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Teodori Massimo - 7 aprile 1978
L'ANTAGONISTA RADICALE: (2) La questione del partito
di Massimo Teodori

SOMMARIO: Gli atti del convegno sullo statuto e sull'esperienza del Parito radicale che si è svolto a Roma all'Hotel Parco dei Principi nei giorni 5, 6 e 7 aprile 1978.

("L'ANTAGONISTA RADICALE" - La teoria e la prassi del partito nuovo, socialista e libertario; e lo statuto e l'esperienza del PR nella società e nelle istituzioni - Convegno del consiglio federativo del Partito Radicale - Roma, aprile 1978)

PARTE PRIMA

LA QUESTIONE DEL PARTITO: INTRODUZIONE

Massimo Teodori

LA QUESTIONE DEL PARTITO (relazione introduttiva)

1. Singolarità, emergenza e durata del fenomeno politico radicale. 2. Inapplicabilità al PR delle categorie di analisi dei partiti. Intreccio della questione del partito con la questione politica. 3. La risposta della sinistra negli anni sessanta. 4. Sinistra storica e nuova sinistra marxista negli anni settanta. 5. L'emergenza di una ``parte'' politica radicale negli anni settanta. 6. La forzatura del blocco del sistema politico da parte dei radicali negli anni settanta. 7. Un partito bifronte. 8. ll primo volto: il Partito Radicale delle riforme. 9. ll secondo volto: il nuovo radicalismo come premonitore di valori alternativi. 10. PR come forma organizzata dell'autonomia nella società politica. 11. Ancora la politica prima della ``questione del partito''. ll dilemma tra partito-avanguardia e partito dei cittadini.

1. Un'analisi della ``questione del partito'' in riferimento all'esperienza radicale deve prendere le mosse da una assai semplice constatazione, indipendentemente da qualsiasi giudizio di valore. ll Partito Radicale è l'unico gruppo-partito italiano che sia riuscito a durare per un lungo periodo e ad emergere nel sistema politico e in quello politico-elettorale che non derivi la sua origine da una scissione di un partito o che non affondi le sue radici in un movimento sociale preesistente. Né le esperienze del mondo laico nel dopoguerra hanno avuto analoga sorte - e mi riferisco al Partito d'Azione, a Unità Popolare del 1953 e al vecchio Partito Radicale della seconda metà degli anni '50 -; né le forze di nuova sinistra marxista sorte all'indomani del 1968 possono essere paragonate alla vicenda del PR in quanto esse hanno avuta la doppia caratteristica di essere in qualche misura figlie di scissioni dalle maggior forze del movimento operaio, comunisti e socialisti, e di far riferimento, sia pure verbalmente

nella maggior parte dei casi, a movimenti preesistenti alla propria costituzione in gruppo partitico.

Mi pare del resto di potere parimenti osservare che queste singolarità della durata e dell'emergenza radicale siano tali anche se allarghiamo il campo di osservazione dall'Italia ai grandi paesi europei, Germania Inghilterra e Francia, nonostante che in quest'ultimo paese il sistema politico abbia mostrato una flessibilità e una mutabilità ben superiore a quello italiano.

E' dunque a partire da questa constatazione che si deve analizzare la singolarità del ``fenomeno radicale'' per cercare appunto di individuare, al di là della semplice registrazione di fatto, i caratteri e le ragioni di tale singolarità. Perché nel nostro caso o ci si trova di fronte alle ultime manifestazioni di un qualcosa che sta tramontando per cui il fenomeno radicale sarebbe un tardo sussulto, oppure si assiste all'avvisaglia di qualcosa di segno nuovo che si manifesta appunto con caratteristiche singolari ed eccezionali rispetto al quadro che si è abituati a considerare.

2. Se applichiamo al PR i concetti approntati per la comprensione del partito nella società contemporanea, credo che rischieremmo di non andare molto al di là della analisi di una forma, senza penetrare nella sostanza del fenomeno politico radicale nel suo specifico svolgersi storico. ln questo caso l'analisi funzionale è quasi del tutto inservibile per il microcosmo radicale. A poco, mi pare, servono quelle categorie che, per esempio, il Duverger suggerisce per l'analisi della struttura dei partiti. E' fuorviante soffermarsi sul fatto che il PR ha ``struttura diretta'', cioè un rapporto diretto tra membri e istituzione partitica, oppure ``struttura indiretta'', cioè basata su organismi di base attraverso cui si è parte del partito. Così come - sempre con il Duverger - non possono applicarsi al PR i concetti di ``adesione'', i gradi e la natura di ``partecipazione'' e quelli riguardanti la ``direzione'' del partito attraverso l'analisi delle Scelte dei dirigenti e la loro natura oligarchica, la loro autorità

e il rapporto tra dirigenti e parlamentari.

Altri, in questo convegno, si soffermeranno sulle caratteristiche istituzionali del Partito Radicale, - lo statuto - e presenteranno qui le loro analisi e conclusioni. A me comunque pare che gli strumenti consolidati che da Roberto Michels e Maurice Duverger sono offerti per l'analisi dei partiti non possono applicarsi al nostro caso in quanto si riferiscono o a "partiti di quadri", in grado di avere una larga influenza nell'elettorato con il loro carattere decentralizzato, scarsamente organizzato e il predominio dei parlamentari sui dirigenti; oppure a "partiti di massa" il cui modello rimane storicamente quello socialdemocratico tedesco con una forte struttura burocratico-oligarchica.

