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Radiconcini Laura - 7 aprile 1978
L'ANTAGONISTA RADICALE: (5) Finanziamento pubblico o autofinanziamento: una scelta
di Laura Radiconcini

SOMMARIO: Gli atti del convegno sullo statuto e sull'esperienza del Parito radicale che si è svolto a Roma all'Hotel Parco dei Principi nei giorni 5, 6 e 7 aprile 1978.

("L'ANTAGONISTA RADICALE" - La teoria e la prassi del partito nuovo, socialista e libertario; e lo statuto e l'esperienza del PR nella società e nelle istituzioni - Convegno del consiglio federativo del Partito Radicale - Roma, aprile 1978)

Laura Radiconcini

FINANZIAMENTO PUBBLICO O AUTOFINANZIAMENTO: UNA SCELTA *

La riflessione del Partito Radicale sul finanziamento pubblico inizia, in modo apparentemente innocente, con l'accettazione del rimborso elettorale. Era questa infatti l'unica parte della legge che ci trovava d'accordo - nella sostanza, se non nella formulazione, - perché per il resto ci pareva - e ci pare - che il diritto dei cittadini di organizzarsi in forze politiche fosse sì, in base all'art. 49 della Costituzione, da tutelarsi anche economicamente, ma non con l'equazione pura e semplice: attività politica = partito = apparato burocratico centrale. Ci sembra invece necessario sostenere l'attività politica in tutte le sue forme, e quindi necessariamente in modo indiretto con una serie di agevolazioni di cui anche i partiti possano naturalmente usufruire, e che se esborso diretto di danaro ci debba essere, questo sia previsto in conseguenza e in relazione ad una qualche attività svolta dal partito nell'interesse della vita politica collettiva; come "rimborso" quindi, come può qualificarsi quello elettoral

e.

Accettammo dunque questo rimborso, con una certa opposizione solo del segretario nazionale del partito, che ne intuiva già alcuni effetti dannosi, e il danaro fu in parte distribuito tra i partiti regionali, per ripianare i debiti della campagna elettorale. Si formò così nel PR una liquidità mai avuta prima e si poté subito osservare "in vitro" i possibili effetti della sovvenzione pubblica. Cessò infatti immediatamente qualunque forma di autofinanziamento, con il risultato di far aumentare i debiti e di incrinare il rapporto tra iniziativa politica e autofinanziamento, di impedire cioè la verifica sia della validità delle iniziative, sia della ``tenuta'' dei militanti, del loro impegno quotidiano, della crescita reale del partito.

Di questi aspetti negativi i radicali non furono pienamente consapevoli, tanto che la decisione adottata al Congresso di Napoli di congelare i fondi del finanziamento pubblico che ci spettavano e che ci sarebbero stati versati a febbraio appare oggi, a ripensarci, dettata soprattutto dalla incapacità di trovare soluzioni, e quindi da una volontà di rinvio. ll regime però aveva già segnato un punto nei nostri confronti: non avendo noi preso alcuna decisione (e tutto essendo quindi possibile) quel danaro era ben presente nel subconscio di quasi tutti i compagni. Nacquero - perché negarlo? - sospesi, aspettative inespresse e, peggio, una generale tendenza alla deresponsabilizzazione. Sapendo di avere soldi in banca abbiamo cominciato a ``spenderli'': ovvero, la campagna dei referendum non veniva affiancata ad una adeguata iniziativa per autofinanziarla, e persino il rinnovo delle iscrizioni era trascurato. Dopo un mese il partito era già indebitato per 170 milioni. La segreteria e il tesoriere nazionale deciser

o allora di convocare un congresso straordinario perché o venisse sanzionato ciò verso cui si stava andando - l'utilizzo del f.p. - ovvero si compisse - ma nessuno a quel punto ci sperava molto - una drastica inversione di tendenza.

