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Ciafaloni Francesco - 7 aprile 1978
L'ANTAGONISTA RADICALE: (4) Nuova sinistra, il partito e lo Stato
di Francesco Ciafaloni

SOMMARIO: Gli atti del convegno sullo statuto e sull'esperienza del Parito radicale che si è svolto a Roma all'Hotel Parco dei Principi nei giorni 5, 6 e 7 aprile 1978.

("L'ANTAGONISTA RADICALE" - La teoria e la prassi del partito nuovo, socialista e libertario; e lo statuto e l'esperienza del PR nella società e nelle istituzioni - Convegno del consiglio federativo del Partito Radicale - Roma, aprile 1978)

Francesco Ciafaloni

NUOVA SINISTRA, IL PARTITO E LO STATO *

Vorrei fare qualche riflessione e porre qualche problema su temi che non sono esattamente coincidenti con quelli delle relazioni ma che, secondo me, vi interagiscono fortemente. La riflessione che cercherò di fare riguarderà non solo lo Stato legislatore, giudice e ministro, che è quello di cui si occupa di più il Partito Radicale, ma anche lo Stato banchiere, industriale, sindacalista, medico e tutte le altre cose che questo Stato fa; dato che può essere dubbio se questo Stato si stia svuotando della Costituzione come ha scritto Leonardo Sciascia, il che forse però è anche vero, ma di sicuro questo Stato non è stato mai contenuto nella Costituzione, nel senso che i compiti, le funzioni che svolge sono di fatto, sia pure in forme istituzionali parzialmente diverse - diverse appunto per la Costituzione - quelle di uno stato corporativo. Come del resto accade a molti stati dopo quella che è stata chiamata la grande trasformazione degli anni '30.

Condivido molte o tutte le valutazioni delle due relazioni e in particolare trovo pienamente giustificata anche la soddisfazione per le lotte sostenute e gli obiettivi raggiunti; tuttavia i problemi che tenderò a porre sono problemi aperti, cioè in corso, o sconfitte che ci sono state, non so di chi la colpa. In che senso la nuova sinistra (termine che io vorrei allargare non solo ai gruppi strettamente di nuova sinistra, Lotta Continua, Avanguardia Operaia e via predicando o al ``movimento'', ma anche a un'ala di sinistra. sindacale, per esempio, che è stata più vicina al movimento e che entra in questo tipo di problema), in che senso la nuova sinistra si è posto il problema del partito e ha affrontato anche problemi che hanno a che fare con lo Stato? Io direi più "di fatto" che altro. Certo di partito se ne è occupata perché la sinistra, questa nuova sinistra, ha fondato un certo numero di partiti; però si è occupata dei problemi dello Stato non solo in quanto pensava di rovesciarlo, se ne è occupata "di

fatto" anche in quanto ha messo discussione tre cose che sono centrali nel funzionamento di questo Stato: cioè l'esistenza della politica come professione (cioè la classe politica in quanto tale), l'organizzazione del lavoro e la divisione del lavoro e la ripartizione del reddito tra i ceti.

Questa è una delle definizioni possibili di Stato, di Stato corporativo: lo Stato corporativo sarebbe quello Stato che decide e garantisce la divisione del reddito tra i ceti, che ingloba al suo interno tutte le forme di organizzazione che incidono sulla ripartizione del reddito. In questo senso negli anni '60 lo Stato italiano era solo "parzialmente" corporativo, cioè interveniva nella ripartizione del reddito in quanto fissava gli stipendi dei suoi dipendenti, stabiliva o contribuiva a stabilire le retribuzioni dei dipendenti delle aziende di stato, faceva da mediazione durante le trattative sindacali, aveva dei legami non proprio secondari con almeno qualche sindacato. Tendenzialmente, nella forma attuale, questa ripartizione del reddito tende a garantirla "intera", cioè tende a riassorbire dentro di sé l'intera struttura della ripartizione del reddito tra le classi. ln questo senso, quindi, i movimenti di nuova sinistra, che hanno rimesso in discussione la ripartizione del reddito tra i ceti oltre che tr

a le classi, si sono posti o hanno posto di fatto questo problema, mettendo in discussione tutte queste forme di divisione del lavoro e di ripartizione del reddito. Bisogna dire che purtroppo il modo in cui il problema è stato posto è stato ambiguo, come dire, nel modo stesso di porlo.

