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Oliva Carlo - 15 marzo 1978
Le ragioni politiche

ESTREMISMO, ISTITUZIONI, DIRITTI CIVILI

di Carlo Oliva

SOMMARIO: In una società integrata le lotte politiche non sono istituzionali, ma sono susccettibili di conseguenze istituzionali. La battaglia per i diritti è più forte oggi perchè lo Stato è sceso in guerra contro l'estremismo, criminalizzandolo. Anche il PCI ha accettato l'ideologia della crisi.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Febbraio-Marzo 1978, n. 6)

Premessa in terza persona

Chi scrive ha fatto parte del Partito Radicale, in posizioni di qualche responsabilità, dal 1964 al 1969, uscendone in seguito a disaccordi di questioni di "linea" e di "gestione", che, a quanto gli è dato capire dall'ultima annata di questa stessa rivista, sono oggi, tra i radicali, tutt'altro che sopite. Non gli sarebbe dispiaciuto, a suo tempo, sfruttare il fatto stesso della sua uscita (che rivestiva, ai suoi occhi, una certa sofferta drammaticità) per il proseguimento nella lotta politica in un partito che anche allora si diceva aperto e disinteressato ai problemi formali, ma non ci riuscì (ebbe persino la rara ventura di farsi estromettere da un congresso radicale, quello ordinario del '69). Più o meno dal '72 ha fatto parte di Lotta Continua, nella cui area, dopo la crisi di questo gruppo in quanto forza organizzata e strutturata partiticamente, continua, per il poco che ciò significa, a riconoscersi.

Quanto precede non serve solo a gratificar e eventuali voluttà narcisistiche dell'autore (anche se tale gratificazione come ben sanno i redattori di riviste, è elemento politico da non sottovalutare). Vuole piuttosto servire a spiegare la genesi d'un assunto di queste note, assunto che, potendo sembrare a qualcuno per lo meno peregrino, è meglio sia lealmente dichiarato in anticipo. E cioè, schematicamente, che: a) oggi, nel nostro allegro paese, esiste un'area politica di sinistra interessata o interessabile a un dibattito di riformulazione di temi e strategia; b) che essa è identificabile solo parzialmente e a prezzo di troppo lavoro in termini d'enunciati che le forze che ne fanno parte esprimono su se stesse; c) che è forse più proficuo provare a servirsi, come criterio, di quello della comune origine politica, assumendo magari l'ipotesi per cui dato significativo sia l'estraneità alla tradizione terzinternazionalista, intesa sia nel senso di continuità storica diretta, sia nel senso di continuità altret

tanto diretta dalle opposizioni e dalle varianti polemiche interne a questa tradizione; d) che quindi, grosso modo, si possa assumere come referente politico comune un'area definita da una linea che divide più o meno trasversalmente, le subaree radicale-libertaria, di Lotta Continua e (udite udite!) dell'autonomia organizzata, mentre riguarda solo marginalmente gli altri partiti, organizzazioni ed aggregazioni della sinistra. L'autore è cosciente del fatto che affermare pubblicamente di considerarsi interessato a un'area che include (sia pure non totalmente) quella dell'autonomia significa, con i tempi che corrono, porre una seria opzione su un biglietto di sola andata per Linosa, ma pensa che questo rischio vada assunto e spera che la direzione di "Argomenti Radicali" vorrà, con tutte le cautele del caso, condividerlo.

Le brevi osservazioni che seguono vogliono soltanto avviare un dibattito su alcuni temi di potenziale confronto interni a questa prospettiva.

Il problema delle istituzioni

E' oggi diffuso, in quella parte della sinistra che, con singolare disattenzione al valore semantico degli aggettivi, ama definirsi "nuova" o addirittura "rivoluzionaria", un giudizio secondo cui Marco Pannella è l'unico uomo politico capace di fare un uso leninista delle istituzioni [1]. Lo si esprime, di solito, in forma di paradosso, ad uso del dibattito interno, per concludere, più o meno "guardate invece come siamo coglioni noi". Personalmente condividiamo abbastanza di cuore la conclusione, mentre siamo perplessi sul giudizio in sé, a meno che, con "uso leninista" non si voglia semplicemente indicare un "uso qualsiasi", cioè il non limitarsi a far finta che le istituzioni non esistano, o, ammesso che esistano, che non ci riguardino se non marginalmente, perché con esse siamo costretti a fare i conti solo dalla tristizia dei tempi. E, per quanto il discorso si potrebbe ripetere ai più diversi livelli, qui ci riferiamo espressamente all'istituzione Stato, contro le cui concrete epifanie, dal momento elet

torale a quello dello scontro di piazza, la "sinistra rivoluzionaria" s'è in questi anni più volte spezzata, e non solo metaforicamente, le corna.