Il congresso del maggio 1977 non permise ancora un completo chiarimento, ma si delinearono varie posizioni: alcune giustificazioniste, che invocavano lo stato di necessità, alcune rigidamente contrarie ad un qualunque uso (``né per il PR né per le sue lotte''), altre su una posizione che dicevano ``laica'', la possibilità di utilizzare il finanziamento pubblico non per le strutture di partito ma per fini politici di interesse generale, ed accusavano i rigidamente contrari di peccare di moralismo o di temere e subire il moralismo altrui, con una logica che, a seguirla fino in fondo, avrebbe dovuto portarci a bruciare in piazza le banconote demoniache.

ll risultato fu un compromesso tra queste posizioni; pur non escludendo un futuro utilizzo del finanziamento a fini non diretti di partito, si riconfermava il provvisorio congelamento dei fondi e si dava il via ad una campagna di autofinanziamento quale mai prima di allora avevamo conosciuto. Si trattò della prima vera sottoscrizione nazionale. I contributi erano ricercati con una iniziativa diffusa nel paese, vedendo impegnati in prima persona i partiti regionali, mentre il tesoriere nazionale assumeva la veste di coordinatore generale della raccolta, non più costretto ad elemosinare nell'ambito ristretto del gruppo romano e di alcuni ambienti milanesi.

La sottoscrizione rese in poco tempo 150 milioni, malgrado gli avvenimenti del 12 maggio, le menzogne e la disinformazione con le quali dovemmo misurarci. Per questo possiamo ritenere che si trattò di un grosso successo politico, anche se non riuscì a sanare il "deficit" che i referendum continuavano anzi ad accumulare.

Dopo una lunga e forse inopportuna pausa estiva giungemmo al congresso di Bologna, animati tutti dalla convinzione che fosse necessario trovare una soluzione per quanto possibile definitiva. La misura del malessere che questo problema irrisolto ci procurava è anche riscontrabile dallo scarso numero di proposte concrete che i compagni furono in grado di formulare nel dibattito precongressuale.

Cominciò così ad apparire chiaro a molti che non tanto avevamo bisogno di usare il finanziamento pubblico quanto di allontanarlo definitivamente dal partito, in un modo però che fosse politico. Ogni proposta di utilizzo infatti portava con sé sospetti di spartizione, minacciava di dividerci in modo meschino, rischiava di avere un costo troppo alto e inaccettabile. Spogliarci del finanziamento pubblico, dunque, e spogliarcene senza indicazioni sull'uso; perché decidere di spendere per qualcosa e dar mandato ad altri di farlo non è molto diverso dal farlo in proprio, e non ci avrebbe evitato, tra l'altro le lacerazioni che temevamo. Ma chi doveva essere il destinatario di una simile donazione?

La soluzione infine, non certo pacificamente, adottata, di consegnarli al gruppo parlamentare ci permise sia di rispedirli - non solo simbolicamente - alle istituzioni sia, in pratica, di darli a radicali (che come tali ci garantivano), i quali però non facevano parte del partito: questi avrebbero risposto del l'uso che senza preventivo vincolo alcuno avrebbero deciso di farne non a noi come partito, ma agli elettori radicali (che con il loro voto avevano reso possibile il finanziamento).

Questa decisione ``scandalosa'' costituisce oggi elemento di contraddizione all'interno di tutti i partiti, sia per come è stata presa, con un ampio dibattito a cui tutti gli iscritti in Congresso han potuto partecipare, sia perché rivaluta effettivamente la figura del parlamentare - cui la Costituzione affida compiti senza che nei fatti esso possa renderli operativi - rendendolo indipendente e dandogli finalmente strumenti adeguati.