Ci sono perlomeno due ordini di ragioni per cui quei classici strumenti interpretativi non ci aiutano: il primo riguardante una questione di dimensioni che è anche in questo caso qualità. Al di sotto di una certa soglia è impossibile applicare analisi funzionali a strutture come quella radicale in cui i motivi strutturali per l'esiguità del partito sono strettamente intrecciati con quelli personali e politici.

ll secondo riguarda l'obiettivo del partito a cui si possono applicare le tipologie della scienza politica. Sia i classici partiti di quadri che quelli di massa hanno come fine qualificante la gestione del potere o la sua conquista. Ciò sia nel caso dei partiti burocratici di massa che tendono ad apprestare in sé un complesso meccanismo in grado di sostituirsi a quello gestionario del governo giù giù fino alle istanze più periferiche di una moderna società industriale; sia nel caso del modello leninista-avanguardista in cui ha luogo la preparazione, nel quadro di un'organizzazione fortemente centralizzata e disciplinata, di un gruppo più o meno largo di rivoluzionari di professione per la conquista del potere.

Tutti questi criteri non possono sostanzialmente aiutarci per il Partito Radicale. La singolarità radicale - da cui anche le sue caratteristiche pressoché uniche che prima ricordavamo - devono invece essere rintracciate nello "stretto intreccio della ``questione del partito'' con la ``questione politica''"; ed è per ciò che centrerò l'attenzione sull'esame di quest'ultima in particolare per ciò che riguarda il rapporto dei radicali con la società politica e la società civile, sugli obiettivi di azione perseguiti, sui valori di cui i radicali sono stati esplicitamente o implicitamente portatori; e quindi sui metodi di lotta politica impiegati. Rispetto a tutti questi criteri tenterò di individuare così le caratteristiche specifiche della singolarità radicale e conseguentemente quella che mi pare debba essere, nel nostro caso, la questione del partito.

3. Con gli anni sessanta lo sviluppo detto neocapitalistico della società italiana poneva alle forze del mutamento, e quindi della sinistra, una sfida analoga a quella in corso in molti altri paesi del mondo industriale: avere fiducia nel progresso e nella capacità di dominarlo a fini di libertà ed eguaglianza attraverso aggiustamenti in grado di superare agevolmente i maggiori conflitti della nostra epoca. l nomi di Krusciov e John Kennedy bastano a evocare quell'atmosfera. Prendeva forma quell'era che altrove ho denominato come quella dell'``ottimismo tecnocratico del benessere''.

ln Italia rispondeva a tale filosofia l'ipotesi di centro-sinistra, secondo il suo migliore significato, o almeno secondo l'interpretazione che ne davano alcune forze culturali e politiche progressiste.

La risposta politica prevalente a quella sfida fu l'inserimento dei socialisti nella maggioranza di governo con i democristiani. E prima ancora della formula di centro sinistra, il nuovo corso significò la conquista della maggior parte del pensiero laico e socialista a una visione secondo cui le riforme sarebbero andate avanti per la forza della loro intrinseca bontà che avrebbe finito per avere partita vinta passando attraverso il braccio di ferro dei partiti tra progressisti e conservatori. Quindi le riforme sarebbero scaturite dalla ``stanza dei bottoni'' (secondo l'espressione coniata da Nenni) e si riponeva fiducia nella politica gestita esclusivamente dai politici e dai tecnici.

Quella degli anni sessanta fu perciò la "stagione della integrazione e del consenso". ll Partito Socialista, che aveva percorso dal 1956 all'inizio del nuovo decennio un itinerario di autonomia riguadagnando nel paese insediamento e credibilità, divenne progressivamente il partito caratterizzato dalla gestione del potere locale e settoriale, pur se di quel potere poteva amministrare solo una parte marginale. Da partito insediato prevalentemente tra i lavoratori nella società, il PSI divenne il partito degli assessori e di quelli che aspiravano a divenirlo. Dietro la trasformazione del PSI in partito gestionario ci fu più in generale la conversione alla cultura del consenso di strati significativi delle forze trainanti politiche e culturali del l'area modernizzante del paese.

Anche quel mondo laico che negli anni cinquanta, se pure da posizioni spesso moderate, era stato fortemente impregnato di spirito critico fuori dall'area del potere e della sua gestione, si convertì in gran parte all'illusione di una trasformazione del paese aderendo all'area del consenso creato prima e durante la formula di centro-sinistra. Si veda il declino de ``ll Mondo'' di Pannunzio dal 1960 alla chiusura definitiva del 1966, e le vicende di collaborazione tra forze politiche gestionarie e le forze tecniche e culturali pronte a prestare la propria scienza e le proprie conoscenze al nuovo corso messo in atto dalla collaborazione tra cattolici, laici e socialisti.

4. Negli anni sessanta, dunque, il dilemma di fronte alla sinistra era stato quello di essere integrata nell'area del consenso e della gestione degli equilibri di potere esistenti, oppure di rimanere confinata in una gestione immobilista dell'opposizione: un dilemma risolto nella prima direzione dal PSI e nella seconda dal PCI. Negli anni settanta, invece, dopo la rottura rappresentata dal '68, intendendo con ciò il più generale movimento e movimenti che presero l'avvio da quell'anno, la nuova sfida per la sinistra era quella di dare una soluzione nuova al rapporto tra società civile e sistema politico, una volta che quella aveva subito profonde trasformazioni e questo si mostrava immutato e rigido. Era la stessa situazione socio-economica e culturale nel senso più largo a porre i grandi interrogativi del momento: quali le forme attraverso cui le domande e i bisogni nuovi divengono politica? come si fa e si deve fare la politica? quali sono le forme politico organizzative rispondenti alla nuova situazione di

mobilitazione della società? quali i progetti politici capaci di offrire una risposta ai movimenti reali e potenziali emergenti?

