partiti, e quindi legittimità delle classi dirigenti, e sostegno della base; apertura - anche in questo caso - di una situazione di maggiore fluidità tra formazione delle volontà degli elettori e sua espressione.

"Quarto caso". Tutti i partiti del campo progressista danno una indicazione generale e specifica di votare in favore delle abrogazioni ("si") di tutte le leggi sottoposte a referendum. L'indicazione è facile in termini di trasmissione del messaggio alla pubblica opinione in quanto si chiede di abrogare leggi che, per un verso o per un altro, hanno contenuto conservatore o autoritario: con un ragionamento unificante sono considerati alla stessa stregua aborto e legge Reale, reati di opinione del codice penale e istituzioni militari, legge manicomiale e finanziamento dei partiti, etc. Indipendentemente dal risultato, si creerebbe un fronte contrapposto ad un altro con una forte caratterizzazione politica generale dello scontro nel paese.

Questa ipotesi avrebbe avuto una serie di conseguenze politiche: formazione nei fatti di uno schieramento alternativo delle forze progressiste all'attacco nel paese; coagulo di questo schieramento sul terreno dei diritti civili e quindi con contenuti fortemente caratterizzati; effetto reciproco di rafforzamento tra i diversi temi sul tappeto rottura della situazione "consociativa" tra i partiti dei diversi campi contrapposti ed in particolare tra DC e PCI.

I risultati dell'unanimità del potere politico

La lunga lotta dei partiti contro i referendum ha rappresentato dunque il cammino per trasformare la democrazia non solo in questo istituto-assurto dal 1974 a simbolo della possibilità di sbocco politico a tensioni sociali - ma più in generale per ciò che riguarda la delegittimazione delle istanze e delle lotte non racchiudibili, mediabili e unificabili nel sistema partitico a parallela e contemporanea egemonia della DC e del PCI. E' cronaca dell'ultimo anno, dall'accordo dell'estate 1977, quella che ha visto andare in pari passo, da un lato, la progressione degli interventi per bloccare il meccanismo necessitante dei referendum e, dall'altro, il tentativo di marginalizzare e magari criminalizzare il dissenso sociale riducendolo a questione di ordine pubblico.

Sulla prima scacchiera, quella istituzionale, ha agito prima la Corte di Cassazione; poi l'intervento dell'avvocatura dello Stato per conto del governo Andreotti; quindi le dichiarazioni sempre più incalzanti dei partiti ed i relativi incontri per "trovare soluzioni"; infine la decisione della Corte Costituzionale di eliminare quattro referendum salutata unanimemente come un sollievo; e poi ancora l'impostazione data alla ricerca di una soluzione della crisi anche come modo "unitario" per fare fuori i restanti referendum (Natta), capogruppo PCI alla Camera: "L'urgenza è un dato oggettivo che condiziona la validità e la possibilità stessa di un accordo... Certamente la contraddizione sarebbe stridente se un'intesa unitaria fosse seguita a breve distanza da uno scontro sulle questioni referendarie...", "Le prove a cui è chiamata la democrazia italiana", "Rinascita", 17 febbraio 1978).

Sulla seconda scacchiera, quella sociale, si sono andati intensificando i provvedimenti, le leggi e i comportamenti degli organi dello Stato, appoggiati, sostenuti e fatti propri dalla filosofia politica dei partiti dell'esarchia, tesi ad accreditare l'equivalenza tra dissenso e illegalità: divieto di manifestazioni, inasprimento della legge Reale, provvedimenti di polizia, confino, etc. Queste vicende parallele, con provvedimenti invocati e giustificati in entrambi i piani istituzionale e sociale con la necessità di contrapporsi ed arginare la disgregazione nella società e nello Stato, rappresentano due facce dello stesso problema che ha origine e ragione d'essere nel modo di concepire la democrazia.

Lo ha scritto con lucidità Norberto Bobbio quando si è occupato dell'alternanza e dei ruoli dalla maggioranza e dell'opposizione nei regimi attuali: "Non confondo il regime a partito unico con la democrazia consociativa, posto che sia applicabile al nostro sistema questa categoria escogitata per descrivere alcuni piccoli Stati, come l'Olanda, la Svizzera e l'Austria, caratterizzati da una società a pluralismo segmentato e/o da una difficile situazione internazionale. "Distingue frequenter". La logica della democrazia consociativa, o, se non si vuole usare questa espressione, della "grande coalizione", può essere paragonata se mai a quella del cartello economico: perché dobbiamo logorarci nella concorrenza quando possiamo spartirci il mercato? A differenza del regime a partito unico, la democrazia consociativa o grande coalizione non esclude del tutto l'opposizione, però la riduce ai minimi termini, e a ogni modo esclude di fatto (se non di diritto) ogni possibile alternanza. Che l'alternanza sia esclusa perc

