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Vattimo Gianni - 7 aprile 1978
L'ANTAGONISTA RADICALE: (11) Politica laica e politica ideologica
di Gianni Vattimo

SOMMARIO: Gli atti del convegno sullo statuto e sull'esperienza del Parito radicale che si è svolto a Roma all'Hotel Parco dei Principi nei giorni 5, 6 e 7 aprile 1978.

("L'ANTAGONISTA RADICALE" - La teoria e la prassi del partito nuovo, socialista e libertario; e lo statuto e l'esperienza del PR nella società e nelle istituzioni - Convegno del consiglio federativo del Partito Radicale - Roma, aprile 1978)

Gianni Vattimo

POLITICA LAICA E POLITICA IDEOLOGICA

Tra le richieste di autocritica che si pongono oggi alle culture di sinistra, anche in seguito agli sviluppi del terrorismo, una è certamente legittima e va presa estremamente sul serio in vista di un discorso sul partito, sui suoi metodi e sui contenuti della sua azione politica. E' l'esigenza di ripensare il senso della laicità della politica, contro un'abitudine teorico-pratica che ha lasciato a lungo prevalere una concezione "ideologica" di esse. All'esigenza di questo ripensamento autocritico la cultura di sinistra sembra voler ancora una volta sfuggire, almeno nella misura in cui al discorso sullo Stato, ridivenuto drammaticamente di attualità in occasione del caso Moro e dei suoi sviluppi anche recenti, oppone un atteggiamento che, dietro il richiamo a valori libertari o umanitari, cela una preoccupante insensibilità al problema della difesa dello Stato di diritto. In questo atteggiamento si ritrova, estremizzato, quello che è uno degli elementi caratteristici di una visione e pratica ideologica, non

laica, della politica, cioè il rifiuto di porre esplicitamente il problema dello Stato. Esempio di una politica ideologica in questo senso è, com'è facile pensare, il marxismo, in quanto proprio in so manca una teorizzazione specifica dello Stato. Da un lato, infatti, lo stato borghese è pensato solo come il comitato d'affari della borghesia, come organizzazione della dittatura di classe della borghesia sul proletariato; d'altra parte, la rivoluzione proletaria deve condurre a una trasformazione della società civile tale che lo Stato sparirà. Nella fase rivoluzionaria intermedia, lo Stato si configura come dittatura del proletariato che si contrappone allo Stato borghese e lo sostituisce funzionando come dittatura della classe proletaria sulla borghesia spodestata. Tutti sanno che questa fase ``transitoria'' della dittatura del proletariato, nella società comuniste europee, non è mai finita; il risultato è che, proprio in nomee della pretesa transitorietà, la teoria continua a non porre il problema dello "St

ato" socialista; mentre il fatto che lo Stato sia alla fine destinato a sparire giustifica l'adozione pura e semplice delle forme dittatoriali e totalitarie più estreme che lo Stato ha assunto in certi momenti della teoria della storia del dominio borghese.

Questa assenza di una teorizzazione dello Stato non è però un fatto casuale, una carenza tecnica della teoria, a cui si possa rimediare con l'aggiunta di un capitolo. E' in fondo in questo limitato senso che la prendono i teorici comunisti della ``autonomia del politico''; almeno in quanto rifiutano di considerare il fondo del problema. Il quale è, a mio parere, che la mancanza di una teoria dello Stato è diretta conseguenza di una filosofia della storia dominata dalla categoria di "totalità", e in questo senso precisamente tale posizione si può chiamare ideologica in contrapposizione a una politica laica. La categoria di totalità, in questo contesto, significa che si suppone una continuità diretta tra società civile e Stato, che sono ritenuti costituire una totalità rotta solo ``in apparenza'', cioè nella situazione ``falsa'' (di falsa coscienza e falsa prassi) caratteristica della società borghese. Basta rovesciare il dominio della borghesia perché si instauri la buona totalità, l'armonia schilleriana dell

a società senza classi, senza divisione del lavoro, senza Stato.

L'assenza di una teoria dello Stato e del potere statale nel marxismo - e in molta cultura di sinistra che ad esso si ispira - è conseguenza coerente, non accidentale, di questa filosofia della storia. Proprio l'uso della categoria di totalità, non in senso critico (cioè non nel senso che ha, poniamo, in un Adorno), ma in un senso che l'assume nei termini hegeliani, è la base del carattere non-laico di questo atteggiamento, in teoria e in pratica. In altri contesti, posizioni di questo tipo si sono a lungo chiamate ``integralismo''. Ma si può indicare questa posizione come ``ideologica'' (in opposizione non a ``scientifica'' o ``teorica'', ma a ``laica'') perché l'uso hegeliano della categoria di totalità, cioè la presupposizione che la totalità conciliata sia a portata di mano, è sempre ideologica, e cioè lo spaccio di una illusione per verità, lo scambio di un dover-essere (utopico, aggiungerei) con l'essere.