Di fatto, sul tema delle istituzioni, la sinistra è oscillata negli ultimi anni tra due tentazioni, quella di cui sopra, "rivoluzionaria" per definizione, secondo cui lo Stato borghese, com'è noto, s'abbatte e non si cambia (la scuola borghese, la giustizia borghese, la famiglia borghese, "ad libitum") e quella, supposta leninista, d'una utilizzazione ai propri fini. Il fatto, probabilmente, che ad ogni tentativo d'utilizzazione abbia corrisposto (con l'eccezione, fino al giudizio della corte costituzione sui referendum, dei radicali) un'energica mazzata sui denti da parte della borghesia in questione, ha mutato in termini di coscienza dei militanti il problema, ma non l'ha affatto eliminato. Come non l'ha eliminato il fatto che la tematica istituzionale sia stata, negli ultimi anni, fatta propria quasi senza residui dal PCI, le cui formulazioni sull'"autonomia del politico", sulla necessità, da parte della classe operaia di "farsi Stato" fungono oggi da supporto ideologico alla difesa a spada tratta dell'ag

ire discrezionale delle singole istituzioni, con una particolare indulgenza per quelle repressive. Ma tutto ciò è noto [2].

Altro è il discorso delle lotte politiche. Naturalmente, in una società integrata, lotte politiche assolutamente non istituzionali non ce ne sono né ce ne possono essere, ma si può sempre identificare un certo spettro d'attività organizzate che non si prefiggono di passare, almeno in prima istanza, per i canali delle istituzioni. E si tratta di attività che interessano (o hanno interessato) soprattutto l'area che abbiamo definito prima: si tratta di quello che oggi viene in genere definito "pratica degli obiettivi", e che è stato via via chiamato, dai compagni, "azione diretta", "propaganda attraverso il gesto", eccetera. Rientra in questa categoria tutta una gamma di comportamenti disparati, che vanno - per citare esempi noti - dall'obiezione di coscienza all'occupazione di case, dal blocco delle merci fino all'esproprio proletario. Quei comportamenti, cioè, che si mettono in opera ogni volta che, considerando una certa azione socialmente rilevante corretta ed auspicabile, ma non ammessa dal sistema politic

o vigente, invece di avviare le procedure definite e accettate per renderla ammessa, la si attua direttamente. Esempio patetico: il gruppo politico "Latte ai figli del popolo", ritenendo che l'attuale sistema dei prezzi impedisca un'adeguata distribuzione di latte ai bambini, invece d'impostare una lotta di lunga durata per la modifica dell'equilibrio zootecnico e foraggiero, con conseguenti implicazioni sul mercato dei latticini, fa irruzione in un supermarket, s'appropria delle scorte di latte ivi depositate e le distribuisce agli infanti di propria conoscenza.

Lotte di questo genere sono meno insensate di quanto sembrano. E' ovvio, infatti, che non possono esaurirsi in sé, e che, a parte il loro valore come fatti di propaganda, di proposizione in forma drammatica d'un problema che può essere reale, e d'aggregazione, vanno inserite (e sono, di fatto, inserite) in una strategia. Può essere una strategia rozza, come quella della crescita a macchia d'olio (fatta propria per anni da gruppi autonomi in fabbrica, o da quasi tutti i gruppi studenteschi a scuola: è quella per cui ogni obiettivo praticato rappresenta un elemento acquisito definitivamente, destinato a saldarsi a quelli successivi in uno schema valoristico e di contropoteri che, a poco a poco, riempirà tutto il quadro disponibile...) o una strategia anche troppo raffinata (raccomandiamo ai volonterosi di rileggersi, con il senno del poi, le tesi del primo congresso di "Lotta continua"), ma è comunque su strategie di questo genere che è cresciuta, nell'ultimo decennio, l'area politica dell'opposizione. Radical

i compresi, perché la logica della pratica degli obiettivi non si applica solo agli oggetti concreti, e i radicali, se non crediamo siano interessati all'autoappropriazione di derrate o simili, lo sono evidentemente a quella di altre cose, magari meno tangibili. Ma anche questo è banale.

