di Gianfranco SpadacciaSOMMARIO: Gli atti del convegno sullo statuto e sull'esperienza del Partito radicale che si è svolto a Roma all'Hotel Parco dei Principi nei giorni 5, 6 e 7 aprile 1978.
("L'ANTAGONISTA RADICALE" - La teoria e la prassi del partito nuovo, socialista e libertario; e lo statuto e l'esperienza del PR nella società e nelle istituzioni - Convegno del consiglio federativo del Partito Radicale - Roma, aprile 1978)
Gianfranco Spadaccia
PERCHE' IL CONVEGNO
ll tema di questo convegno è ``La teoria e la pratica del partito nuovo socialista e libertario, e lo statuto e l'esperienza del partito radicale nella società e nelle istituzioni''. Potremmo tuttavia togliere tranquillamente quella virgola e quella congiunzione e sostituirla con i due punti: ``lo statuto e l'esperienza del partito radicale..''. Non è presunzione. Vorremmo che fosse altrimenti. Vorrei che fosse altrimenti. Ma mi sembra difficile, nel dibattito e nell'esperienza delle forze politiche italiane di questo dopoguerra, trovare traccia, se non nei saggi di qualche rivista, di teoria e prassi di un'organizzazione politica libertaria, di altra teoria e prassi che non sia quella radicale.
Questo è vero purtroppo per tutta la componente non leninista della sinistra storica, e quindi essenzialmente per il Partito Socialista Italiano e per le sue derivazioni scissionistiche di destra e di sinistra (il primo PSDI, il PSIUP). Anche oggi, nel PSI, quando si parla di rinnovamento, non si sfugge alla sensazione che si inseguano modelli di efficientismo aziendalistico e tecnologico, senza intaccare una teoria di formalismo democratico che ha prodotto nel passato la cristallizzazione delle correnti e la loro proliferazione, e senza intaccare una pratica centralistica e burocratica nella quale il modello morandiano mai rinnegato è stato largamente inquinato dalle esperienze di potere governativo e soprattutto sottogovernativo.
Ma è vero purtroppo anche per la cosiddetta nuova sinistra, per la sinistra rivoluzionaria, che ha ripercorso la strada dell'esperienza leninista, guardando più al passato della storia del movimento comunista e dei partiti comunisti guardando più al recupero organizzativo di una loro pratica rivoluzionaria che alle condizioni politiche, ideali e sociali da cui nascevano dopo il '68 le organizzazioni della nuova sinistra.
Parlo naturalmente di teoria e di prassi nella sfera propria dell'organizzazione politica e più particolarmente del partito politico. Non mi riferisco a ciò che è accaduto nel movimento e nei movimenti dal '68 ad oggi, con le enormi spinte di democrazia diretta che sono state spesso creative e che in più occasioni hanno rotto cristallizzazioni, incrostazioni, abitudini burocratiche; e fra queste, in particolare, alla giusta spinta che si è indirizzata verso il rifiuto della delega. Si è fin troppo abusato della confusione fra soggetti sociali e soggetti politici per creare, con l'esaltazione del movimento, una sorta di limbo, una sorta di terra di nessuno, nella quale l'antiistituzionalismo del movimento si trasformava nel peggiore e più chiuso istituzionalismo quando si passava all'organizzazione e in cui dalla teorizzazione della democrazia diretta si passava al più tradizionale e ferreo centralismo quando si percorreva la strada dell'esperienza organizzativa.