Probabilmente da questa ambiguità, oltre che dai rapporti di forza, dal come sono andate le cose, può essere discesa una parte della sconfitta, o della parziale sconfitta. Cioè: trovo che sia stata enormemente positiva la rottura iniziale nelle scuole, nelle fabbriche, dappertutto; in qualche modo questa ondata è stato il prodotto di un universo politico molto rigido, non adeguato alla società e agli apparati produttivi che si erano venuti formando negli anni '50 e '60 ed è stata una forza attiva di mutamento del costume, ma anche di fatti specificamente politici. Però quando si è trattato di passare a forme associative, in effetti, o a proposte, c'è stata una ambiguità di fondo di cui oggi, cioè in un momento di riflusso, si paga il prezzo.

L'ambiguità è stata in fin dei conti l'aver pescato, l'aver preso, diciamo, nell'ideologia italiana e della tradizione politica italiana; di dovere cioè un po' troppo a Giuseppe Stalin e a Giovanni Gentile, per cui forme di non delega, di assemblearismo, di azione diretta hanno spesso dato luogo, per il modo stesso della formulazione, a forme di "leadership" incontrollata. Perché, se la delega c'è controllabile; se la delega viene negata però di fatto la leadership c'è, la leadership è incontrollabile. Un esempio di questa ambiguità può essere tutto l'insieme di rivendicazioni e di azioni venuto da sinistra, dai consigli di fabbrica e dalla sinistra sindacale, che sono state tutte richieste - e anche in pratica più che richieste - di allargamento della sfera dell'azione politica del sindacato e della sfera di azione e di controllo dei sindacati più combattivi, senza nessuna ricerca di chiarezza nelle forme della legittimazione di queste azioni.

In fin dei conti il principio in nome del quale questo indiscriminato allargamento, che è stato allora del tutto positivo, è stato richiesto è stato quello di un rapporto di avanguardia: che è un rapporto di fatto. Un'avanguardia non è legittimata a comandare, è legittimata a proporre. Il guaio è che quando un'avanguardia si incrocia con un contesto istituzionale, cioè quando un'avanguardia non solo si trova ad avere i poteri di convinzione, diciamo così, che gli derivano dalla libertà di parlare e di avere un'azione e un'elaborazione coerente, ma si trova ad avere dei poteri istituzionali (di cui quello massimo è quando un'avanguardia si trovi ad avere una polizia ed un esercito, per esempio, ma anche soltanto quando un'avanguardia si trovi ad avere un mandato parlamentare o una carica sindacale, ad essere un funzionario con un potere definito, ecc.) questo porta un possibile rovesciamento del senso stesso della richiesta, qualora non si siano approntati i controlli e soprattutto la "cultura" necessaria a c

hiedere, prima che a garantire il controllo.

Faccio un esempio: attualmente è in corso di discussione, credo in tutte le Camere del Lavoro d'Italia, un testo di tesi in cui si propone la formazione di un sindacato territoriale. Verrebbero sciolte le categorie verticali, le Camere del Lavoro, che sono sedi provinciali, orizzontali del sindacato, e resterebbe una struttura verticale confederale e strutture aziendali di tipo consigliare. Ora questa è una proposta in cui molti, tra cui io, vedono la possibilità di una involuzione sindacale forte, molto maggiore di quella attuale e in particolare vedono la possibilità di un controllo delle categorie combattive, per esempio i metalmeccanici, da parte delle altre che numericamente sono di più e in particolare da parte della recentissima ondata di nuovi iscritti che è quasi tutta impiegatizia e non combattiva. Però, a suo tempo, questa richiesta fu una richiesta dei metalmeccanici, perché sembrava il modo per portare la lotta dal sociale nel politico, dalla fabbrica nella società. E siccome in quel momento sem

brava che ci fosse una leadership di fatto, la richiesta si spiega.