Procedendo per grandi linee non è azzardato oggi affermare che nel periodo più vicino a noi alla ricchezza dei movimenti sociali corrispose generalmente la povertà di immaginazione (o le rigidità teoriche) delle forze della sinistra tradizionale. Queste, sia nella componente socialista che in quella comunista, hanno trasformato il proprio modo di essere assai marginalmente: il PCI, sovrapponendo la propria capacità e forza gestionaria alle spinte che pure gli derivavano dal suo insediamento sociale, e presentandosi sempre più come grande forza ordinatrice che sovrappone le proprie strategie alle tensioni ed ai conflitti piuttosto che farsene carico trasformando le spinte in forza politica; il PSI, per il suo stesso modo strutturale di essere, - quello cioè che era diventato con la lunga consuetudine con il sottopotere su cui si era andato plasmando con il centro-sinistra -, dimostrandosi inadeguato a farsi partito collettore delle domande della società civile.

Al risveglio della società civile, prodotto, al tempo stesso, dello sviluppo economico prima e della successiva crisi poi che mostrava i limiti nella possibilità di risposta alle crescenti aspettative, ha fatto riscontro l'impermeabilità del sistema politico che è andato progressivamente irrigidendosi con un gioco tutto fon dato sul negoziato basato sul gioco di muscoli tra i partiti e le loro dirigenze.

Un siffatto distacco dalla realtà si è fatto più sensibile dopo il 20 giugno 1976, quando, allo sbocco elettorale a sinistra che si era prodotto tra il referendum del 1974 e le elezioni politiche del 1976, non corrispondeva alcun effettivo mutamento nei modi di gestione del paese, nei contenuti dell'azione della maggioranza parlamentare e governativa, questa volta contenente e anzi diretta in gran parte dalle stesse forze della sinistra con in primissima linea il Partito Comunista.

La nascita dei gruppi di nuova sinistra d'orientamento marxista nello stesso periodo dal 1969 al 1974 era, a sua volta, il risultato anche di questa rigidità del sistema politico e delle forze rifacentisi alla classe operaia nell'ambito della tradizione marxista. l vari tentativi che hanno tenuto la scena politica all'estrema o nuova sinistra cosiddetta rivoluzionaria e non-revisionista negli ultimi dieci anni tendevano tutti a fare in qualche modo concorrenza al PCI e al PSI sullo stesso terreno politico-ideologico con l'illusione di potersi a loro sostituire.

Ma tutti i tentativi di costruzione di nuovi partiti effettuati in questi anni sono falliti e comunque si sono dimostrati ben al di sotto delle aspettative. Procedendo per generalizzazioni, consentitemi di dire che i progetti politici che stavano al centro delle proposte di partito della nuova sinistra marxista si sono modellati sul PCI o su come era stato o su come avrebbe dovuto essere, e si basavano tutti - pur con le diverse accentuazioni - su alcuni punti qualificanti. "Primo", la riaffermazione della centralità operaia pur partendo da una propria base sociale che poco aveva a che fare con un insediamento operaio. "Secondo", un'analisi che faceva perno sulle aspettative di una crisi definitiva e imminente della società capitalista, e quindi: "Terzo", l'illusione di una possibilità rivoluzionaria a breve termine che avrebbe contrapposto riformisti a rivoluzionari e avrebbe inevitabilmente giocato a favore di questi ultimi. "Quarto", la conseguente necessità di dare forma a un partito su modello avanguard

istico (con le consuete variazioni di avanguardia interna ed esterna) che si rifaceva alla tradizione leninista propria della situazione di crisi rivoluzionaria, in quanto risposta adeguata, in termini di forma politica, pure se coniugata in alcuni casi con l'immissione di elementi ideologici facenti riferimento di volta in volta alla tematica consiliare o a quella più spontaneista che allargava il ruolo di avanguardia dalla classe operaia ad altri ceti prodotti dall'emarginazione.

Con lo scioglimento organizzativo di Lotta Continua e la sua trasformazione in un'area che intende rappresentare tutte le posizioni e le contraddizioni di un generale movimento sociale di opposizione e di alternatività, e con il tramonto abbastanza definitivo di tutti gli altri gruppi, o almeno delle speranze competitive e sostitutive nei confronti del PCI (pur se resterà in piedi un'area elettorale marginale), mi pare che non sia scorretto affermare oggi che un decennio disposte della nuova sinistra marxista si sia chiuso con il logoramento e la sconfitta, per quel che riguarda la forma partitico-politica (ma non allo stesso modo, per la carica di contenuti e richieste politiche attraverso di essa manifestatisi), di tutto il complesso di tentativi, esplorazioni e esperienze, rivisitazioni ideologiche e teoriche che esso ha comportato.