E' un discorso che meriterebbe di essere trattato a parte, e non con fuggevoli accenni. Mi limiterò ad osservare che queste spinte e questo movimento, che pure hanno influito - e non poteva essere altrimenti - sull'organizzazione politica (basti pensare all'influenza sull'organizzazione sindacale, con i consigli di fabbrica, nel '69 e '70) non sono però riusciti a trasformarla sostanzialmente, né si sono tradotti in una conseguente teoria e prassi dell'organizzazione politica. ll rapporto si è al contrario cristallizzato in una dialettica fra organizzazione politica da una parte e movimento dall'altra, identificando molto spesso quest'ultimo con l'assemblearismo; con questa conseguenza: che in alcuni periodi l'organizzazione, servendosi proprio dell'assemblearismo e del rifiuto della delega, riusciva a influire sul movimento fino in certi momenti ad egemonizzarlo o a recuperarlo, mentre in altri momenti, in quelli più vitali come in quelli più critici, il movimento respingeva l'organizzazione e rompeva con l
'organizzazione come è avvenuto con il PCI, con i sindacati e con la sinistra storica nel '77, o riusciva a metterla in crisi come è avvenuto con Lotta Continua dopo le elezioni del '76 (una crisi che si è dimostrata vitale ma che non ha risolto il problema del rapporto fra movimento e organizzazione).
La mancanza di un salto qualitativo, la mancanza di una sintesi; peggio, la persistenza di questa contraddizione fra teorizzazione della democrazia diretta nel movimento e pratica centralistica nell'organizzazione, sono difficilmente negabili. Certo ci sono ragioni oggettive: le difficoltà della lotta contro il potere, e contro i condizionamenti della cultura dominante. Ma ci sono anche ragioni soggettive: il cordone ombelicale ideologico leninista che ha continuato a legare al PCI i suoi contestatori che volevano misurarsi con l'organizzazione, e spingeva a guardare indietro al PCI duro e puro dell'organizzazione militare o paramilitare leninista. Ma bisognerebbe anche approfondire la tematica dell'assemblearismo, e in particolare l'identificazione fra assemblearismo e democrazia diretta, fra assemblearismo e rifiuto della delega, come una delle cause di questa dialettica che non è riuscita a trovare una sintesi, di questa cristallizzazione, di questa - forse soltanto apparente - contraddizione. Dietro l'as
semblearismo non c'è forse l'utopia della volontà generale, che ha prodotto il giacobinismo?
Rileggendo ancora il tema del convegno, forse avremmo dovuto togliere quel ``nuovo''. Ho personalmente una qualche riluttanza e antipatia per questo aggettivo. Certo per la sua ovvietà e anche per la sua superfluità in questo tema specifico, se è vera la situazione che ho appena delineato. Forse anche perché riecheggia in qualche misura la tematica togliattiana del ``partito nuovo''. Ma anche perché, come Pannella, anch'io sono convinto che per battere e sconfiggere il vecchio e trovare e conquistare il nuovo bisogna recuperare, nel patrimonio teorico e storico della sinistra, molto dell'antico che è stato liquidato e abbandonato come utopistico, ingenuo, primitivo dal socialismo cosiddetto scientifico; recuperare nelle antiche lotte socialiste i valori del liberalismo e della democrazia che prendevano corpo e consistenza proprio dalle lotte del proletariato condotte contro la borghesia; scavare nella storia della sinistre, fra le culture minoritarie sconfitte da quelle divenute egemoniche e vittoriose, e in
particolare dal leninismo.
Infine, sempre sul tema del convegno, è necessario un chiarimento. Perché la ``teoria e la pratica'' anziché, come sarebbe stato più giusto, parlare di teoria e prassi? Non è stato né un errore né un caso.
Nel 1967 il Partito Radicale ha prodotto uno statuto che sarebbe stato inconcepibile - per un partito che era allora composto nei momenti migliori da non più di duecento iscritti - se ci fossimo proposti soltanto la regolamentazione dei rapporti interni dei radicali che allora facevano parte del partito. ln realtà quello statuto era una proiezione futura, un modello e un programma di organizzazione politica per un partito da costruire, che consideravamo validi e proponevamo non per il solo Partito Radicale, ma per l'intera sinistra. Nella sua polemica contro l'ideologismo della sinistra, nella quale vedeva uno strumento di potere di ceto e di classe, il Partito Radicale, contro tutte le apparenze, non ha mai sopravvalutato il momento dell'azione rispetto e contro il momento del pensiero. l radicali d'assalto delle marce e dei sit-in, dei processi e dei digiuni, dell'obiezione di coscienza e dei referendum, sono stati degli sperimentalisti rigorosi, mai dei pragmatisti e degli spontaneisti. Lo statuto è stato
la nostra teoria dell'organizzazione. E' mancata una prassi di cui si possa dire che sia davvero coerente con lo statuto.