Lo stesso tipo di fenomeno si verifica in tutte le forme istituzionali in cui in qualche modo le organizzazioni sindacali o parasindacali si trovino ad avere una funzione non di controllo, ma direttiva. In casi del genere, tutta la gente uscita dal movimento, istintivamente, di fatto, sceglierà sempre la co-gestione, piuttosto che una gestione impersonale (o presunta tale) ed un controllo. A me è capitato di sentire, nell'azienda dove lavoro, una discussione sui vari progetti per amministrare le case popolari; in particolare l'oratore, che era del SUNIA, criticava un progetto che era di tipo appunto ``gestione presunta impersonale'', con controllo sindacale. Perché? Perché era del tipo ``giudice più controllo popolare'', mentre si preferiva l'emanazione diretta, il ``ma come, lo facciamo noi...'' Soltanto che quando il ``noi'' diventa istituzionale, questo noi non è più un "noi", è già un "loro", ci sarà un'``organizzazione'' che la fa.

Le avanguardie dei partiti della nuova sinistra dicono: ci mancherebbe altro che dovessimo rendere conto del chi legittima. Loro sono legittimati dall'idea, dal fine. Soltanto che questa è una cosa che va benissimo fintanto che c'è un movimento in atto, cioè un controllo di fatto, oppure una contrapposizione del sindacato allo Stato, perché in questo caso il controllo di fatto l'operaio lo esercita; perché, diciamo, il sindacalista può proporre delle piattaforme e può indire degli scioperi ma poi gli scioperi qualcuno li deve fare. Ci possono essere delle sfasature, cioè può capitare che il sindacato faccia, svolga male la sua funzione di guida oppure che faccia delle cose che la gente non vuole, che indichi delle lotte che la gente non vuole, ma non ci può essere una forma di repressione reale o un'andare all'incontrario.

Se invece si è in momenti di decisione, in trattativa, "istituzionali", senza passare attraverso gli scioperi, la situazione si ribalta totalmente, queste sono forme di potere incontrollato. Non solo incontrollato, ma per le quali non esiste nella cultura politica italiana la richiesta di un controllo: cioè non si tratta soltanto di un fatto pratico, si tratta proprio di elaborazione culturale a monte di questo. E queste cose possono crescere e diventare abbastanza gravi, perché si aggiungono a una situazione di oligopolio di fatto delle forze politiche maggiori, le quali tendono a mutare la Costituzione materiale italiana, non solo con forzature o violazioni esplicite, come questa storia di rappattumare i referendum alla bell'e meglio, ma anche proprio nel senso di diventare la gestione stabile, oltre che dello stato legislatore, ministro e giudice, anche e soprattutto di quello imprenditore, banchiere, medico e sindacalista; una parte non secondaria, anzi forse centrale dello Stato e anche della sua repres

sione. Forse anche la parte centrale della politica in questo momento.

Oltre quelli, che io chiamerei di resistenza, come cercare digitare il rappattumamento dei referendum, i problemi per me sono questi. Dal punto di vista del controllo del mercato del lavoro credo che non sia completamente fuori dal mondo pensare che esistano all'interno delle strutture stesse del sindacato delle forti tendenze democratiche, che si esprimono male, ma che ci sono. I nomi che vengono in mente sono i soliti, quelli che parlano anche, oltre che avere queste esigenze, la FIM di Milano, Manghi, Gianprimo Cella, tutti questi che ne parlano anche, di questa esigenza di democrazia, non nel senso di funzione democratica del sindacato nel suo complesso nella società, ma di democrazia interna nel sindacato: poiché, siccome si trova ad avere funzioni istituzionali, o è democratico al suo interno oppure di fatto diventa un elemento involutivo. Per la verità queste richieste di democrazia ci sono anche da altre parti, c'è lo spazio, diciamo, per quella che si potrebbe chiamare una battaglia culturale, cioè

da chiarire innanzitutto culturalmente. Senza cadere nel formalismo eccessivo, ci sono dei problemi che una volta per tutte vanno posti.