5. Esaminiamo ora in questo quadro come e perché prende forma la ``questione radicale''. La risposta radicale ha cominciato a marcare la sua diversità e singolarità proprio nella prima metà degli anni sessanta. Di fronte all'accentuato integrazionismo di quel mondo laico e socialista, da cui pure il piccolo gruppo dei nuovi radicali proveniva, i radicali, intesi qui proprio nel senso politico e non strutturale di partito, hanno contrapposto la critica e la resistenza attiva alle tendenze autoritarie allora non ancora ben visibili dovute alla crescita degli strumenti tecnici e razionali di intervento, di manipolazione sociale e di integrazione nella presunta società del benessere. La risposta dei nuovi radicali si configurò allora come una ridefinizione politica di ciò che dovesse significare in quel nuovo contesto "fare" davvero (oltre che "essere") i liberali, di come cioè dovevano essere individuate forze e strutture di libertà contro quelle di non-libertà, a quali conflitti emergenti occorreva dare rispos

ta politica, quali soggetti potevano, per le loro condizioni materiali, assolvere un ruolo di rinnovamento e quali strutture di potere dovevano essere individuate come pericoli per la democrazia e quindi essere combattute. Intorno a ciò i nuovi radicali si posero già da allora come ``partito'', intendendo con ciò non già le strutture materiali di una forza organizzata ma l'ipotesi ben individuata di un progetto politico.

Era ``partito'' quello radicale degli anni sessanta perché si faceva portatore di una "cultura politica" eccentrica rispetto a quelle maggioritarie nella sinistra detta allora ``democratica'' e nel mondo laico rifiutando di quest'area politica la globalità di impostazioni coniugate alla rassegnazione su temi e battaglie specifiche proprie dei gruppi di opinione; perché proponeva "strumenti di azione" non riconosciuti come legittimi nel sistema politico italiano, facendo ricorso all'azione diretta e all'appello all'intervento diretto in politica di soggetti sociali al di fuori dei canali partitici; perché aveva un'"ipotesi strategica" che rifiutava del "centro-sinistra" sia l'alleanza politica con la DC ritenuta fin da allora una contraddizione in termini del disegno riformatore, sia lo spirito generale che partiva dal presupposto di una società pacificata nel benessere materiale; perché, insieme all'azione esterna ai partiti, cercava di attivare una concezione laica della politica che passasse attraverso l'"

individuazione di singoli temi" sui quali creare a posteriori schieramenti unitari di lotta contrapponendo al frontismo tattico dell'unità senza distinzioni o al dottrinismo degli steccati ideologici un empirismo che poteva apparire attivistico ma si basava su specifiche tensioni; infine perché riteneva che la tematica dei "contenuti laici" avesse la forza di uscire dai convegni di studio per divenire momento di mobilitazione popolare (cosa che fu positivamente verificata dalla campagna per il divorzio) e fattore attivante di più generali conflitti politici in una situazione di accorpamento e di corporativizzazione come quella italiana.

ll ``partito'' dunque che attraversò in solitudine e isolamento il decennio dal 1962 al 1972 fu tutto ``parte politica'' e per nulla partito strutturale. l suoi animatori coincidevano con i dirigenti, i militanti con gli intellettuali in quanto propositori di analisi e inventori di proposte politiche, e tutti insieme costituivano una particella di ceto politico giacché l'origine dei nuovi radicali è quella che si è soliti definire ``creazione interna'', cioè non derivata da un movimento sociale preesistente. La parte, anzi la piccolissima parte radicale di quel decennio si configura, per ciò che riguarda i suoi rapporti interni, usando la terminologia del Duverger, un po' ``società'' ("Gesellschaft") e un po' ``ordine'' ("Bund"): coniuga cioè le caratteristiche del raggruppamento volontario che si ritrova per un contratto tra i suoi membri sulla base dell'interesse politico con l'adesione basata sull'impegno che implica elementi di dovere più quelli di vocazione, di sacrificio più rinuncia, e di intensità, p

rofondità e trascendenza come fondamento di una tensione interna che si contrappone al ``freddo'' esterno. Nella risposta radicale degli anni sessanta erano così in primissimo piano, anzi forse come unici elementi esistenti, il soggettivismo politico e il volontarismo che tentavano di anticipare conflitti e movimenti della società e i modi in cui tali conflitti e movimenti potevano divenire politici.

6. L'elemento di continuità tra l'azione radicale negli anni sessanta e quella negli anni settanta sta nel fatto che nel periodo più lontano come in quello più vicino la parte radicale si è posta come campo di azione quello esterno al potere statale, al controllo del suo apparato o la pretesa di conquista, per dirla con una formula già usata, l'estraneità ai problemi di gestione senza neppure tentare di minarli come hanno fatto altri gruppi di minoranza.

Anche negli anni settanta la scelta peculiare radicale è stata sì quella di agire nella società politica e non sul terreno sociale ma senza mirare a identificare questa con lo Stato e con i problemi connessi con la sua sempre maggiore espansione e quindi del suo controllo. In questo senso il Partito Radicale resta ancora, anche nei momenti di maggiore riuscita, "partito del dissenso e non del consenso, del controllo e non della gestione, dell'opposizione e dell'iniziativa esterna" per introdurre nuove azioni attraverso il sistema politico e non appendice e proiezione del sistema partitico nella società. ln ciò la continuità della risposta radicale nei due diversi decenni pur con capacità edinfluenze così qualitativamente diverse.