Questa constatazione non va naturalmente presa alla lettera. Non si può infatti non parlare di teoria e di prassi radicale se guardiamo indietro alle nostre lotte e alle intuizioni teoriche che le hanno ispirate e che abbiamo sviluppato e sperimentato con l'azione politica. Ne ricorderò alcune, rimanendo con i piedi per terra, cioè aderente al terreno che abbiamo realmente e inconfutabilmente dissodato nella società e nelle istituzioni: i diritti civili concepiti non come realizzazione ritardata di un garantismo paleoliberale che non aveva mai trovato possibilità di attuazione in Italia, ma come concreti strumenti di lotte di liberazione di classe, non di minoranze soltanto, ma di maggioranze e dell'intera società; la nostra non-violenza e il nostro rapporto di non-violenti con la legalità vigente (basti pensare all'uso della difesa politica nei processi, alle nostre limitate ma rigorose esperienze di disubbidienza civile, ai metodi e agli obiettivi dei nostri digiuni nel rapporto con il potere e con le isti
tuzioni); il ruolo che abbiamo avuto nell'affermare in questo paese - per la prima volta - le lotte di liberazione sessuale e di liberazione della donna, la tematica della diversità, oggi tutte forse semplicisticamente riassunte nella formula del ``personale e politico''; il nostro pacifismo e antimilitarismo fondato sulla convinzione che non si possa costruire una società socialista con mezzi che siano contraddittori rispetto ai fini; la nostra critica e la nostra alternativa all'ideologia economicistica del resto della sinistra e il nostro contributo allo smantellamento all'inizio degli anni sessanta di una concezione schematica, scolastica e falsa del rapporto struttura-sovrastruttura; le nostre polemiche contro l'antifascismo ufficiale e sul fascismo delle strutture, delle istituzioni e delle leggi; le nostre analisi sul regime, sul clericalismo e sul corporativismo, sul ruolo del capitalismo di stato, sui concreti meccanismi di integrazione, di compromissione e di cogestione corporativa e interclassista
che coinvolgevano la sinistra e i sindacati; la nostra coerente promozione di una strategia di alternativa di sinistra e della sinistra, contrapposta a quella del compromesso istituzionale.
Viene da sorridere, di fronte a questi ancoraggi teorici e ideali, che ci si voglia confondere con una forza equivoca, disgregatrice e qualunquistica. Non è neppure polemica politica artificiosa e strumentale; purtroppo è peggio: è grossolana ignoranza di ciò che siamo e siamo stati, mancanza di conoscenza che è il prodotto di intolleranza e di rifiuto del dialogo, rifiuto di confrontarsi con l'alternativa libertaria che abbiamo rappresentato e a cui abbiamo dato, spesso con successo, e con successi di cui si è avvantaggiata l'intera sinistra, organizzazione e forza politica.
Credo che sia ugualmente legittimo parlare di teoria e di prassi se guardiamo alla concreta esperienza organizzativa del partito, li dove siamo riusciti a dare attuazione a ciò che era previsto nello statuto.
Pensiamo all'autofinanziamento e alla pubblicità dei bilanci, introdotta nel 1967. Pensiamo alla prassi dei congressi annuali che via via crescevano come partecipazione e come numero di congressisti e si rivelavano ogni anno un fattore importante di crescita collettiva, di acquisizione comune di riflessi di lotta politica da parte dei militanti radicali. Pensiamo al quorum dei due terzi richiesto per rendere vincolanti le mozioni politiche e programmatiche e all'elezione diretta del segretario da parte del congresso con mandato limitato alla esecuzione degli impegni previsti dalla mozione congressuale. Pensiamo a quell'altro organo esecutivo, eletto anch'esso direttamente dal congresso, che è il tesoriere, figura sconosciuta agli altri partiti. E ancora: alla assenza di ogni forma disciplinare di rapporti interni, all'inesistenza di probi-viri, commissioni di controllo, giudici e poliziotti di partito, all'impossibilità di sindacare i motivi dell'iscrizione, di accogliere o respingere le richieste di iscrizi
one; alla autonomia riconosciuta agli eletti radicali, che non è possibile vincolare né a disciplina di partito né a disciplina di gruppo.