La speranza - però - che si aprisse all'interno della sinistra un dibattito sulla natura stesa dei partiti, sul loro modo di organizzarsi, su quale sia il rapporto costituzionalmente corretto tra deputati eletti e loro partito di provenienza è stata elusa. Il dibattito non c'è stato. La cattiva coscienza che tutti indistintamente gli altri partiti coltivano è tale che anche le contumelie antiradicali, in altri casi rigogliose, sono state, su questo tema, assai contenute e possiamo ricordare solo gli scomposti balbettii dell'on. Preti, la manina infastidita dell'on. Natta in televisione: ``tu li ha presi, Pannella, tu li ha presi'', e due articoli su "Rinascita", volutamente mistificatori in quanto ribadiscono la volontà di non capire - non dico approvare o ritenere sinceri - i rapporti che intercorrono tra partito e gruppo radicale. Appare quindi chiaro che pur di non parlare del finanziamento pubblico, e soprattutto pur di impedire ai radicali di parlarne, si rinuncia perfino ad una occasione di insulto e d

i polemica.

In verità nessun argomento, che come questo coinvolgesse tanti problemi di carattere costituzionale e istituzionale e un tale esborso di pubblico danaro (esborso produttivo? A suo tempo perfino l'on. La Malfa tacque e approvò, pure se quello della spesa pubblica corrente era già allora il suo cavallo di battaglia favorito) è stato forse mai meno dibattuto del paese. Nella relazione introduttiva al progetto di legge l'on. Galloni, volendo dimostrare quanto ampiamente essa fosse stata discussa, non trovò altro in tutto il decennio 1960-1970, al di là di qualche isolata presa di posizione di questo o quel parlamentare, che tre convegni - per pochi intimi - dell'ISLE, del Club Turati, del Mov. Salvemini, e infine l'azione di un fantomatico e occasionale ``movimento di opinione pubblica''.

Nato nel tentativo di rabberciare lo scandalo dei petroli, il progetto di legge venne presentato alle camere il 20 marzo 1974. Il dibattito, fino all'approvazione definitiva, durò in tutto sedici giorni (compresa la chiusura pasquale della Camera) e all'unica tribuna politica televisiva sul tema non furono invitati i liberali, gli unici contrari al finanziamento pubblico. Da allora silenzio. Neppure un rigo dai nostri loquaci politologi, Galli compreso, tanto che per documentarmi non ho trovato nulla di più aggiornato del volume, datato agosto '74, pubblicato a cura del Senato e che contiene gli atti parlamentari. Tuttavia è proprio da una attenta lettura di questi brevi ``Dialoghi dal Palazzo'' - perché di questo in definitiva si tratta - che possiamo partire per confrontare le tesi che in tale occasione furono esposte con le nostre: come spesso accade, si vedrà che gli spunti migliori ce li forniscono proprio i partigiani della legge, piuttosto che i pur dignitosi detrattori. Cominciamo comunque da questi

ultimi.

La prima opposizione è d'ordine costituzionale: con questa legge s'instaura una sorta di identificazione tra due entità giuridiche distinte, Gruppo parlamentare (che facendo parte della struttura legislativa dello Stato è certamente figura del diritto pubblico) e partito (che, giustamente, è regolato dal diritto privato e si configura come una associazione di fatto) e si crea un meccanismo debitorio del Gruppo verso il partito, meccanismo certamente in contrasto con il principio della indipendenza del parlamentare (art. 67 Costituzione). Questo, tra l'altro, per evitare il controllo della Corte dei Conti, sostituito da un controllo meramente formale della Presidenza della Camera (la parola ``bilancio infedele'', venne molto opportunamente sostituita da bilancio ``irregolare''). Il fatto poi che i revisori dei conti vengano designati d'intesa dalla Conferenza dei capigruppo faceva esprimere perfino al repubblicano Cifarelli il fondato timore che qualcuno (naturalmente ``qualunquista'') avrebbe potuto dire che

in definitiva i revisori vengono nominati da coloro che poi debbono essere controllati''.