Quello che fa diverso il nuovo periodo dal vecchio, dopo la ottura antropologica del '68 (che non investe direttamente i radicali ma muta le condizioni generali in cui si situa il loro operare), è il potenziale della società civile, i processi e i conflitti in essa presenti e la reattività alle iniziative che le parti politiche sono in grado di predisporre e organizzare. La sinistra tradizionale, comunisti e socialisti, si mostra per lo più impermeabile a questa nuova situazione o incapace di trasformarsi adeguatamente. La nuova sinistra marxista dà risposte, come abbiamo già rilevato, di natura per lo più dottrinaria o movimentista e non molto diverse da quelle proprie della tradizione terzointernazionalista. l radicali spingono ulteriormente e possono realizzare, grazie alle nuove condizioni, quel rapporto tra domanda diffusa e suo sbocco politico, che avevano teoricamente postulato fin dall'inizio del nuovo corso nella prima metà del '60. Non mi soffermerò qui sulle forme di azione politica messe in atto

in questo periodo perché altri se ne occuperanno. Basta evocare che accanto a una attività per così dire tradizionale, conforme cioè alle regole della democrazia rappresentativa, sono stati messi in atto con sempre maggiore forza azioni dirette non violente (digiuni, marce di protesta, autodenunce, etc.) e, quale culmine di questo metodo extra parlamentare ma democratico-istituzionale, i referendum. Come ha scritto Angelo Panebianco nel volume "I nuovi radicali", ``l'eterogeneità degli strumenti di lotta politica adottati è il pendant della mescolanza fra democrazia diretta e democrazia indiretta, fra spontaneismo e delega politica. Tra queste diverse categorie di azione politica, l'organizzazione dei referendum abrogativi e le azioni dirette sono i più tipici dell'attività radicale. Entrambe si adattano, sono omogenei rispetto a un partito che non aggrega permanentemente la domanda né contratta con le altre formazioni politiche''.

E' dunque caratteristica della singolarità della risposta radicale degli anni settanta l'aver reagito al fallimento della politica riformista intrapresa dalla componente socialista della sinistra nel decennio precedente, l'aver tentato di forzare il blocco del sistema politico e la crisi della mediazione istituzionale attraverso la messa in atto di un partito promotore di lotte e canalizzatore della domanda sociale verso trasformazioni istituzionalizzate ma puntuali.

Ciò che fa diverso il fenomeno radicale, cioè il suo stesso esser ``partito'' nel senso più profondo e meno funzionale del termine, sono ancora i contenuti e i metodi politici. Alla quasi unanimemente accettata centralità operaia della nuova sinistra marxista si contrappone la centralità dei diritti civili. Alla generale preoccupazione della costruzione del ``partito'' come forma politico organizzativa di avanguardia, fa riscontro il tentativo di far vivere il partito immerso e diffuso nelle iniziative politiche nella società e quindi a partire da queste il passaggio alle proposte di mutamento istituzionale.

Ma ciò che ha caratterizzato e caratterizza il rapporto radicale con i movi menti nella società civile è il fatto che il partito (cioè quella parte di società politica che agisce come parte radicale) non si presenta come esterna ai movimenti e tenta di porre su di essi la propria ipoteca egemonizzandoli, né accetta una impostazione movimentista, ma è esso stesso fattore attivante un determinato conflitto e quindi organizzatore del movimento. Scrive Alberto Melucci che, ``un "movimento politico" esprime un conflitto attraverso la rottura dei confini del sistema politico. Lotta per l'allargamento della partecipazione politica e si batte contro la prevalenza degli interessi dominanti all'interno di sistemi di rappresentanza'' . Ecco, se dobbiamo mettere a fuoco la ``questione del partito'' in rapporto al PR si può individuare proprio in questo fattore della rottura dei confini del sistema politico e dei limiti di compatibilità a esso assegnati dal reciproco equilibrio delle forze costituenti, il punto cuciale d

ell'essere ``partito'' dei radicali. ln questi anni non è un caso che la definizione di partiti dell'arco costituzionale abbia escluso proprio i radicali che certamente della difesa e della realizzazione della Costituzione hanno fatto un punto centrale, giacché si è chiamato arco costituzionale ciò che era il sistema politico e si è identificato e delimitato quest'ultimo con quelle forze che consensualmente e reciprocamente ne hanno stabilito alcune frontiere compatibili con le proprie strategie e contenuti.

7. Da quanto siamo andati dicendo è evidente la identificazione della questione del partito con la sua essenza politica, sicché il Partito Radicale risulta connotato nel sistema politico e nella società da due elementi, presentandosi in qualche modo come "partito bifronte". Un volto è quello che riguarda il "partito delle riforme" nel campo dei diritti civili, quindi di partito ``ultracostituzionale'' in grado di agire nelle contraddizioni dei meccanismi istituzionali e di essere in questo senso minoranza a vocazione maggioritaria che governa anche dall'opposizione. L'altro volto è quello di un "partito che rappresenta in se stesso il segno di una forma di società diversa", essendo portatore di valori e di metodi, in definitiva con il suo stesso modo di essere e di vivere, alternativi in senso profondo a quelli incarnati ed espressi dalla cultura politica maggioritaria nel nostro paese.