Diritti civili: contraddizione di chi?

E' un fatto che le azioni politiche extraistituzionali sono, in genere, suscettibili di conseguenze istituzionalissime. Prima di tutte la persecuzione penale, trattandosi di comportamenti in genere considerati, dalla legislazione vigente, delittuosi. Questo fatto, innegabile, spesso crea dei problemi: molti compagni si sentono in contraddizione quando, come conseguenza di azioni compiute, in buonissima fede, allo scopo di distruggere (e non di cambiare) lo stato borghese, devono poi difendersi in termini e con argomenti tipici della tradizione "democratica" e "liberale" della stessa borghesia (e del suo Stato). Non è un caso che qualcuno (fuori dall'area che abbiamo assunto come nostra) ci abbia rinunciato: questo significa, ovviamente, dichiararsi prigioniero politico, rifiutare la difesa, e via dicendo. Sono scelte che, personalmente, non condividiamo, non solo perché a questo punto lo scontro con il potere si restringe al piano puramente militare, che non solo non ci interessa, ma che consideriamo assai p

oco favorevole per disparità di forze in campo o potenza di fuoco. Pensiamo, invece, che l'esistenza (e l'utilizzazione) dei diritti civili e politici della tradizione democratica e liberale rappresenti una contraddizione dell'avversario di classe, della controparte, non nostra. La società borghese, oppressiva e barbarica fin che si vuole, ha tuttavia una tradizione "democratica", un'ideologia garantista che essa stessa, salvo che in condizioni particolari d'arretratezza e di crisi, non è riuscita ad eliminare. Per cui è giustissimo usarla, far giocare l'avversario contro se stesso. Questo ci sembra si attui sia quando si rivendicano, per se stessi, tutte le possibili libertà formali, di difesa, di parola, d'organizzazione, di pensiero (anche se ci si considera, personalmente, del tutto rivoluzionari) sia quando si fanno funzionare degli strumenti legislativi esistenti in senso contrario alla volontà della maggioranza politica espressa dalle istituzioni (referendum, e simili). E il motivo, naturalmente, per

cui tanti "estremisti", noi compresi, che non condividono la parola d'ordine "per una repubblica veramente costituzionale", avendo serie riserve da fare su questa Costituzione, hanno tuttavia dato il loro contributo alla lotta per il referendum.

Mala tempora currunt

E' ormai un luogo comune obbiettare a chi si fa portatore d'istanze (troppo) "avanzate" che l'estremismo è l'anticamera del fascismo. Che, cioè, la borghesia può essere tentata, quando è nei guai, di eliminare questa sua specifica contraddizione (a rischio, magari, d'aprirne altre).

Non crediamo che questa sia, oggi in Europa occidentale, un'eventualità reale. Cioè, non temiamo (facendo le corna) una riedizione meno sbrindellata del golpe Borghese. Ma pensiamo lo stesso che, nella sinistra, non tutti oggi siano coscienti della crucialità delle battaglie "di libertà". E della necessità relativa di (ri)prendere in attenta considerazione tutto il problema delle istituzioni e dei diritti politici e civili.

Che il quadro legislativo stia cambiando, è cosa sotto gli occhi di tutti. Dalla legge Reale al confino, lo spettro dei diritti civili politici s'è andato restringendo non poco. La sentenza antireferendaria della Corte costituzionale, che va letta, ci sembra, nel senso d'un sostanzioso accrescimento di poteri della Corte stessa e dell'esecutivo, va nello stesso senso. E le denunce non sono mancate, anche se non si sono ancora tradotte a livello di campagna di massa (il che, ci sembra, è un compito immediato, e non ulteriormente posponibile, di tutta la sinistra). Il guaio, ci sembra, sta nel fatto che questo spostamento del sistema valoristico dello Stato di diritto si sta attuando non senza un certo consenso (non importa quanto spontaneo o indotto) nella massa dei cittadini.