Se guardiamo a queste esperienze credo che, nella sua limitatezza e insufficienza, abbiamo però costruito l'embrione di una organizzazione che ha caratteristiche non solo di originalità e di novità ma di radicale diversità rispetto alle abitudini e al modo di concepire l'organizzazione che è proprio delle forze politiche italiane e delle forze politiche della sinistra. Credo che abbiamo dato, in termini di organizzazione politica, un contributo originale e creativo e che probabilmente per trovare l'uguale bisogna risalire molto indietro nel tempo, alla fase più creativa del movimento operaio, quella in cui sorgevano le camere del lavoro, le leghe, le sezioni socialiste, le prime organizzazioni operaie e cooperative.
Ma tutto ciò non è l'essenza del nostro statuto. L'essenza del nostro statuto è nell'aver tentato di dare una risposta libertaria ai problemi dell'organizzazione politica socialista, attraverso la riscoperta e la riproposizione del federalismo, proprio della tradizione repubblicana e socialista, e anche di quella liberale.
Rispetto a questo nucleo teorico fondamentale del nostro statuto, è mancata una prassi radicale per il semplice fatto che ne sono mancate le condizioni sia soggettive (del partito radicale) sia oggettive (della sinistra e della società) che ne consentissero la possibilità. Perno e caratteristica centrale dello statuto sono i partiti radicali regionali e i movimenti federati, rappresentati direttamente e permanentemente nel consiglio federativo, unico organo deliberativo oltre il congresso, attraverso i loro segretari e senza altre mediazioni. Certo, proprio per ispirazione e sollecitazione dello statuto, noi abbiamo avuto una costellazione di movimenti autonomi, alcuni anche significativi e importanti, di esperienze associative, di sigle: dalla LID (la lega del divorzio) al MLD (Movimento di liberazione della donna), dalla LOC (lega degli obiettori di coscienza) al FUORI (movimento di liberazione sessuale e omosessuale), e più recentemente al FRI (fronte radicale invalidi), al CARM (centro per l'abolizione d
ei regolamenti manicomiali), al LSD (lega socialista per il disarmo). Del resto tutta la nostra esperienza associativa anche iniziale era stata costellata da tentativi in questa direzione.
Quanto ai partiti regionali essi si sono cominciati a costituire quando la dimensione quantitativa delle adesioni al partito lo ha consentito, ma hanno una esperienza appena iniziale e strutture tuttora esili.
Per meglio comprendere tuttavia cosa intendevamo proporre con il nostro statuto, quale proposta teorica formulavamo, qual era la dimensione organizzativa a cui pensavamo, ricordo che nei nostri dibattiti facevamo esplicito riferimento a una soluzione federativa del rapporto partito-sindacato, secondo un modello statutario che soltanto il partito laburista ha realizzato, fra i partiti socialisti europei: un sindacato autonomo ma legato al partito attraverso il rapporto federativo, partecipe, nella sua autonomia, del momento deliberativo, del momento della formazione della volontà politica del partito, come sua componente federata. Erano gli anni in cui Amendola parlava di fallimento dell'esperienza leninista e di quella socialdemocratica e della necessità di una rifondazione socialista con il superamento della scissione del '21. Ebbene, non c'era nulla di più radicalmente alternativo di questo nostro nucleo teorico federalista, sia rispetto alla concezione leninista e staliniana - fino ad allora prevalsa - de
l sindacato-cinghia di trasmissione, sia rispetto alle tendenze interclassiste e unanimistiche della nuova unità sindacale che si stava delineando e che già allora denunciavamo.