l liberali esprimevano la preoccupazione che la legge non avrebbe impedito ulteriori scandali e finanziamenti occulti (che era - dichiaratamente - la principale ragion d'essere della proposta) facendo notare che comunque i meccanismi di difesa erano insufficenti, ed in particolare quello che definiva illeciti solo i finanziamenti provenienti da società che avessero una partecipazione statale superiore al 20% (la ``Montedison'' ha il 17%). Preoccupazioni giustificatissime se oltre a ricordare i traghetti d'oro di Gioia, i prefabbricati d'oro del Friuli, lo scandalo SIAI-Marchetti, la Caproni, lo scandalo delle assicurazioni del DC Bisaglia (tutti casi successivi alla, legge), vogliamo citare le parole di Terracini: ``Possiamo noi credere veramente che, allo stato delle cose, il finanziamento statale dei partiti, piuttosto generoso, abbia posto fine alla deprecata abitudine della ricerca di denaro privato a sostegno di azioni nettamente contrastanti con l'interesse pubblico? Non solo non metterei una mano sul

fuoco, ma non rischierei nemmeno una parola in proposito, tanto sono convinto che l'afflusso dei finanziamenti di carattere quanto meno equivoco e torbido continua a verificarsi nei confronti di certi settori politici'' (cfr. "Nascita della Costituzione", Editori Riuniti 1978).

l liberali dicevano ancora che un finanziamento concesso alle segreterie nazionali dei partiti, senza alcuna garanzia per le strutture periferiche e men che mai per le minoranze interne, avrebbe accentuato la burocratizzazione e il centralismo - in contrasto pieno, tra l'altro, con il grande decentramento che proprio in questi anni è stato attuato in tutto il Paese - fornendo ai vertici dei partiti lo strumento per soffocare il dibattito interno e cristallizzare così la vita politica.

Aggiungevano che con la legge si veniva a creare una illegittima equazione tra diritto - riconosciuto e da tutelare - all'associazione politica e partito in "senso stretto", quasi non esistessero e non meritassero riconoscimento e tutela "tutte" le altre forme di associazionismo politico: leghe, movimenti - anche a carattere locale - e forse anche i sindacati.

La legge infine, finanziando i partiti già presenti in Parlamento, li mette in condizione di superiorità e di vantaggio rispetto a nuove formazioni politiche, pietrificando la situazione esistente e violando palesemente l'art. 49 della Costituzione, perché il diritto dei cittadini di associarsi in partiti viene a configurarsi, secondo la legge, in un diritto diarie A per i cittadini che si associano a quelli già esistenti e in un diritto di serie B per coloro che vorranno associarsi a quelli nuovi.

Penalizzando nuove formazioni politiche si rischia di prolungare artificialmente la vita di vecchie organizzazioni che scomparirebbero, una volta che non avessero più un sostegno adeguato di iscritti e sostenitori. E non si vede qual male ci sarebbe nella scomparsa di un partito, se questa scomparsa viene causata non da discriminazioni attuate da altri nei suoi confronti, ma dal semplice impoverimento della sua capacità di proposta politica; (qui c'è da dire che i liberali, sollevando questo tema, non avevano forte coscienza di parlare di sé: osservando il loro bilancio si può vedere come l'autofinanziamento sia sceso a livelli irrisori, e questo malgrado che l'elettorato liberale appartenga alla borghesia facoltosa, tanto che senza il contributo pubblico avremmo probabilmente già assistito alla scomparsa di questa formazione.

Ultimo argomento da ricordare - che però non era tra quelli messi particolarmente in evidenza, mentre lo è per noi radicali - è quello dell'indebolimento dello spirito militante dei cittadini, non più chiamati a tenere in vita con il loro contributo e la loro partecipazione un partito, che potrà benissimo rendersi autosufficiente dai propri iscritti, avvalendosi di burocrati e galoppini a pagamento, sanzionando l'esistenza di ciò che in gergo si chiama la ``classe politica''.