hé l'opposizione esiste ma è predestinata a restare tale, come sinora ha voluto il nostro partito più forte, o perché esiste ma è troppo piccola per minacciare i partiti del governo come vorrebbe l'altro partito forte del nostro schieramento politico, non importa una grande differenza: in entrambi i casi viene esclusa una delle regole fondamentali del gioco, quella che pretende che l'opposizione non soltanto ci sia ma sia tale da poter svolgere la propria funzione, che è quella di diventare per abilità o per fortuna il nuovo governo", "Compromesso e alternanza nel sistema politico italiano", "Mondoperaio", settembre 1977, p. 65).

L'unanimità del potere politico istituzionalmente costituito è il vero dato nuovo della realtà italiana: è radicalmente modificata la stessa dialettica delle istituzioni (La Corte Costituzionale che prende decisioni politiche ispirate - come dice Lelio Basso - "da motivi di opportunità che interessano una larga parte dello schieramento politico", "La Repubblica", 20 gennaio 1978) propria di ogni sistema liberal-democratico, ed il sistema partitico si contrappone in toto alla dinamica sociale di cui non può raccogliere se non le istanze che possono essere utilizzate strumentalmente nel gioco di muscoli delle sue parti. E ciò accade proprio in una fase in cui si intensifica la domanda di autonomia sociale dalla stessa politica, una autonomia che contiene in sé potenzialità di segno contrapposto, progressiste o regressive, suscettibili di evolversi a seconda delle risposte che le istituzioni o le forze politiche sapranno dare (Lo riconosce anche Pietro Ingrao quando afferma: "In realtà oggi una serie di movimen

ti, anche quando partono da problemi settoriali, da angolazioni specifiche, si trovano ad un impatto molto rigido con il problema dello Stato. Quindi il "particolare", il "settoriale" - si potrebbe dire il `privato' - si carica subito di `politicità' massima. Anche per questo l'approccio alla politica, alla mediazione politica, non è più rinchiuso solo nelle forme e nei canali del passato", "Parlamento, partiti, società civile", "Mondoperaio", gennaio 1978, p. 62).

Come ancora una volta la crisi ignora il paese

Date queste premesse non ci si deve allora stupire che l'ultima crisi di governo è stata segnata, più di ogni altra, dal carattere "separato" dei partiti. Il nodo centrale da sciogliere non è stato neppure quello della "emergenza", e cioè di una situazione eccezionale a cui occorreva rispondere con provvedimenti e schieramenti politici d'eccezione. La posta in gioco è stata una ed una soltanto: la richiesta di legittimazione a governare che il PCI ha avanzato agli altri partiti, ed in particolare alla DC. I comunisti non si sono sentiti legittimati da quello che storicamente rappresentano e dalla massa dei loro voti che sono notevolmente aumentati il 20 giugno 1976, ma hanno chiesto che fossero gli avversari dialoganti di sempre, la DC, a riconoscere il diritto comunista a governare, anzi a co-governare. La crisi che si è trascinata per settimane e mesi ha ulteriormente confermato, se pure ce ne fosse stato bisogno, che la vicenda politica del paese è tornata completamente ad essere giocata in una prova di f

orza dei partiti, dopo la diversa stagione che arriva fino alle elezioni politiche del 1976.

Tale è stata l'impostazione dominante del PCI il quale, in un certo senso, ha anche subito la crisi, voluto dapprima da repubblicani e socialisti e sospinta poi da un fattore esterno quale i segni di irrequietezza del movimento sindacale e, dietro di esso, della base operaia. In un secondo momento il PCI ha accettato di giocare la carta della crisi quando era diventato inevitabile proclamarla, e l'ha giocata tutta sul negoziato per guadagnare qualche ulteriore marginale legittimazione formale del proprio riconoscimento a governare, subendo inevitabilmente il ricatto dei democristiani, sempre prevalenti su questo terreno. Che andassero a giocare una partita assai debole, di niente altro preoccupati che del rapporto con la DC, i comunisti dovevano constatarlo proprio con le notevoli reazioni che incontravano al proprio interno da parte di settori della base che non accettavano questa logica della legittimazione esterna come una logica propria di un partito comunque espressione di interessi e di valori innovati