Ciò che proponevamo era la conciliazione organizzativa, attraverso la soluzione federativa, del momento dell'autonomia e del momento della necessaria unità. Ci ponevamo quindi come antagonisti di una linea e di una strategia che, attraverso la rivendicazione dell'autonomia dai partiti contro le precedenti strumentalizzazioni, portava tuttavia il sindacato a sposare una teoria interclassista e corporativa che è in radicale contrasto con l'esperienza del movimento operaio italiano ed europeo (ovunque in Europa, nei rapporti sia con i partiti socialisti che con quelli comunisti, il sindacato o è socialista o non è, o è di classe o non è). Alla stessa maniera, quando pensavamo ai partiti regionali, pensavamo a partiti autonomi capaci di organizzarsi nella dimensione di territori e popolazioni che superano spesso quelli di piccoli e medi paesi europei.
Se ricordo tutto questo, lo faccio per precisare il tipo di soluzione teorica - di ampio respiro, valida non per un gruppetto minoritario ma per il partito nuovo della sinistra - che proponevamo in alternativa al modello del centralismo democratico dei partiti comunisti e a quello del formalismo democratico delle socialdemocrazie. Pensavamo a un partito che unificasse attraverso i programmi e attraverso la convivenza di ampie ed effettive autonomie, e non attraverso il tessuto connettivo di una ideologia. Pensavamo ad un partito che avesse la capacità di prefigurare, già nella sua organizzazione, il tipo di società e di stato che intendeva costruire.
E' chiaro che in questo quadro, in questa prospettiva, non è esistita, per mancanza di condizioni oggettive, una prassi radicale federalista. Le polemiche ricorrenti che ci sono state all'interno del partito sulla attuazione di questa o quella parte dello statuto, tutte certo legittime, appartengono tuttavia alla normale conflittualità interna di ogni organismo politico. Credo che si debba riconoscere (anche da parte di coloro che si sono serviti dei richiami statutari per alimentare questa legittima conflittualità) che sarebbe immiserire il dibattito sulla teoria e la prassi radicale il ritenere che la realizzazione di una grassi coerente con questa teoria sia solo questione di volontà politica e non richieda invece l'esistenza di condizioni minime soggettive ed oggettive, qualitative e quantitative. Nella mancanza di queste condizioni, e ad uno stadio di crescita inadeguato e insufficiente del partito, una corrispondenza soltanto formale della prassi alla teoria, un'attuazione puramente formale dello Statu
to, sarebbero solo una caricatura del disegno statutario che abbiamo proposto e continuiamo a proporre dal '67 a noi stessi, alla sinistra e al paese.
Ma perché sono mancate queste condizioni, pur in presenza di significativi successi della lotta politica radicale? Su ``Quaderni radicali'' recentemente ho avuto occasione di citare un giudizio di Vittorio Saltini, tratto da un articolo saggio sulla cultura politica del dopo sessantotto. Lo ricordo anche qui, perché mi sembra emblematico dei limiti della considerazione anche positiva degli osservatori politici e culturali nei confronti del partito e della politica radicale.
Scriveva Saltini: ``L'unico gruppo che, sulla spinta del sessantotto, è stato efficace in paragone della sua forza numerica, sono i radicali, che senza troppe illusioni marxiste-operaiste hanno capito che la possibilità aperta dal '68 era il mutamento del costume e quindi delle leggi che limitavano i diritti civili e con le loro iniziative, come ha mostrato il voto sul divorzio, hanno favorito la crescita di tutta la sinistra. L'efficacia dei radicali, malgrado i limiti della loro dirigenza, dà un'idea di quello che si sarebbe potuto fare dal '68 ad oggi se migliaia di intellettuali e di giovani non si fossero dispersi nei sogni conformisticamente marxisti del Manifesto, di Avanguardia Operaia, di Lotta continua''.