Questi i principali argomenti dei liberali. Ma, come dicevo innanzi, forse spunti ancora più fecondi possono esserci dati dagli interventi di coloro che erano invece fautori della legge. Ad esempio, l'on. Galloni, dopo aver ammesso che ``il provvedimento in questione non risolve tutti i problemi e deve essere portato in un contesto più ampio, di altri provvedimenti ugualmente necessari e urgenti'' passa a fare questo elenco: ``...si tratta di conciliare questo finanziamento con il rispetto della norma costituzionale che garantisce la funzione del parlamentare senza vincolo di mandato... si tratta di garantire al parlamentare l'autonomia nel libero esercizio del suo mandato'' (e questa legge come vediamo lo vincola come minimo al pagare il 95% del finanziamento al suo partito) - e il sottosegretario Sarti gli fa eco: ``non possiamo sottrarci ad affrontare la questione dello "status" del parlamentare e delle garanzie della sua autonomia...''.

Continua poi Galloni: ``E' necessario generalizzare il sistema della dichiarazione della consistenza patrimoniale e dei redditi di tutti coloro che accedano a una carica pubblica...''. E qui, buio profondo: anche la pregevole proposta di legge dell'on. Nicola Lettieri è rimasta tale, mentre si tarda molto a trovare compiuta soluzione al problema dell'immunità parlamentare, pure sollevata. Qualche risposta si è invece data là dove si diceva che ``è opportuno rivedere e riordinare in modo organico il sistema delle incompatibilità...''.

Galloni (e gli fanno eco in particolare gli interventi del PCI) prosegue poi affermando: ``E' necessario moralizzare il sistema del sottogoverno negli enti pubblici e portare avanti la riforma della società per azioni''. Davvero, sul problema della ``moralizzazione'' c'è molto da dire oggi - trascorsi 4 anni dall'approvazione di questa legge, anni in cui il PCI si è avvicinato ed infine è entrato nell'area della maggioranza. Il Partito Comunista era infatti la maggior speranza di un grande mutamento in tutto il settore pubblico dell'economia. Si sperava cioè che affermasse e sostener non solo persone diverse ma soprattutto un diverso metodo di scelta delle persone chiamate a dirigere gli enti pubblici. Le vicende delle nomine (per esempio alla RAI-TV o al Monte dei Paschi) non tanto sono gravi in sé, quanto sono spia che questo rinnovamento nei metodi non c'è stato. Se casi come quello Crociani oggi non son forse più possibili, un diverso tipo di corruzione minaccia l'economica pubblica, quello della deistit

uzionalizzazione: il necessario momento delle scelte politiche, anziché avvenire rigorosamente all'interno delle istituzioni preposte ad esse, (Governo, ministeri, commissioni miste, commissioni parlamentari) avviene al di fuori, nelle trattative dirette tra i partiti. Trattative in cui il PCI fa oggi valere tutto il suo peso, sanzionando un metodo che fino ad ora aveva il suo punto di debolezza proprio nella non partecipazione dei comunisti, mentre non sembra sufficiente a salvarne la coscienza l'esistenza della Commissione parlamentare presieduta da Spaventa, i cui modesti strali contro questo o quell'altro papavero non paiono aver sortito effetto rilevante.

Anche la riforma della Società per azioni è ancora di là da venire. Ed è infantile pensare che l'interessato aiuto del capitale avvenga prevalentemente in somme di denaro direttamente erogate, e come tali scrivibili in un bilancio. I Crociani, i Sindona, i Lefebvre ci dicono di quale fantasia disponga il capitale per giungere alle destinazioni volute! Non sarebbe forse interessante un censimento genealogico dei concessionari e gestori delle varie Società assicuratrici, mutuali stiche, petrolifere ecc.? E non possono essere ugualmente elusive e profittevoli le possibili manovre sul greggio, il gioco sulle bollette dell'Import Export e cosi via?