8. Al primo volto del partito appartiene tutta l'azione basata sulla concretezza delle proposte di riforma, sempre racchiuse in una dimensione di limitatezza e di puntualità, che sono tuttavia apparse di volta in volta come dirompenti in quanto frutto non di mediazione con le altre forze politiche in subordine a equilibri o quadri politici più generali. Alla ``ragione politica'' intesa come un feticcio sul cui altare sacrificare l'urgenza di specifiche riforme, il "partito radicale delle riforme" ha contrapposto il valore, l'urgenza e la necessità delle riforme in sé. Un paese come il nostro che è abituato a vivere nell'immobilismo, sia durante gli equilibri del centro sinistra preteso riformatore sia nella attuale fase di democrazia consociativa in cui lo ``stare insieme'' è assunto come valore assoluto indipendentemente dai contenuti, l'azione spinta all'estremo per una riforma è potuta apparire addirittura paranoica mentre si configurava e si configura come una pura realizzazione di un'azione riformatrice

secondo le regole della democrazia politica. Solo che queste regole sono assunte nel loro valore e meccanismo originario e non già secondo l'uso che ne hanno fatto i maggiori partiti italiani derivante da una pratica consolidata in questi decenni.

I radicali, sotto questo aspetto, si sono configurati come il ``partito'' che dà sbocco politico a quelle istanze che sorgono o che sono attivate, per ragioni ideali e politiche nella società civile, ritenendo necessario tradurre in norme, leggi e mutamenti istituzionali ciò che si manifesta sotto forma di domanda e di bisogni alla base del paese. Una tale capacità di interpretazione e traduzione avviene senza la pretesa di inquadrare in più complessi equilibri di alleanze e di occupare sezioni della società. Ha preso perciò corpo un partito che opera in pieno nella società politica ma al tempo stesso non si fa portatore dall'alto verso il basso degli interessi del sistema politico per ciò che riguarda la ricerca del consenso sociale.

In questo senso la differenza sostanziale con le forze di nuova sinistra marxista sta proprio nella fiducia non strumentale nella trasformazione dello Stato attraverso le procedure della democrazia. Mentre la lontananza dalla sinistra storica, oltre che a profonde ragioni di contenuto con il PCI, sta nella non mediazione delle spinte riformatrici con la loro subordinazione alla logica della conquista del potere, intendendo con questo anche la lotta per maggiori spazi all'interno del sistema politico. Un interrogativo che a questo Partito Radicale delle riforme può essere rivolto è se la caratteristica di non mediazione che lo contraddistingue può essere propria solo di una minoranza intensa di opposizione e di contestazione, venendo a cadere nel momento in cui si acquistano diverse responsabilità; oppure se è possibile che la unificazione politica come funzione propria del partito possa lasciare ampi spazi ad aree di domande che vanno assunte in quanto tali nella società politica senza la loro riduzione a un

ità.

9. L'altro volto del partito bifronte è quello del "nuovo radicalismo come forma non ancora politica di una società diversa". Certamente una parte di coloro che hanno guardato con simpatia ai radicali o hanno aderito a una delle tante forme di presenza nel paese hanno recepito - coscientemente o più spesso attraverso processi non deliberatamente maturati in tutti i loro passaggi - la carica di diversità, di ``alterità'' insita nelle proposte radicali. Un certo tipo di cultura nonviolenta; un'attitudine di lontananza dalla politica dei politici: una diffidenza istintiva verso i valori di quello sviluppo che è portatore di degradazione e di crisi; la tematica propria di chi sente la necessità di stabilire un rapporto diverso tra individuo e natura e tra individuo e storia che non passa attraverso i grandi aggregati burocratici; la rivendicazione della libertà sessuale; la diffidenza verso i grandi sistemi ideologici totalizzanti; la contestazione in blocco dei caratteri della tecnodemocrazia insita nello Stato

e nei partiti; un'aspirazione libertaria alla vita che viene assai prima delle questioni relative all'organizzazione politica libertaria; sono tutti fattori che stanno alla base di quel "partito alternativo", in un certo senso pre-politico e post-politico che l'immagine dei nuovi radicali ha suscitato nel paese.

E' stato forse quell'originale intellettuale cattolico che è Giovanni Baget-Bozzo a mettere a fuoco, pur con la sua scala di valori che non è la nostra, meglio di altri questa dimensione. Uso qui la sua interpretazione, come è espressa in un intervento su ``Argomenti Radicali'', perché mi pare quella che più direttamente pone la questione. La società radicale - secondo Baget Bozzo - sarebbe il carattere profondo della società consumista di cui violenze e barbarie sono ormai intrinseche e il nuovo radicalismo da un lato ne sarebbe espressione, mentre dall'altro costituirebbe un tentativo di superarne i lati negativi. ``Se comprendiamo bene le intenzioni del radicalismo politico - scrive l'intellettuale cattolico - esse sono rivolte verso il tentativo di sbarbarizzare il radicalismo latente nella società e di socializzare, in qualche modo l'individuo emergente. ll PR non è dunque un partito ma una forma partitica di una società diversa ormai da quella che ha espresso come sua forma politica i partiti ideologic

i (quelli il cui vertice è il partito leninista)'' (``Argomenti Radicali'', n. 1, aprile maggio 1977).

A me pare che il rapporto radicale con il femminismo e il movimento femminile, con l'ecologismo e i movimenti ecologici e antinucleari, con la questione omosessuale e il relativo movimento, con l'antimilitarismo e i gruppi pacifisti, e con altri importanti movimenti del nostro tempo sia stato e sia improntato a questo carattere di partito anticipatore di una società diversa prima ancora nei valori che non nelle forme organizzative.

Certo, per tanti versi, proprio la capacità di "essere partito delle riforme" ha dato evidenza e concretezza al rapporto con questi movimenti, ma il legame vero con essi come con tutto quello che di cultura o di modo di vivere alternativo intorno a essi si è concretato, deriva sostanzialmente da una consonanza stabilitasi a livelli più profondi attinenti specificamente all'aver introdotto in politica quello che generalmente era ritenuto non politico e ad aver assegnato a ciò un posto preminente nella propria immagine e realtà.