La domanda che mi ponevo, commentando su QR le considerazioni di Saltini, era questa: come avrebbero potuto quelle migliaia di giovani e di intellettuali essere diversi da ciò che sono stati? Se la grande esplosione libertaria del 68 s'è tradotta nella riproposizione meccanica di forme più o meno mascherate di centralismo democratico, questo non è certo avvenuto per caso. Agli occhi dei ``chierici'' della cultura e della comunicazione di massa noi eravamo una piccola eresia, una minoranza culturalmente rifiutata e ignorata, che doveva essere schiacciata come erano state sempre ignorate, rifiutate e schiacciate da Gobetti in poi le minoranze radicali e libertarie che ci avevano preceduto. I movimenti del dopo-'68 nascevano invece da un rapporto dialettico con la cultura e l'ideologia dominante della sinistra, e nel momento stesso in cui la contestavano ne riproponevano alcune caratteristiche fondamentali: per questo semplice fatto tutte le mode culturali, tutta l'attenzione dell'informazione, tutti gli amplif
icatori delle comunicazioni di massa concorrevano a far moltiplicare queste tendenze neoleniniste del dopo-68. Chi va contro-corrente non solo invece non ha diritto all'informazione, ma non ha diritto neppure alla propria identità, non ha diritto ad essere neppure considerato come interlocutore culturale o politico. La strategia che era dietro le nostre lotte, le nostre analisi che, forse uniche a sinistra, hanno retto alla prova di quindici anni di lotta politica, non erano considerate degne di attenzione. Di noi restavano gli aspetti folkloristici o i risultati vittoriosi delle nostre iniziative: per dirla con Saltini, nella migliore della ipotesi, la cosiddetta ``efficacia'' dei radicali.
Non meraviglia che in questa situazione noi stessi al nostro interno ci siamo trovati alle prese e siamo condizionati da luoghi comuni che solo con difficoltà siamo riusciti a diradare e a superare. Ne cito uno per tutti: quello dei radicali, movimento o partito, evocato anche recentemente da Craxi nel congresso del PSI a Torino, quando diceva: quanto era bello il Partito Radicale quando, era soltanto un movimento! Ma noi non siamo mai stati un movimento. Anche quando eravamo rimasti poche decine di persone non abbiamo mai rinunciato a chiamarci partito, non abbiamo mai rinunciato al diritto di affermare la nostra concezione del partito, e non abbiamo mai rinunciato ed essere parte politica e a proporre come tale i nostri valori e le nostre demarcazioni ideali. Quando si parla della cosiddetta nostra efficacia, quando l'attenzione si ferma sugli aspetti folkloristici delle nostre iniziative o sugli effetti vincenti di alcune nostre battaglie, non bisogna ma i dimenticare che tutto questo non si sarebbe verif
icato né sarebbe stato possibile senza che ci fosse dietro la volontà di un trascurabile gruppetto di persone di essere partito, cioè parte politica contrapposta alle altre parti politiche, con il diritto a far valere le propria concezione della società, i propri valori, le proprie lotte politiche. Senza questo, la LID e la battaglia per il divorzio non sarebbe stata possibile, sarebbe stata recuperata, occupata e quindi ridotta alla difesa degli interessi corporativi dei separati e sostanzialmente impedita dalle altre forze politiche, le quali tutte - senza eccezione - vedevano negli effetti scatenanti del laicismo e dell'anticlericalismo indotti dal divorzio un pericolo per le loro strategie e per gli equilibri politici. Ma questo si può tranquillamente ripetere per tutte le altre nostre lotte politiche a cui si riferisce Saltini quando parla della straordinaria efficacia dei radicali o a cui si riferivano Corvisieri e Tronti in passato quando ci riconoscevano capaci, dal loro punto di vista ideologico, di
un ``uso leninista'' delle istituzioni (di cui non erano ritenuti i leninisti).