Per dire, lo statuto della CGIL è un bellissimo statuto, per la frase con cui comincia: la Confederazione Italiana del Lavoro difende il lavoro fino alla sua totale emancipazione. Però, per esempio, non ha dentro il concetto di minoranza: non c'è. Certo non nega che possa esistere, perché non si dice che non possa esistere, però qualora una volta si crei (per esempio si è creata a Torino in taluni sindacati di categoria), qualora si crei una minoranza vera, cioè della gente, quasi la metà, che vota una mozione contrapposta a quella della maggioranza, non si riesce a capire quali siano i diritti e i doveri di questa minoranza, perché questo statuto lo si può smontare trenta volte e non si trova.

Questi sono problemi che bisogna porre dunque anche culturalmente. Altre cose riguardano un problema che in questa sede non credo sia il caso di approfondire perché in qualche modo corrisponde a tutta la vostra pratica. Cioè il fatto che anche a sinistra, anche nella nuova sinistra, in fin dei conti si continua a riproporre un partito totalizzante o partiti totalizzanti, per cui anche i nuclei, embrioni, progetti subito si preoccupano di avere una rivista, una politica culturale, una politica sindacale.

Invece se c'è un modo di funzionare in questo momento è proprio che i poli culturali non coincidano con quelli esplicitamente politici, cosicché non ci sia questa pretesa dei partiti istituzionali d'essere di fatto il fondamento dello Stato. C'era scritto sul ``taglio'' della prima pagina dell'"Unità", due giorni fa, che lo Stato si fonda sui partiti. E' una cosa che ho letto con i capelli ritti. Più si riduce alle funzioni strettamente istituzionali il campo di azione di queste forze e più il meccanismo politico è flessibile e funziona. Purtroppo al momento invece è proprio bloccato.

Le ultime osservazioni che volevo fare erano un po' queste: bisognerebbe chiarire a noi stessi questo problema; di fatto, lo Stato così come è esorbita dalla Costituzione in forme tali che è quasi assurdo pensare che ci si riconduca: questo Stato non ridiventerà mai soltanto ministro, legislatore e giudice. Bisogna quindi porsi il problema dello Stato tenendo conto dell'allargarsi, di fatto e secondo me irreversibile, delle sue funzioni. La cui natività non sta tanto nel fatto che ci siano; anzi, è bene che ci siano. Cioè, il controllo del mercato del lavoro non ci dovrebbe essere, è possibile che non ci sia (mi sembra raggiungibile) ma le altre cose ci sono e forse è bene che ci siano: è quasi impossibile pensare che lo Stato non si a banchiere, imprenditore; che non metta le mani nel commercio, ecc., indirettamente o direttamente. Soltanto, queste cose devono avvenire con tutte le forme necessarie di controllo.

Lo stesso tipo di controllo a mio avviso andrebbe chiesto - io non so se ci siano state anche iniziative vostre in questo senso - per tutti i compiti istituzionali che i partiti svolgono. Intendo dire: se questi partiti vogliono essere finanziati dallo Stato e se continuano a fare di fatto la preselezione di tutti gli organi elettivi del sistema politico italiano, locali e nazionali, fino ai comitati di quartiere che sono delle loro emanazioni, delle loro sedi provinciali, seguano delle procedure chiare, esplicite e controllabili di iscrizione, elezione dei propri organi direttivi e di nomina e di elezione delle liste. Questa è la scoperta dell'ombrello, perché le primarie le fanno tutti i Paesi anglosassoni, per dire, e questo non evita imbrogli, anche. Ma il problema di fondo è insomma, che tutte le funzioni istituzionali che i partiti assolvono devono essere o eliminate o in qualche modo garantite, diventare esplicite. La cosa insopportabile, intollerabile è il fatto che tutte queste cose avvengano implic

ita e non detta.

 
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