La mediazione tra questo singolare ``partito alternativo'' e queste forme profonde di trasformazione culturale del mondo d'oggi portate dai movimenti, che è stata da altri assegnata al momento ideologico e conseguentemente a un momento organizzativo, passa invece nel caso radicale attraverso il proprio modo di essere, il linguaggio, la gestualità e altri tipi di comunicazione culturalmente non esplicitata e articolata.

Ciò che in quest'ultimo anno tenta di essere Lotta Continua ponendosi con il giornale come rappresentazione di contraddizioni, bisogni e modi d'essere del movimento, probabilmente i radicali lo hanno già in altro modo realizzato attraverso uno dei due volti del partito di cui parlavo, pur se l'immagine che lega questo ``partito altro'' con i fenomeni sopra ricordati è assai più selettiva e assai più orientata per ragioni di attenzione storica e di configurazione politico-ideale.

E la riuscita, non so quanto limitata, di tale rapporto politica/non-politica, pur nei limiti quantitativi e qualitativi che la situazione oggettivamente presenta, è probabilmente dovuto al raggiungimento, quando lo si è raggiunto, di un punto di equilibrio tra i due poli. Da un lato quello di non aver voluto racchiudere tali movimenti in formule organizzative e in legami politici tali che in qualche misura configurassero una posizione egemonica e imperialista del momento partitico sul movimento; e dall'altro non aver sostenuto e affermato che il movimento doveva restare puro fenomeno sociale e culturale ma doveva porsi anche problemi di sbocco politico parziale per mezzo di specifiche battaglie di libertà.

Questo secondo volto del partito bifronte, di natura diversa e complementare al primo che si basa sull'urgenza delle specifiche riforme, pone l'accento sui valori concretamente vissuti e non solo enunciati e quindi sul carattere premonitore di un ordine diverso.

Anche il partito dell'ordine alternativo, tuttavia, come quello delle riforme, ha alla base come tratto distintivo e costituente quello della non integrazione e del dissenso, in questo caso avvertiti nel senso più profondo rispetto all'ordine esistente.

10. Sia il ``partito delle riforme'' che il ``partito dell'ordine alternativo'' trovano il loro momento di unità nel fatto di presentarsi come "forma organizzata dell'autonomia". Si tratta di autonomia dallo Stato ma non estraneità da esso. Si tratta di autonomia dai grandi sistemi burocratici che ormai dominano la nostra vita in ogni aspetto economico, sociale, politico e anche personale, ma non si configura come estraneazione dalle fondamentali questioni di organizzazione collettiva che dominano il nostro tempo. Si tratta di autonomia come critica della politica intesa come critica dei contenuti e delle forme di questo sistema politico ma non sfiducia nella politica.

La politica ha ormai invaso in Italia più che altrove ogni area della vita e della società, divenendo specialmente nel nostro paese non già strumento di liberazione, ma assai spesso una forma di dominio da parte di nuove oligarchie. La polemica antipolitica, che tradizionalmente ha assunto anche gli aspetti di un qualunquismo di ritirata nel privato e nel particolare, è forse oggi, o può essere, una forma di contestazione dell'invadenza e dell'occupazione dei partiti sulla società. Lo stesso concetto di "unità" così abusato è forse divenuto anch'esso per come storicamente viene praticato dalla grandi organizzazioni di massa, e in primo luogo dal PCI, uno strumento della strategia di irregimentazione del consenso di un ordine politico che scende dall'alto verso il basso.

A me pare che di fronte a questa situazione che si è venuta accentuando nell'ultima stagione, e in particolare dopo il 20 giugno 1976, quella caratteristica di autonomia propria dei radicali come parte politica debba essere portata in superficie e debba sempre più essere resa fattore consapevole dell'essenza della nostra questione del partito. Non c'è dubbio che la parte o Partito Radicale appartengano alla società politica e di questa ne adoperano forme e strutture: ma è altrettanto vero che di questa società politica dilatano i limiti e rompono gli equilibri e le compatibilità che ne fanno un aspetto del regime.

Sarebbe illusorio e velleitario che alla dittatura dei partiti e alla caduta di quelle speranze di un rinnovamento che passa attraverso lo spostamento dei rapporti di forza anche elettorali sopravvenuta negli ultimi due anni, facesse riscontro proprio nel Partito Radicale un suo spostamento o riduzione sull'area di un generico movimento di opposizione, trasfigurando quello che rappresenta il patrimonio storico fondante del nostro essere partito.

Si tratta invece oggi di altro. Della necessità di mettere in evidenza quel tipo di azione che contraddistingue la possibilità di essere a pieno titolo parte della società politica senza identificarsi con lo Stato, con il potere, con la gestione. E' vero che i margini per una tale posizione che non si limiti a restare tale ma divenga possibilità di azione, sono sempre più stretti a causa delle tendenze insite non solo nelle volontà soggettive dei partiti ma nello stesso carattere della democrazia nei paesi ad alto sviluppo industriale e burocratico, giacché sia la natura dello sviluppo che le ideologie che presiedono alle maggiori forze politiche conducono allo "Stato dei partiti" ed al "partito-Stato". Ma è questa la nuova sfida che abbiamo di fronte.