vi. Dei due conflitti di cui accennavamo all'inizio - quello all'interno dei partiti consociati e quello riguardante il rapporto tra sbocco politico e domanda sociale - i protagonisti della crisi tagliavano ignorandolo il secondo. I prezzi ed i costi delle diverse combinazioni, la loro sostanza e contenuto, il consenso o il dissenso, le risposte alla drammatiche domande sociali, erano tutti fattori da non tenere in considerazione giacché la "ragion di partito" anzi "la ragione dei partiti" doveva prevalere su ogni altra cosa. L'importante, per la DC, era il mantenimento ad ogni costo del proprio potere, e per il PCI essere ammesso a corte. Un tale distacco dal paese e dal proprio stesso radicamento sociale è stato del resto sottolineato anche da alcuni dirigenti comunisti; Achille Occhetto affermava in un dibattito con Asor Rosa su "Rinascita": "Ma già oggi si pone il problema di una elevata capacità di sintesi da parte dei partiti, di un arricchimento delle forme di collegamento tra il sistema politico e la

società civile. E il discorso vale in primo luogo per noi. Dopo il 20 giugno il partito si è infatti tendenzialmente chiuso nella società politica" ("I movimenti del '77 e del '78", "Rinascita", 24 febbraio 1978).

Ancora una volta la crisi è stata segno dei conti che i partiti hanno fatti l'un con l'altro, ed ognuno, soprattutto la DC e il PCI, con se stessi, cioè con il grado di sopportabilità delle proprie basi delle strategie consociative prevalenti ai vertici.

Che cosa è in gioco con il referendum sul finanziamento pubblico

Se non interverranno le elezioni anticipate e la crisi di governo si risolve con un accordo che in qualche modo vede anche formalmente il PCI all'interno della maggioranza di governo - cosa che non sappiamo nel momento in cui scriviamo, alla fine di febbraio - è probabile che, salvo incidenti di percorso, saranno eliminati dalla scena anche altri quattro referendum (legge Reale, manicomiale, inquirente, aborto) con procedure più o meno truffaldine, tutte comunque ispirate non al reale mutamento del merito delle materie in esame ma alla "ragione politica" del nuovo accordo. Resterà probabilmente sul tappeto soltanto la legge sul finanziamento pubblico ai partiti in modo da arrivare nel prossimo giugno alla prova popolare con tutti i partiti impegnati a respingere la proposta abrogativa ed a confermare quella legge, votata con insolita e singolare speditezza nell'aprile 1974, che attribuisce complessivamente ai partiti 45 miliardi di lire l'anno.

Se questa ipotesi di previsione si avvera c'è da chiedersi allora la ragione per cui è stata concordemente messa in atto una strategia che elimina tutti i referendum meno quello sul finanziamento pubblico, e quale sarà o potrebbe essere il significato degli schieramenti che si andranno a determinare su questo tema. Rispondere a tali interrogativi non è cosa estranea al discorso che andiamo conducendo sulla trasformazione della democrazia e sul rapporto partiti/società.

Portare la prova referendaria nel paese con uno scontro esemplificativo solo sul finanziamento ai partiti, significherà probabilmente la formazione di uno schieramento che vede uniti in difesa della legge vigente i sei partiti (forse con la sola eccezione del PLI) con l'aggiunta delle mezze ali quali quella Democrazia Nazionale costituita appunto sulla spartizione del sussidio pubblico. Al tempo stesso il tentativo dell'esarchia sarà quello di isolare dall'altra parte i radicali promotori dell'abrogazione della legge attuale, sospingendoli magari accanto al MSI se questo si dichiarerà contro la legge, e comunque in un'area di opinione che si vorrà definire ed etichettare come qualunquista.

Non sappiamo in che misura un tale disegno sarà perseguito, se esso riuscirà, e quali potranno essere gli esiti del referendum. Permane al momento in cui scriviamo l'incertezza sulla sorte della legge Reale che ad ogni costo il PCI non vuole affrontare né per difendere un provvedimento che non ha votato, né per attaccare una linea dura sull'ordine pubblico per timore di perdere consenso d'ordine. Tuttavia non è questo il problema che interessa qui analizzare, ma piuttosto la filosofia che ispira l'eventuale operazione. In questi anni con la strategia referendaria i radicali hanno sviluppato e proposto una soluzione positiva nel rapporto tra reciproche autonomie, la sociale e la politica, attivando gli strumenti operativi per superare l'alternativa tra rivolta o defatigante mediazione partitica. stata, quella radicale, una linea, nel merito, profondamente riformatrice e, nel metodo, saldamente costituzionale. Si vorrà invece, in questo caso, presentare i radicali cosa diversa dalla loro tradizione e prassi fa