Ma, indipendentemente dai motivi che hanno impedito l'attuazione dello statuto e che ci fosse una prassi federalista radicale coerente con la teoria contenuta nello statuto, oggi siamo di fronte alla necessità di una svolta, e ci siamo drammaticamente, con la sensazione di trovarci di fronte a un precipizio o a un vuoto estremamente difficile a saltare o riempire. Questo è il significato della decisione presa nel febbraio scorso da Adelaide Aglietta di sospendere le attività nazionali del partito. Questo è almeno il significato che io leggo in quella decisione. Di fronte ai processi politici drammatici di questi mesi, di fronte alla crisi del paese e delle istituzioni, di fronte al venir meno della possibilità di cambiamento della sinistra, delle sue strategie e del suo modo d'essere, o riusciremo a realizzare nel paese il partito federalista previsto dallo statuto, a realizzare non uno ma tanti partiti radicali, cioè i partiti radicali delle Regioni, o non riusciremo, non sarà più possibile portare avanti c
on successo l'iniziativa e la presenza radicale.
Nel congresso di Bologna del novembre scorso, quando abbiamo previsto questo convegno, avvertivamo la necessità che, vincitori o sconfitti sui referendum, si aprisse comunque per il partito un periodo di riflessione e di approfondimento collettivi analogo a quello che nel 1967 portò all'approvazione dello statuto. l fatti di questi mesi dimostrano che i fenomeni che avevamo denunciato si sono spinti più in là e con maggiore accelerazione di quanto noi stessi non avessimo pensato. E' una ragione per considerare importante ed utile questo convegno. Io credo però che non dobbiamo nasconderci che esso ha alcuni limiti, perché solo se li avremo presenti riusciremo a superarli.
ll primo limite è che esso non nasce da una preparazione e da un dibattito che abbia investito tutto il partito: è al contrario una operazione essa stessa preparatoria del dibattito del partito, uno strumento tecnico che il consiglio federativo ha predisposto per il partito.
Io avverto inoltre un pericolo aggiuntivo: di un dibattito teorico che sia astratto dal corpo del partito e separato dalla sua esperienza militante. E c'è infine un terzo limite: ripercorrendo la nostra esperienza di lotte, abbiamo visto che ci sono tanti segmenti di realtà che meriterebbero un approfondimento teorico, o anche semplicemente una trattazione che li recuperi alla conoscenza e alla memoria collettiva del partito. Alcuni di essi non saranno invece trattati, saranno trascurati in questo convegno, per mancanza di energie interne ed esterne al partito. Ma io mi auguro che anche con questi limiti il convegno si riveli importante ed utile, evitando il duplice rischio di una sistemazione teorica a posteriori che metta delle pecette alle necessarie contraddizioni dell'esperienza radicale, o di un dibattito politico generico sui fatti che ci sono suggeriti dalla drammatica attualità.
Nel 1971, all'indomani della vittoria parlamentare sul divorzio che eravamo riusciti a determinare, imponendola alle forze laiche del paese, ci trovammo in una situazione per molti versi analoga alla attuale. Invece di trarre le conseguenze da quella vittoria parlamentare, il PCI si ritraeva e preferiva stringere la politica del compromesso. Uscimmo allora su ``La prova radicale'' dicendo: il partito laico a cui facevamo riferimento non esiste più neppure come espressione parlamentare. O il Partito Radicale trova la forza di essere partito laico nel paese oppure il laicismo, nella sua concretezza, nella sua storicità, di nuovo come nel 1929 con il fascismo, come nel 1947 con l'art. 7, sarà travolto.
Ricordo un articolo di Berlinguer all'indomani di quella battaglia parlamentare sul divorzio. Scriveva Berlinguer: esistono droghe libertarie che sono più pericolose delle droghe chimiche. Le droghe libertarie eravamo noi, erano le nostre battaglie, le nostre strategie, i nostri valori alternativi, gli stessi che sarebbero diventati patrimonio della generazione degli anni '70. Quelle parole di Berlinguer tornano attuali. Le nostre vittorie degli anni successivi sono riuscite infatti soltanto a ritardare scelte fallimentari per la sinistra e per il paese che oggi invece si stanno consumando in modo catastrofico; così torna per noi attuale quella alternativa: dover essere ancora noi, o nessun altro, il partito del laicismo, del libertarismo, del l'alternativa.