Ma forse una delle più grosse remore alla riforma delle SpA i partiti del finanziamento pubblico la trovano proprio nel sistema di bilancio e di controlli che si sono dati. Come si può pretendere maggiore analiticità dai bilanci delle SpA e la fine della commistione controllori-controllati, se proprio il bilancio tipo previsto dalla legge sul finanziamento pubblico permette di nascondere praticamente tutto, e non dà alcuna garanzia di reale pubblicità del l'attività finanziario-economica dei partiti?

Abbiamo passato in rassegna un'elenco abbastanza impressionante di cose che a detta dei proponenti avrebbero dovuto esser fatti ``contestualmente'' alla legge stessa, e di cui oggi restano poche tracce; questo, direi, è uno dei motivi per cui ci rifiutiamo di proporre modifiche alla legge sul f.p. Davanti a tante totali e parziali inadempienze non v'è che ripartire da zero per dare concreta attuazione all'art. 49 della Costituzione, tanto più che siamo profondamente insoddisfatti anche delle soluzioni date all'altro problema pure sollevato dai comunisti in relazione al dibattito di allora: quello dell'informazione pubblica, stampa, radio e televisione.

Le considerazioni sul dibattito sul finanziamento pubblico non sarebbero complete se però soprattutto non rispondessimo a quanto fu detto dal gruppo socialista, uno dei principali sostenitori della legge. Affermava l'on. Mariotti: ``Dall'articolo 49 della Costituzione, nell'impossibilità da parte dei partiti di autofinanziarsi, abbiamo sempre dedotto la conseguenza del finanziamento pubblico. Che i partiti non siano in grado di autofinanziarsi è un fatto noto fin dalla rinascita della vita democratica italiana, dopo la liberazione''.

Con tanta sicurezza viene pronunciata questa affermazione che vien da domandare - tanto più che poco più oltre dice anche che``... lo stanziamento fissato... non è certamente consistente'', cioè che i soldi sembrano ancora pochi - se non sia il caso, visto il tempo trascorso e la svalutazione, di rivalutare adeguatamente, cioè più o meno di raddoppiare le quote del contributo pubblico! E non è peregrino qui porsi un interrogativo: il sostanziale dimezzamento dell'f.p. causato dall'inflazione significa forse che la corruzione e i fondi neri hanno ripreso il loro vigore, o invece che di esso si può fare a meno?

Noi ci sentiamo di affermare, non tanto in base alla conclamata esperienza del Partito Comunista, ma soprattutto in base alla nostra storia, che può essere che un partito non sia in grado di autofinanziarsi, ma questo dipende non dal fatto che l'autofinanziamento sia impossibile, ma dal tipo di partito, dal suo modello organizzativo.

E a mettere in discussione i modelli di partito esistente ci sentiamo tanto più legittimati in quanto anche questo argomento è stato toccato in quella ricca miniera di ``perle'' che è il volumetto edito dal Senato: ``ll regime dei partiti, è vero, attraversa momenti di crisi acuta, da cui non potrà uscire, pena la sua stessa dissoluzione, se non con un'opera di profondo rinnovamento, e risanamento. Il sistema oggi vigente dei partiti va rinnovato, va risanato...'' Dunque non siamo soli ad interrogarci su questo, a meno che queste parole dell'on. Cossutta non siano state di quelle che contingentemente si profferiscono quando si voglia ottenere qualcosa per mostrare la propria serietà e consapevolezza, e che subito dopo si dimenticano, una volta ottenuto ciò che si voleva.