cendoli passare come il prodotto della disgregazione sociale in funzione antipartitica. E facendo ciò i partiti che difenderanno "questo tipo di finanziamento pubblico" tenteranno di rigettare fuori da sé la effettiva tendenza che tutti li accomuna, in maggiore o minore misura: quella cioè di divenire sempre più dei prolungamenti dello Stato, come branche istituzionali e istituzionalizzate di questo Stato il cui sistema politico tende ad essere sostenuto, con l'attuale finanziamento pubblico, secondo la logica assistenziale che ormai presiede ogni settore della vita nazionale, dalla economia all'articolazione sociale alla pluralità degli enti locali e di quelli funzionali. Il gioco che sarà tentato sarà quello di sfruttare l'eventuale indipendente allineamento di radicali e di settori della destra sullo stesso terreno (in funzione dell'abrogazione) per mascherare il vero dilemma oggi in gioco. Se cioè il sistema dei partiti deve sempre più rinserrarsi in se stesso autoperpetuandosi con il pubblico denaro e t

utelando "legalmente" le proprie degenerazioni burocratiche e la progressiva perdita di autonomia nei confronti dello Stato e dei suoi meccanismi espansivi di intervento, oppure se occorre ridare respiro alla pluralità di espressioni anche politiche della società civile permettendo nuovi modi di organizzazione politica nei partiti e fuori di essi e, conseguentemente, predisponendo il sostegno finanziario pubblico per strutture destinate all'attività politica di tutti. L'alternativa non è tra partiti e antipartiti, ma tra partiti chiusi e sviluppo di forme politiche plurime; tra uno Stato che invade anche la politica determinandone le forme legali da riconoscere e sostenere, ed uno che predispone i mezzi affinché i cittadini possano autonomamente organizzarsi; tra i partiti nazionalizzati e attività politica socializzata.

La sfida per la sinistra: farsi carico delle spinte a-politiche

Significativamente sul tema del finanziamento pubblico si scontreranno due tendenze di fondo oggi possibili nella vita politica del nostro paese: da una parte chi vuole divaricare la distanza tra autonomia, pluralità di espressioni sociali e la politica, asserragliandosi nella cittadella di questo sistema politico e creando quindi di fatto le condizioni per una accentuazione dei conflitti in atto (violenza come unico modo di espressione sociale, autonomia come irresponsabile separatezza dallo Stato e dalla società dei più) e già gravissimi per ragioni strutturali; dall'altra chi percepisce che la strada per uscire dalla crisi è fatta anche - o soprattutto - da maggiori spazi di libertà dei cittadini, maggiore possibilità di poter vivere individualmente e socialmente senza essere racchiusi e schiacciati dalle grandi organizzazioni burocratiche deresponsabilizzanti e portatrici di autoritarismo.

Dopo la caduta delle speranze per la "politica" come movimento rigeneratore e innovativo che sicuramente hanno dominato il paese negli anni 1974-1976, sembra oggi essere subentrata una vena di disinteresse e di ritorno ai valori del privato e del sociale non politico che si paventa - non a torto - possano rappresentare la fonte di un nuovo qualunquismo. All'interno di questo diffuso stato d'animo a matrici diversificate si intrecciano valori suscettibili di opposti sviluppi. Sono: il corporativismo fondato sugli egoismi di gruppo; la sfiducia nella capacità politica, il recupero di aree di autonomia che non si vogliono assoggettare a direttive totalizzanti che discendono dai grandi centri di potere e di emanazione ideologica; la sensazione che i grandi temi della vita e del rapporto con la storia e la natura sono stati persi d'occhio; la nausea del mondo-verbale di una certa politica; la rivendicazione del volere fare da sé e volere prendere il destino nelle proprie mani.

La sfida che tutta la sinistra ha di fronte è quella di far sì che questo ancora informe groviglio di stati d'animo non sia lasciato in balia delle spinte degenerative e disgreganti riducendo sempre più la politica ad un fatto separato riguardante un certo numero di gruppi che giocano e si scontrano tra loro per il predominio; oppure di farsi parte di queste spinte che potremmo definire a-politiche trovando le forme e i modi in cui tali nuove tendenze non siano rigettate in un terreno estraneo, illegittimo, marginale e irrilevante.

 
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