Ora, però, proprio questa filosofia della storia è una delle poche basi chiaramente unificanti della cultura di sinistra. Le vie alternative, come quella della ``autonomia del politico'', sono in realtà solo versioni attenuate di questa filosofia della storia fondata sulla categoria di totalità, e non offrono basi davvero diverse. Le implicazioni di questa filosofia della storia in sede politica sono esposte nel modo più significativo in "Storia e coscienza di classe" di Lukacs. La popolarità di cui quest'opera ha goduto e gode nella cultura di sinistra non ortodossa, sessantottesca - popolarità che si fonda sulla presenza in essa di tematiche più tardi riprese dal ``movimento'' (come una certa critica della pretesa neutralità della scienza) - ha a lungo impedito di rendersi conto dell'anima profondamente leninista che la ispira. Il senso totale della storia è afferrato, nella nostra società, da una classe, il proletariato, che è capace di coglierlo in quanto non ha limitazioni ideologiche, perché è, in form

a virtuale e incoativo, l'uomo generico, l'uomo puro e semplice. Ma la classe ha bisogno del partito per muoversi verso una presa di coscienza completa; con tutte le conseguenze che ciò comporta. Il Lukàcs successivo, dell'accettazione dello stalinismo, è rimasto in sostanza fedele a questo aspetto essenziale delle sue posizioni giovanili.

La cultura di sinistra è profondamente tributaria di questa filosofia della storia, anche se ne rifiuta le implicanze leniniste; diciamo che l'accetta come base della critica alla società capitalistica, anche se poi non ispira immediatamente ad essa la propria politica. Tuttavia, e la questione della violenza terroristica è solo un ulteriore passo in questa direzione, il problema si pone e si porrà in modo sempre più urgente. Non si possono chiarire i termini di un'azione politica sulla base di una posizione teorica ``debole'' o doppia.

C'è però un'alternativa praticabile? I sostenitori dell'autonomia del politico affermano che bisogna portare fino in fondo il riconoscimento della molteplicità dei ``linguaggi'' che si ``parlano'' nella nostra società, rinunciando a qualunque istanza di leggittimazione globale. La politica è un'istanza tecnica fra altre, che non può avanzare pretese di egemonia, ma ha un suo ``gioco'' specifico le cui regole vanno conosciute e applicate, come nel caso di ogni altro ``gioco'' che si svolge nella società. Con il rischio, però, non tanto astratto, di assumere che il mondo è in ordine così com'è, confondendo con la pura ideologia ogni posizione che si voglia porre un atteggiamento critico globale nei confronti dell'ordine esistente. L'autonomia del politico, attraverso passaggi che non è qui il caso di documentare nei dettagli, si pone come la teoria del compromesso storico.

Una posizione che parte anch'essa dalla molteplicità dei ``giochi'' ma non li lascia sussistere nella loro struttura "data" (accettando dunque che ciò che è reale è razionale) è quella dei teorici francesi del desiderio: Deleuze, Guattari, Lyotard. Qui la molteplicità delle pratiche sociali non è presa come pacifico quadro di suddivisione di campi, di ``disciplina''. di attività; ma come proliferare di sempre nuovi ``discorsi'', che funziona proprio come istanza critica nei confronti delle suddivisioni già esistenti. Qui la categoria di totalità non è abbandonata a favore di una fede altrettanto metafisica nella molteplicità; ma è fatta oggetto di una operazione di trasformazione e di negazione attraverso una pratica della molteplicità derivante, nomade, ecc. Se l'autonomia del politico è la teoria del compromesso storico, questa posizione è tale che in essa si può riconoscere molta della pratica radicale di questi ultimi anni: lotta per i diritti civili, presa di coscienza di minoranze emarginate di vario t

ipo. Tuttavia, anche in questa posizione, se la totalità è effettivamente negata a livello pratico, resta aperto il problema di come ottenere che le pratiche sociali di trasformazione a livello di piccoli gruppi e di individui incidano nelle istituzioni.