Un modello di partito diverso, dicevamo, e a questo proposito vorrei mettere in luce alcuni fatti: il Partito Radicale ha speso lo scorso anno per il suo ``apparato'' 120 milioni, incluse le spese di stampa, una cifra modesta che in scala potrebbe essere affrontata da qualunque partito con i soli proventi di un tesseramento non meramente simbolico (in proporzione, il PSI se la caverebbe con poco più di un miliardo). Se il PR é dovuto ricorrere alla decisione, validissima ma un po' estrema, della autotassazione progressiva degli iscritti, il motivo è stato il deficit causato non certo da una lievitazione delle spese di ordinaria amministrazione ma da quelle della sua iniziativa politica, nello specifico gli 8 referendum.

l costi della iniziativa referendaria però sono stati soprattutto costi di informazione, spese varie per pubblicizzare i referendum, che hanno dovuto essere sostenute per sopperire al silenzio degli organi di informazione, pubblica e privata. Se l'informazione non fosse mancata, da un lato avremmo avuto meno spese e dall'altro maggior entrata. I referendum sarebbero stati probabilmente ripagati per intero dai cittadini che condividevano le richieste. Questo è dimostrabile per analogia. Ad esempio, quando due anni fa al digiuno di Pannella seguì l'ora di ``riparazione'' in televisione, il PR raccolse in brevissimo tempo per le sue in iziative la somma, iperbolica per il partito di allora, di 60 milioni.

Nel 1977 invece, mancando l'informazione, tutti i costi gravarono sul partito, che non volle però ricorrere per questo al f.p., sapendo anche che sarebbe stata una strada senza uscita: non c'è infatti finanziamento adeguato ai costi dell'informazione, se si pensa che con 800 milioni si potrebbero pubblicare annunci a pagamento su tutti i quotidiani italiani per una sola settimana.

Abbiamo così postulato una condizione: l'autofinanziamento è possibile, purché vi sia l'informazione pubblica e purché i costi del partito-apparato siano contenuti. Ecco profilarsi l'immagine di un partito snello, che spende molto solo quando fa molta iniziativa politica su progetti precisi, che proprio per esser tali possono con facilità incontrare l'approvazione e il sostegno di larghe masse di cittadini - non necessariamente elettori di quel partito - i quali aderendo al singolo progetto provvedono a finanziarlo.

Con lo stesso spirito, intorno al partito, si articolano leghe e movimenti, provvisti della massima autonomia, che si federano al partito per periodi più o meno lunghi, finché durano i comuni motivi di convergenza politica o ideale, e che per la durata del patto federativo si assumono anche essi un impegno finanziario, entrando in cambio a far parte degli organi statutari. Questa logica federativa permette anche il sorgere spontaneo di cooperative, tramite le quali sia possibile realizzare strumenti di informazione politica e culturale non ``del partito'' ma vicini al partito, e tuttavia autonomi e autogestiti.

Va da sé che molto di quanto detto fin qui è lungi dall'essere realizzato, anche perché quasi tutte le premesse, soprattutto informazioni e servizi, non esistono; però è importante averne parlato, e non come di una utopia, ma come di una speranza che può e deve essere realizzata.

Giungiamo cosi alle conclusioni: il referendum sul finanziamento pubblico ci viene lasciato probabilmente solo perché, malgrado tutto, questa legge non è un pilastro del regime, ne è solo un puntello. Pilastri erano certamente il Concordato, il Codice Rocco, i codici militari, come profondamente destabilizzante del regime sarebbe il referendum sull'aborto, con tutte le sue implicazioni. A queste cose si è provveduto, ora si cerca (su questa legge, proprio perché, isolata dal contesto referendario in cui si inseriva, non é centrale) un plebiscito contro di noi. Promettendo di impegnarci perché plebiscito non sia, terminiamo richiamando queste affermazioni: ``Per quanto ci riguarda avremmo preferito altre soluzioni, e più precisamente soluzioni volte a garantire ai partiti più che un contributo finanziario diretto, una serie di misure atte a favorirne indirettamente l'attività: dalle facilitazioni ad esempio a favore della stampa, alla messa a disposizione di sedi e locali in ognuno dei diecimila comuni italia

ni e in ognuno dei quartieri delle grandi città, alla riforma democratica del servizio, che è pubblico e dello Stato, della radio e della televisione''. Ecco, compagno Cossutta e compagni comunisti, voi "avreste" preferito; noi "continuiamo" a preferire.

 
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