La pluralità delle spinte sociali e la loro difficile aggregazione e unificazione - che è il tratto dominante delle società sviluppate contemporanee - porta con sé la risposta intrinsecamente autoritaria da parte di un ceto politico che intende esercitare la più facile delle mediazioni, quella repressiva. Questo tipo di mediazione che identifica politica e Stato e che concepisce il pluralismo come possibilità di coesistenza nel le forme ``legittime'' all'interno di un dato sistema istituzionale è quello che schiaccia la società civile. Oppure è una mediazione politica che riduce la confusa pluralità di tensioni e di domande oggi coesistenti a marginalità e devianza, condizioni a cui vengono confinati il dissenso politico o la non integrazione economica e sociale in regimi che si fanno autoritari.

Mi pare che oggi la riaffermazione del ruolo peculiare dei radicali in quanto ``partito'' e la nostra stessa possibilità di assolvere una funzione non stancamente abitudinaria siano affidate al rifiuto di due pericoli presenti e immanenti. L'uno è quello di farci rigettare in una contestazione puramente sociale in un non ben precisato movimento che è stato poi il limite e la debolezza di molta parte delle forze di nuova sinistra, dottrinarie e teoriche nelle enunciazioni e movimentiste nella pratica. L'altro è il ritenere che non possa esistere altra mediazione e sbocco politico che non sia quello della sinistra storica e del partito tradizionale che sappiamo in realtà non essere tanto uno sbocco politico del movimento alternativo e riformatore ma solo un allargamento ulteriore della presenza dello Stato Leviatano e della società politica in cerca di consenso per le sue scelte.

Si illude Craxi quando crede di poter dare corpo e voce politica a nuovi movimenti e alle lotte per i diritti civili con questo PSI che è intimamente e strutturalmente parte, per le cose che fa e non per quelle che dice, di quella democrazia consociata che pure gli intellettuali socialisti denunciano a ogni piè sospinto; un PSI che proprio per le sue connessioni partito-Stato è in profonda e radicale contraddizione con la domanda di autonomia dai partiti e dallo Stato che è connaturata con gli stessi nuovi movimenti e con i diritti civili. In questo senso il suo proposito di fare propria la politica radicale è improbabile che possa avere un seguito, cosa che pure sarebbe auspicabile perché significherebbe allora che lo stesso PSI si è profondamente trasformato.

11. Per tornare da dove siamo partiti, la questione del ``partito'' rimane ancora una volta oggi, per i radicali, una questione che nasce dall'interno delle scelte politiche come lo è stato per il passato. "Non ci sono strade organizzative o, per converso, non ci sono strade non-organizzative o disorganizzative che possano di per sé dare una risposta e una soluzione politica soddisfacente. Anche i modelli di partito, in un'entità così labile come quella radicale, sono di per sé poca cosa". Certo è che se è vero, come abbiamo cercato di dimostrare, che la questione principale oggi sul tappeto è di non essere catturati dall'ipotesi ormai ben logorata - e che del resto non ci è mai stata propria - del partito-avanguardia e, al tempo stesso, di tenersi fuori dal partito-insediamento che è connesso strettamente con i problemi di gestione, la questione del che fare rispetto alla formapartito e alla struttura-partito si risolve contestualmente con le scelte politiche.

Si pone un dilemma connesso con la stessa storia radicale e che oggi più che mai assume un carattere drammatico. Le difficoltà, gli ostacoli e le repressione posti dal regime consensuale e dai suoi lineamenti autoritari a una forza minoritaria del dissenso e di opposizione come quella radicale potrebbero spingere inevitabilmente ad accentuare i caratteri di ``resistenza'' che possono portare con sé ai modi propri del piccolo gruppo compatto, fortemente motivato e armato di soggettivismo e di volontarismo, con una tensione interna necessaria a far fronte all'assalto esterno privilegiata rispetto alla capacità di espansione esterna. Sarebbe questo un processo che, pur rifiutando ogni logica avanguardistica in termini teorici, finirebbe inevitabilmente per ripercorrerne alcune modalità in termini pratici.

Del resto un ceto politico come quello radicale, consapevole di non essere come partito il prodotto esterno di un movimento a esso preesistente e consapevole anche di avere il suo punto di singolarità e di specificità nel fatto di poter rappresentare proprio un segmento di società politica che si pone autonomamente rispetto allo Stato, trae la sua forza dal saper essere, quando lo sa essere, "partito dei cittadini" intorno ad alcune proposte politiche ritenute qualificanti. E partito dei cittadini vuol dire senza dubbio passare dalla pura politica alla forma materiale di organizzazione di quello strumento che è in grado di rendere operante nella società e non velleitaria quella politica.

Le ragioni della resistenza con l'intensità la drammaticità e la compattezza possono essere contraddittorie con le ragioni dell'allargamento e della organizzazione tra i cittadini del dissenso e dell'opposizione. Le prime sembrerebbero conseguenti a una situazione che si giudica inevitabilmente e definitivamente compromessa per ciò che riguarda l'agibilità degli strumenti della democrazia politica. Le seconde sembrerebbero necessarie e conseguenti a una forza che ambisce rappresentare nella politica quella sezione della società che esprime domande conflittuali non assorbite dal consenso e che, per il suo carattere non ristretto e non marginale, è in grado di esercitare un'azione per la trasformazione.

In questo "dilemma tutto politico" è oggi la questione del partito per i nuovi ma ormai antichi radicali.

 
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