Ma questo tipo di negazione della totalità - quali che siano i problemi ancora aperti per farlo ``fruttare'' a livello di macropolitica - contiene un'importante indicazione, che va tenuta presente per evitare che la critica delle debolezze teoriche della filosofia della storia marxista non si risolva in una pura e semplice riaperta del liberalismo classico. Il liberalismo classico si presenta come la teoria di uno Stato che garantisce semplicemente lo spazio di gioco per un dialogo, e conflitto, sociale che si suppone svolgersi tra soggetti ``uguali'' e ``ultimi''. La critica marxista ha fatto giustizia di queste illusioni: l'uguaglianza non è il punto di partenza dei soggetti del dialogo sociale, ma eventualmente il punto di arrivo. Non solo: questi soggetti non sono centri non ulteriormente riducibili, non sono principi primi di scelta e di azione, ma a loro volta sono già il prodotto di mediazioni complesse: è quel che si vede nel fatto che i mass-media determinano, in modo non esplicitamente coattivo, le

preferenze e le scelte ``spontanee'' dei soggetti del dialogo sociale. Ora, una posizione radicale si può forse definire quella che riprende il liberalismo classico con in più - ma l'aggiunta modifica ovviamente l'insieme - "la consapevolezza del carattere non-ultimo dei soggetti del dialogo sociale". Ciò naturalmente pone tutta una serie di problemi e comporta anche enormi rischi, giacché proprio sulla presupposta ``ultimezza'' e conseguente ``sacralità'' dei soggetti si fondava anche il rispetto che lo Stato doveva alle loro scelte, le quali venivano limitate solo quando minacciassero la ``ultimezza'' delle scelte degli altri.

Ma oltre a questi rischi, in questa posizione ci sono anche caratteri positivi, che qui intendiamo sottolineare: anzitutto l'idea che il dialogo sociale debba "mettere in gioco" i soggetti che vi entrano, non solo garantire loro un campo di scontro che li mantenga in una irriducibile esteriorità. Si potrebbe dire che qui il dialogo sociale è concepito come una specie di psicanalisi collettiva (senza però la figura dell'analista-padre), come la generalizzazione di un consapevole esercizio ermeneutico.

E' difficile dire quali conseguenze derivino, da questo modo di concepire la vita sociale e il ``compito'' dello Stato, in vista di un articolato programma politico. La prima conseguenza è certamente che la politica non potrà ignorare che i soggetti i cui diritti essa mira a garantire non sono soggetti idealmente uguali, ma profondamente marcati, nella loro costituzione intima, da strutture socio-psicologiche che devono essere messe in gioco, fluidificate, nel dialogo sociale. E' questo il senso dello slogan, profondamente radicale, ``il privato è politico''. Tale slogan non va però interpretato alla luce di una filosofia della storia improntata all'idea di totalità; come se significasse che, appunto come vuole il marxismo, lo Stato è destinato a scomparire, insieme a ogni differenza tra società civile e Stato. Questo slogan significa invece, secondo noi, che i soggetti dei diritti garantiti dallo Stato sono soggetti in divenire e in trasformazione nella loro costituzione intima, e che la vicenda di questa t

rasformazione terreno di azione politica, qualifica profondamente l'azione politica. Questa irruzione del privato nel politico, senza pretese totalitarie di identificazione, è anche il senso concreto che può avere in termine rivoluzione per chi non ha alcuna fiducia nella portata rigeneratrice della violenza e delle armi. Del resto, il potere è già largamente passato dallo Stato (apparati repressivi ecc.) al capitale stesso, che lo esercita attraverso le mille articolazioni mediante le quali interviene nella nostra vita: merci, pubblicità, informazione. In queste condizioni, la presa del Palazzo d'Inverno è un'illusione, non trasforma nulla ma cambia solo i gestori dell'apparato statale. La messa in gioco dei soggetti nel dialogo sociale distrugge là dove essi hanno le loro radici ultime, appunto nell'intima costituzione degli individui.

Laicità della politica non significa dunque necessariamente solo l'accettazione, per lo Stato, di un compito ``garantista'', che presuppone l'assunzione dei soggetti dei diritti come soggetti ``ultimi''. Si tratta di elaborare una teoria e una pratica che coinvolgano i soggetti nella loro costituzione intima, senza far ricorso a ideologie totalizzanti. E' possibile, insomma, una politica laica e libertaria non tributaria dell'ideologismo marxista dominato dalla categoria di totalità? La pura enunciazione dell'esigenza non fa fare molti passi avanti, ma sgombra almeno il terreno dagli equivoci ideologici che hanno finora ostacolato anche la semplice posizione del problema.

 
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