Parliamoci chiaro. Quando si dice, e si ripete, che l'estremismo è in guerra contro lo Stato, si vuol dire che lo Stato ha deciso di scendere in guerra contro l'estremismo. Una guerra non la si fa sparando da una parte sola, e uno Stato democratico in senso classico non può, per definizione, entrare in guerra con dei suoi cittadini. Nove anni di pratica costante e indiscussa dell'obiettivo della criminalizzazione dell'opposizione di sinistra hanno prodotto i loro frutti. E l'ideologia della crisi, del siamo in pericolo, del siamo assediati, del "no pasaran", inaugurata dal potere all'indomani di piazza Fontana, e tuttora in grandissima auge, ha prodotto i suoi frutti a livello di massa (e come no, data la disparità nella disponibilità di mezzi di comunicazione?). E la responsabilità è loro, non nostra. Se ti criminalizzano non hanno il diritto di dire, poi, che non sei un interlocutore valido perché i tuoi mezzi di lotta sono criminali. Peggio per loro. Si discute molto, nella sinistra "nuova" ma "rispettabi

le", se gli estremisti siano o meno compagni che sbagliano. Secondo noi lo sono quando sbagliano, mettendosi in contraddizione con il movimento complessivo, o scegliendo bersagli scorretti, o adottando mezzi moralmente ripugnanti (il terrorismo e l'omicidio politico) e perché sbagliano, non perché - come spesso si suggerisce - sono estremisti.

Ma stiamo deviando dal nostro argomento. Il problema non è quello della legittimità dell'estremismo in quanto tale (e ci mancherebbe altro). E, in questa fase, quello del rapporto tra movimento e istituzioni, rapporto che "deve" passare attraverso l'affermazione e la difesa dei diritti politici e civili. Valori borghesi, certo, ma contraddittori allo Stato borghese, e, comunque, valori in sé. Valori di cui è in corso un tentativo di devalidificazione di vasta portata, che va respinto. Ma di cui bisogna comunque tener conto nell'impostare le proprie strategie di lotta, non nel senso di smorzare ed attenuare obiettivi e piattaforme in considerazione della durezza dei tempi (chi pecora si fa, com'è noto, il lupo se lo mangia), ma nel senso di non farsi soverchie illusioni, oggi, sul tipo di modello ideologico vigente nelle istituzioni e nella coscienza dei cittadini.

Se comandasse chi

Un'ultima osservazione, sul quadro politico sotteso a questa "devalidificazione del garantismo" in corso. Ci sembra un'ipotesi ragionevole quella per cui una grande forza politica come il PCI, che, tra le sue molte nobili tradizioni non ha quella del garantismo, se ha rappresentato un elemento imprescindibile di garanzia di un funzionamento almeno in parte democratico delle istituzioni finché è stato forza d'opposizione, non lo è più da quando è forza di governo. Non c'è santi: il PCI s'è anzi assunto il compito di far passare a livello di volontà politica di massa l'ideologia della crisi. Spesso chi ha profondamente radicata in sé la visione opposta, del PCI unico difensore della democrazia nel paese, tende a considerare le dichiarazioni sempre più bieche dei vari Trombadori, Pecchioli e analoghi in tema di ordine pubblico, leggi speciali, confino, necessità del pugno di ferro, come delle personali farneticazioni, e a contrapporgli le dichiarazioni opposte che in campo comunista si riescono a racimolare (an

che se ormai sono ridotte a quelle del povero, solitario, Terracini). Ora, diciamo francamente che quello di non condividere il punto di vista del PCI è, per ora, un diritto politico rispettabile come gli altri. E diciamo anche che il pluralismo si misura dai fatti, non dalle intenzioni e dalle dichiarazioni, e non solo sul metro delle garanzie che offre a destra ma anche su quello delle garanzie che offre a sinistra. E che ci riserviamo il diritto di considerare capzioso l'argomento di chi, per difendere il confino, si chiede che cosa succederebbe se comandasse Pifano. Che cosa succeda quando il PCI, pur senza comandare, s'avvicina all'area del potere, non abbiamo bisogno di domandarcelo. Lo abbiamo sotto gli occhi.

Note

(1). Ne rivendica la paternità il noto Silverio Corvisieri, nel suo "pamphlet I senzamao" (Roma, Savelli, l976). Ma abbiamo sentito l'affermazione su molte altre bocche.

(2). Per tutti si può vedere, appunto, Mario Tronti, "Sull'autonomia del politico" (Milano, Feltrinelli, 1977). Sul problema generale delle istituzioni, visto da sinistra, raccomandiamo caldamente la recente raccolta di saggi (originariamente scritti per i "Quaderni piacentini") di Federico Stame: "Società civile e critica delle istituzioni" (Milano, Feltrinelli, 1977).

 
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